Fuorilegge e pirati nell’Antica Roma

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FUORILEGGE E PIRATI NELL’ANTICA ROMA

La legge romana distingueva chiaramente i nemici dai fuorilegge: “I nemici sono coloro che ci hanno dichiarato guerra o a cui noi abbiamo dichiarato guerra, mentre tutti gli altri sono latrones”.

Il termine latro indicava quindi colui che si opponeva in qualche modo allo Stato rifiutandone le istituzioni e che pertanto dallo Stato veniva perseguito fino alla morte. Era insomma un fuorilegge, senza che il diritto romano distinguesse fra il brigante di strada, il capobanda, il pirata, l’avversario politico o il disertore. In realtà, era talvolta la stessa giurisprudenza romana a dettagliare le caratteristiche di queste figure, talvolta rifacendosi anche ad esempi più antichi: viene talvolta citato Emo di Tracia, nato e vissuto tra i briganti, che descriveva se stesso come “il capo di una famosissima banda in grado di saccheggiare tutta la Macedonia, un predone famoso di quelli al cui nome tremano intere province, un neonato nutrito di sangue umano, allevato in mezzo alle schiere della banda di mio padre”. Altri famosi e indomiti banditi, solo per citarne alcuni, furono Palfuerio, vissuto in Asia Minore durante l’impero di Probo, Bulla Felix, Cleone di Gordio, lo spagnolo Corocotta o l’africano Tacfarinas.

Anche gli avversari politici potevano essere denominati latrones: con tale appellativo, infatti, Cicerone indicò nelle sue orazioni sia Clodio che Catilina, e lo stesso Ottaviano accusò Antonio e Sesto Pompeo di essere rispettivamente un brigante e un pirata.

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LE TIPOLOGIE DI FUORILEGGE

Ma come si diventava banditi? Se nel caso di Emo di Tracia si vantava la discendenza da un famoso e sanguinario predone, erano molto più spesso l’isolamento e l’emarginazione a dirigere la persona verso una condotta di vita violenta, magari preda di un forte desiderio di rivalsa e vendetta nei confronti delle istituzioni e degli altri individui. Molti si questi fuorilegge erano poveri, spinti dal miraggio di facili guadagni, o schiavi desiderosi di cambiare la propria sorte tramite furenti rivolte, o ancora brutali pastori che, a causa della loro esistenza isolata e solitaria lontano dalle città, conducevano la loro esistenza al limite del brigantaggio.

Nella difficoltà di catturare i singoli esponenti di questo “brigantaggio”, il governo dell’Antica Roma si trovò spesso costretto ad emanare severe misure nel tentativo di arginarlo, con provvedimenti talvolta anche singolari, come l’interdizione dell’uso del cavallo nella zona dell’Irpinia, allo scopo di limitare la libertà di movimento dei pastori-banditi.

Un’altra categoria di potenziali fuorilegge era costituita dai disertori e dagli ex militari di carriera: soprattutto per questi ultimi si rivelava talvolta estremamente difficile, dopo una lunga vita regolata da una rigida disciplina e allenata all’uso delle armi, riuscire una volta congedati ad accontentarsi di quel poco che poteva offrire la coltivazione dei campi. Molti veterani quindi, mettendo a frutto esperienza e doti militari, preferivano darsi alle rapine e quindi ai facili guadagni piuttosto che trascorrere i loro ultimi anni in un probabile stato di indigenza.

Si pensi, ad esempio, al caso di Giulio Materno, raccontatoci da Erodiano nella sua Storia dell’Impero Romano dopo Marco Aurelio: militare di carriera e disertore all’epoca dell’Imperatore Commodo, Giulio Materno era riuscito a riunire un gran numero di seguaci con i quali razziava i villaggi e le campagne della Gallia e della Spagna. Pare che una sua particolare prerogativa fosse quella di aprire tutte le carceri e liberare i malfattori che vi erano rinchiusi e che così andavano ad infoltire le sue fila, tanto che, come dice Erodiano, “le sue forze potevano ormai paragonarsi ad un esercito invasore, piuttosto che ad una banda di briganti”. Esaltato dai facili successi dovuti all’impotenza dei governatori delle province, teatro delle sue scorrerie, Materno decise ad un certo punto addirittura di penetrare in Roma ed autoproclamarsi imperatore. Infiltratosi segretamente in Italia ed approfittando dei festeggiamenti in onore di Cibele (durante le quali era permesso mascherarsi a piacimento), si travestì da pretoriano insieme ad un gruppetto di fedelissimi. Un delatore facente parte della sua combriccola, però, riferì tutto all’Imperatore che, fatto catturare Materno, lo condannò alla decapitazione.

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Anche il successore di Commodo, ossia l’Imperatore Settimio Severo, si vantò sempre di essersi opposto con decisione ad ogni forma di banditismo, anche se ai tempi in cui era governatore della Siria risale un curioso episodio, narrato da Cassio Dione, che lo vide protagonista insieme a un certo Claudio, bandito lungamente cercato e curiosamente mai catturato, con cui Settimio Severo avrebbe scambiato calorosi saluti con relativo scambio di baci.

I RIVOLTOSI

La parola “latrones” venne anche adoperata per definire i protagonisti delle pericolose rivolte di popolo che i Romani dovettero a più riprese fronteggiare, come quelle di Viriato in Spagna in epoca repubblicana, delle bande di contadini Bagaudae in Gallia sotto l’Imperatore Massimiano nel 286, e quelle africane di Tacfarinas, condottiero berbero della Numidia.

Quest’ultima, avvenuta sotto Tiberio, fu particolarmente impegnativa per l’ancor giovane Impero Romano, perché si protrasse per sette anni e costrinse Roma a mettere in campo la bellezza di 15.000 uomini per reprimerla. Per lungo tempo al servizio dell’esercito romano, infatti, Tacfarinas raccolse una vera e propria guarnigione formata da genti nomadi, veri e propri briganti abituati ai saccheggi e alle rapine, indigenti ed emarginati impoveriti dallo sfruttamento delle terre da parte dei Romani e disposti a tutto. Fra le tribù nomadi a fianco di Tacfarinas spiccavano i Garamanti, di stirpe berbera, probabilmente rappresentati nei mosaici della villa romana di Zliten, in Libia.

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CODICE ETICO E FAVORE POPOLARE

A dispetto del clamoroso esempio di organizzazione militare offerto da Tacfarinas, il caso più caratteristico di opposizione all’ordine costituito dello Stato romano rimase comunque quello del bandito isolato a capo di un ristretto numero di seguaci. Paradossalmente, nelle rare testimonianze letterarie giunte fino a noi, tali figure appaiono ammantate da un’aura di grandezza e solennità, quasi che attirassero e intimorissero allo stesso tempo: il fuorilegge pare dotato di un proprio codice etico, leale con i propri compagni, che non vengono mai abbandonati e con i quali il bottino viene sempre spartito in parti uguali. I banditi erano legati fra loro da stretti vincoli d’amicizia che si esternava in giuramenti, scambi di baci e strette della mano destra.

Leggendo la riflessione del fuorilegge Tiamis, citato nelle Etiopiche da Eliodoro, romanziere vissuto fra il III e il IV secolo d.C., esce fuori quasi un ritratto romantico: “Voi mi riteneste meritevole di comandarvi e fino ad ora mi sono comportato in modo da non assegnare, delle numerose spoglie divise, più a me che agli altri. Nelle spartizioni ho amato sempre l’uguaglianza, nella vendita dei prigionieri ho messo in comune il guadagno. Inoltre, degli uomini presi prigionieri, ho arruolato nel nostro esercito quelli che, per forza fisica, lasciavano credere che ci avrebbero giovato e ho venduto i più deboli. Non ho fatto oltraggio alle donne, ma a quelle nate di nobile sangue ho restituito la libertà, o a prezzo, o perché semplicemente mosso a pietà della loro sorte”.

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Leggendo questo passo, si può iniziare a comprendere come non fossero rare le situazioni in cui il fuorilegge venisse considerato alla stregua di un eroe nell’ambito del microcosmo in cui agiva, assumendo le vesti di baluardo dei poveri e dei diseredati nei confronti delle ingiustizie sociali perpetrate dalle classi abbienti e da amministratori avari e senza scrupoli. A volte, i latrones giungevano ad esigere una sorta di tributo dagli abitanti di un villaggio o dai viaggiatori di passaggio in cambio della loro protezione armata; altrettanto spesso, però, erano gli stessi abitanti dei villaggi ad essere conniventi con i banditi, offrendo loro ospitalità e informazioni, e ricevendo in cambio dai malviventi parte del bottino.

Ecco quindi sorgere, quasi quale naturale conseguenza, la figura giuridica dei receptatores, sui quali così si espresse il Digesto di Giustiniano: “I receptatores sono uomini della peggior sorta, dato che senza di loro nessuno può rimanere nascosto a lungo. Quindi essi vanno puniti esattamente come i banditi stessi. Oltre a ciò, chiunque abbia la possibilità di catturare dei banditi e li lasci invece fuggire, avendo ricevuto da loro denaro o una parte del bottino, va trattato come un ricettatore”.

VIAGGI PERICOLOSI E SEQUESTRI

In alcune Province dell’Impero, rivolte e banditismo erano così comuni che, anche durante la cosiddetta Età dell’Oro (ossia nel II secolo d.C.), era sempre un rischio avventurarsi lontano dai centri urbani. Viaggiare da soli, poi, era da considerarsi come un vero e proprio suicidio, ed in ogni caso prima del calar della notte era uso raggiungere il villaggio o il centro abitato più vicini. Spesso si viaggiava in carovana o seguendo i convogli armati, che battevano le strade tra una località e l’altra.

Allo scopo di prevenire azioni criminali o delittuose, venivano costruiti, nei luoghi maggiormente a rischio, posti di guardia fortificati, costruiti a protezione dei viaggiatori sulla strada: in Pannonia, lungo il medio corso del Danubio, è stata rinvenuta un’epigrafe appartenente ad uno dei fortilizi eretti nel II secolo d.C. a protezione di quei luoghi lungo il fiume “esposti alle scorrerie notturne del briganti”.

Spesso, soprattutto nel tardo Impero, come raccontato dallo storico Ammiano Marcellino, i briganti arrivavano a tal punto di sfrontatezza che “si spargevano senza far alcun rumore, travestiti da mercanti e da soldati degni di rispetto e penetravano in ricche case, fattorie e città, comparendo ovunque il vento li portasse. Un gruppo di questi scellerati si travestì in modo da imitare il corteo dl pubblico tesoriere ed uno di loro addirittura il magistrato. Così entrarono in una città nelle tenebre della sera al lugubre grido del banditore ed occuparono, armati di spade, la ricca casa di uno dei principali cittadini, come se fosse stato proscritto e condannato a morte. Trafugate le suppellettili preziose, poiché la serviti, presa da improvviso terrore e con la mente sconvolta, non aveva difeso il padrone, se ne andarono in fretta prima del sorgere del giorno, dopo aver ucciso parecchie persone”.

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Le aggressioni dei latrones avevano spesso come obiettivo il sequestro di animali e soprattutto di persone, che venivano tenute prigioniere sino a quando le famiglie non avessero pagato esose somme per il riscatto. Rapimenti a scopo di estorsione sono documentati da numerose fonti letterarie e soprattutto da Apuleio il quale, narrando di una fanciulla rapita, fece pronunciare ai briganti le seguenti parole: “Non aver paura per la tua vita e il tuo onore. Abbi un po’ di pazienza e dacci modo di guadagnare qualcosa. È la dura povertà che ci costringe a questo mestiere. Del resto, i tuoi genitori hanno soldi a palate e, anche se sono un po’ stretti di manica, senz’altro ci offriranno una ricompensa adeguata per riscattare il loro stesso sangue”.

Gli scrittori antichi parlano anche di persone in viaggio tra una località e l’altra, sparite misteriosamente nel nulla. Scriveva Plinio il Giovane all’amico Bebio Ispano: “Mi scrivi che Robusto, cavaliere romano che godeva di una ragguardevole considerazione, viaggiò fino ad Ocricoli in compagnia del mio amico Atilio Scauro e che è poi sparito; di conseguenza mi chiedi di indurre Scauro a venire per indicarci, se è possibile, una qualche traccia per le nostre indagini. Verrà, ma temo che tutto sia inutile. Inclino infatti a pensare che a Robusto sia capitato qualche cosa di analogo a quello che avvenne una volta al mio conterraneo Metilio Crispo”.

BULLA FELIX

Il più celebre esempio di banditismo organizzato, all’epoca dell’Antica Roma, fu quello di Bulla Felix, che alla testa di 600 fuorilegge imperversò nel III secolo sulle strade della Penisola, tendendo continui agguati ai viaggiatori.

Bulla Felix non era un comune bandito: poteva infatti contare su un’intelligenza superiore e un’audacia fuori del comune. Servendosi di mille astuzie, fra cui anche abilissimi travestimenti, riusciva sempre a farla franca. Lo storico Cassio Dione racconta che una volta Bulla, travestitosi da tribuno, riuscì persino a liberare con l’inganno alcuni suoi compagni che erano stati imprigionati, mentre in un’altra occasione arrivò addirittura a catturare proprio l’ufficiale incaricato di arrestarlo, al quale fece subire un falso processo, travestito da magistrato romano. Bulla venne infine tradito da una donna e terminò la sua gloriosa carriera, come molti altri suoi colleghi, in pasto alle belve nell’anfiteatro.

IL PATRONO DEI “LATRONES”

Se Mercurio, nella tradizione religiosa del mondo classico, era considerato il dio dei mercanti e dei ladri, può parzialmente stupire che spesso i briganti adorassero Marte come loro patrono. Il dio della guerra era talvolta da loro venerato con forme di culto feroci e sinistre, comprendenti a volte anche mutilazioni e sacrifici umani.

Molto spesso, però, i latrones mostravano un totale disprezzo per i culti e le divinità del pantheon ufficiale: non di rado profanavano volutamente i luoghi sacri, come quando (come raccontato da Polibio) nel 70 a.C. venne saccheggiato il tesoro del Tempio di Apollo a Didima.

I NASCONDIGLI

Dove vivevano e si nascondevano i briganti? Ovviamente in tutte le regioni maggiormente impervie, le montagne, le foreste, i deserti e le paludi, oltre che nelle aree di confine. Tristemente famosi erano i feroci boùkoloi, che si rifugiavano nelle vaste paludi e nell’intrico di canali intorno al delta del Nilo da cui emergevano solo per rapinare ed uccidere.

Pericolosi ricettacoli di fuorilegge erano poi tutte le catene montuose, dagli Appennini all’ Atlante e soprattutto, in Asia Minore, il Tauro e l’Antitauro.

Nella provincia della Cilicia si trovava poi l’Isauria, la zona maggiormente infestata dai briganti, che Roma non riuscì mai a debellare completamente. Proprio questa fattispecie merita un breve approfondimento, poiché le sanguinose rivolte e le sistematiche attività di rapina dei banditi Isauri rappresentarono in realtà un fenomeno su larga scala, a lungo combattuto da Roma e affrontato, nel corso del tempo, con esiti alterni. Intere regioni nelle zone montuose dell’Anatolia furono infatti per lunghi periodi in mano a queste bande armate, con le quali Roma, a partire dal 100 a.C. e fino all’epoca bizantina, si scontrò innumerevoli volte.

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Ancora nel IV secolo d.C. degli Isauri parla compiutamente Ammiano Marcellino: “Anche gli Isauri, i quali di solito alternano spesso periodi di pace con improvvise scorrerie in cui sconvolgono ogni cosa, spinti dall’audacia che, favorita dall’impunità, si sviluppava in forme più gravi, passarono da azioni di brigantaggio nascoste e rare a massicce imprese di guerra. Lungamente avevano infiammato i loro animi ostili con moti incessanti, ma erano stati profondamente colpiti dal trattamento indegno riservato, come essi andavano dicendo pubblicamente, ad alcuni loro connazionali, i quali, fatti prigionieri, contrariamente ad ogni consuetudine, erano stati esposti alle fiere durante uno spettacolo in un anfiteatro”.

Sebbene le forze regolari facessero il possibile per contrastare le loro attività criminose, nulla potevano contro genti numericamente preponderanti, militarmente agguerrite e ben esperte del loro territorio. Gli Isauri, infatti, si muovevano agevolmente tra dirupi e gole come se quest’ultime “fossero pianure che non presentano difficoltà per i movimenti, attaccando da lontano con i giavellotti quanti si facevano innanzi e spaventandoli con urla orrende. Alcune volte i nostri fanti furono costretti, per inseguirli, ad arrampicarsi su altissime montagne, ma sebbene fossero giunti sulle cime afferrandosi ad arboscelli ed a cespugli, dato che non riuscivano a tener fermo il piede, non ebbero alcuna possibilità di schierarsi a battaglia in luoghi stretti e inaccessibili. Poiché i nemici, che correvano qua e là, facevano rotolare massi staccatisi dalle rocce, i nostri discendevano il pendio in mezzo ai pericoli oppure venivano schiacciati dalla caduta di enormi macigni”.

LA PIRATERIA

Il fenomeno della pirateria fu una delle piaghe maggiormente infestanti nella storia dell’Antica Roma. Le parole di Cassio Dione descrivono in modo perfetto la situazione: “I pirati erano soliti molestare i naviganti nello stesso modo in cui i briganti molestano quanti abitano sulla terraferma. All’inizio però soltanto pochi, e limitatamente ad alcuni luoghi e alla buona stagione, esercitavano per mare e per terra il brigantaggio; ma in quel tempo, dacché sì combatteva dovunque e continuamente e molte città erano andate distrutte, incombendo sugli esuli la minaccia della vendetta e nulla essendovi più di sicuro, moltissimi si volsero al brigantaggio”.

La grande differenza fra le due fattispecie, però, era che controllare i pirati in mare era molto più difficile di quanto accadesse con i sempre più numerosi casi di brigantaggio in terraferma. “I pirati, infatti, mentre i Romani erano impegnati con i propri avversari, prosperavano e navigavano per ogni dove, arruolando nelle loro bande quanti si trovavano nelle stesse condizioni e stringendo con loro rapporti di alleanza. Quando le guerre giunsero al termine i pirati non desistettero, ma causarono da soli gravissimi danni ai Romani ed ai loro alleati. Non navigavano più in piccoli gruppi ma in grandi flotte, avevano addirittura dei generali e la loro fama si accrebbe. Dapprima derubavano e spogliavano di preferenza i naviganti, non concedendo loro tregua neppure d’inverno, dato che, grazie all’audacia e all’esperienza, andavano per mare anche allora”.

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Resi baldanzosi dai successi e dalle ingenti ricchezze accumulate, gruppi sempre più aggressivi di pirati cominciarono a spingersi verso l’interno e a molestare popolazioni e centri abitati anche parecchio distanti dalle coste, compromettendo anche la pace della stessa penisola italica. Scrive ancora Cassio Dione: “Navigarono addirittura all’interno del porto di Ostia e contro altre città italiche, dando fuoco alle navi e saccheggiando ogni cosa. Nondimeno erano così solidali tra loro che, pur non conoscendosi personalmente, si inviavano aiuti e denaro come avviene tra parenti stretti. Anche per questo erano potenti, perché chi aveva rispettato uno di loro era onorato da tutti, mentre tutti insieme depredavano chi era entrato in urto anche con uno solo di loro”.

L’attacco al porto di Ostia, citato da Cassio Dione, è probabilmente raffigurato sul fregio appartenente al sepolcro di Cartilio Poplicola, sito per l’appunto nell’Area Archeologica di Ostia: Poplicola, otto volte duoviro, è ritratto nell’atto di respingere l’attacco di una squadra navale.

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Forti di un’enorme flotta di biremi e triremi, i pirati vantavano ottime qualità marinare, tanto che le loro navi potevano navigare anche d’inverno e superare eventuali inseguitori per velocità e abilità di manovra. Le loro basi, situate in luoghi strategicamente scelti, erano bene equipaggiate e rifornite, mentre il numero stesso dei pirati aumentava continuamente, accresciuto da coloro che, rovinati dalle guerre, erano costretti ad unirsi ai predoni come unica strategia per la sopravvivenza.

I pirati si erano alleati con il re del Ponto Mitridate, avevano avuto contatti con Spartaco nel 72 a.C., avevano depredato le isole di Delo ed Egina profanandone i templi, e avevano effettuato numerosi rapimenti illustri, fra cui quello di Clodio, di Antonia (figlia di Marco Antonio) e soprattutto di Giulio Cesare, che nel 74 a.C. fu rapito e condotto all’isola di Farmacussa.

Progressivamente, la situazione si fece sempre più allarmante, con attacchi in Campania, in Etruria e nei pressi di Brindisi. Il blocco quasi totale degli approvvigionamenti alimentari, soprattutto del grano che regolarmente affluiva a Roma, fu la goccia che fece traboccare il vaso: nel 67 a.C. venne quindi promulgata la Lex Gabinia de Piratis Persequendis, con la quale (come racconta lo storico Plutarco) si concedeva a Pompeo, cosa assolutamente fuori delle regole, un comando straordinario di tre anni (imperium infinitum) esteso a tutto il Mediterraneo, con autorità pari a quella dei governatori provinciali su tutti i territori costieri fino a 80 km dal mare. A Pompeo, a questo scopo, vennero assegnati 6000 talenti, 500 navi, 120 000 soldati e 5000 cavalieri.

Pompeo divise a quel punto il Mediterraneo e il Mar Nero in tredici settori, ognuno sotto il comando di uno dei suoi ufficiali, avente una specifica porzione della flotta, della cavalleria e della fanteria. In poche settimane il Mediterraneo occidentale venne liberato dai pirati e in meno di tre mesi l’intera area tornò sotto il controllo di Roma.

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LA REPRESSIONE ROMANA

Al fine di risolvere definitivamente l’annosa questione del brigantaggio, Roma istituì fin dall’Età Repubblicana una serie di magistrature per la lotta alla criminalità: si pensi in tal senso ai tresviri nocturni (che, come indica il nome stesso, lavoravano in particolare nelle ore notturne) o alla ben più nota istituzione del corpo dei vigiles con Augusto.

Era la notte il momento critico di Roma. Nelle grandi città, infatti, era considerato un rischio enorme avventurarsi per le strade dopo il tramonto: la mancanza di illuminazione pubblica favoriva infatti il proliferare di azioni delittuose, che potevano andare dal semplice furto all’omicidio.

Cesare, come ci dice Appiano, essendo Roma e l’Italia in preda a bande di briganti, cercò di ristabilire l’ordine in tempi abbastanza rapidi, facendo giustiziare molti fuorilegge. Ancora Ottaviano dovette lottare contro il banditismo organizzato (reso ancora più forte dalla precedente debolezza dell’autorità centrale, provocata dai lunghi anni di guerra civile), riaffermando così il senso e l’autorità dello Stato. Tiberio continuò la lotta al brigantaggio e aumentò i posti di guardia presidiati dall’esercito. Con Caracalla, poi, venne istituita una particolare magistratura ad corrigendum statum Italiae, cioè volta alla lotta contro il brigantaggio.

Fuori di Roma e dell’Italia, era compito dei vari governatori provinciali far rispettare l’ordine e combattere la criminalità. La dottrina giuridica romana si esprimeva a questo proposito con le seguenti parole: “Compito di un valido e serio governatore è vigilare sul mantenimento della pace e della tranquillità nella provincia da lui governata. Il compito non è difficile se egli è scrupoloso nell’eliminare i malfattori della provincia ed assiduo nel dar loro la caccia. Egli deve infatti dare la caccia a profanatori e depredatori di oggetti di culto (sacrilegi), banditi (latrones), rapitori (plagiarii) e ladri comuni (fures) e punire ognuno a seconda del reato commesso. Egli deve inoltre usare la forza contro i loro complici (receptatores), senza i quali il bandito non può rimanere a lungo nascosto”.

In caso di estrema emergenza, i Governatori potevano rivolgersi a veri e propri cacciatori di banditi, oppure nominare veri e propri agenti speciali, come nel caso di Gaius Lucconius Tetricus, nominato Praefectus Arcendis Latrociniis, cioè funzionario con compiti di polizia contro il banditismo. Come raccontato dalla sua epigrafe, qualora si trattasse di un ufficiale già comandante di legione, questo incarico poteva essere retribuito con un corposo aumento di stipendio.

LE CONDANNE E LE PENE

I banditi, i briganti ed i pirati non venivano considerati né alla stregua dei criminali comuni, né come nemici dello Stato, ma essendo “fuorilegge” il trattamento a loro riservato era particolare, come pure peculiari erano le pene loro comminate, che dovevano essere rigorosamente pubbliche, in quanto avevano lo scopo di servire da monito alla comunità.

Il già citato Ammiano Marcellino racconta che talvolta che anche la prole dei condannati veniva giustiziata “affinchè non crescesse imitando gli esempi dei genitori”.

Già subito dopo l’arresto, e ancor prima di essere condotti in presenza del magistrato giudicante, i briganti potevano essere interrogati facendo uso della tortura. Le pene capitali che di solito venivano loro inflitte erano la damnatio ad bestias, la condanna cioè ad essere sbranati dalle belve, la crocifissione, il rogo ed altri tipi di castighi che variarono a seconda dei luoghi e dei tempi.

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Nell’età più antica, l’area destinata alle pene capitali era il Comitium nel Foro Romano, proprio di fronte alla Curia e nei pressi del Carcer Tullianum. Sempre nella stessa area si trovavano le Scalae Gemoniae, ove venivano esposti i cadaveri dei giustiziati quale monito e deterrente per il popolo.

Successivamente, il luogo per eccellenza deputato ai supplizi divenne l’anfiteatro, che ben si prestava ad una esecuzione pubblica secondo quanto esposto in precedenza, e sulla base del principio per cui l’agonia e la morte del condannato dovevano avvenire al cospetto di tutte le rappresentanze sociali, quasi come in un rituale che prevedesse l’espulsione dal gruppo di coloro che si fossero macchiati dei delitti più infamanti.

Come accennato, un altro supplizio abbastanza usuale era la crocifissione, riservata segnatamente ai briganti ed agli schiavi. Spesso le condanne venivano eseguite nel luogo stesso che era stato teatro dei crimini commessi, in maniera tale che fossero di monito per coloro che avessero avuto l’intenzione di emulare le gesta dei fuorilegge catturati. Tristemente famosa è la morte dei 6000 schiavi che avevano partecipato alla rivolta di Spartaco, crocifissi ai lati della Via Appia.

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Giulio Cesare, che come detto venne catturato dai pirati e liberato solo dietro il pagamento di un riscatto di 50 talenti, riuscì successivamente a mettere le mani sui suoi rapitori e, trattandosi (come racconta Svetonio) di persona “mitissima per natura, poiché ormai aveva giurato di farli crocifiggere, diede ordine di strangolarli prima di appenderli alla croce”.

Alla pena della crocifissione può essere assimilato il Crurifragium, in cui si spezzavano tibie e peroni del condannato, il quale non poteva più contare sul sostegno degli arti inferiori e quindi moriva più rapidamente. In Giudea questa pratica, documentata fin verso il 70 d.C., consentiva di arrivare alla morte del crocifisso entro il tramonto per effettuare la sepoltura nei limiti prescritti dalla religione ebraica. Secondo quanto racconta l’evangelista Giovanni, nel caso di Gesù non fu applicato il crurifragium, che però venne inflitto ai due ladroni con lui crocifissi.

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