LA VISITA DELLE SETTE CHIESE
AI numero sette sono state sempre attribuite, da antiche credenze e tradizioni, molte speciali proprietà, partendo dall’astrologia babilonese e dalle speculazioni pitagoriche fino alla mitologia dell’Antica Roma (sette furono i colli, sette furono i re di Roma, sette erano i giri delle quadrighe attorno alla spina del circo). La predilezione per il sette è vivissima anche nella Bibbia e, di conseguenza, nella liturgia cristiana, tanto che può essere considerato il numero mistico per eccellenza.
Niente di strano quindi che la tradizione abbia fissato proprio in sette le chiese principali della Città Eterna. Il numero potrebbe essere connesso ai sette doni dello Spirito Santo, oppure alle sette chiese d’Asia di cui si parla nell’Apocalisse, alle stazioni della Via Crucis (che inizialmente erano sette), alle sette Opere di Misericordia, oppure ancora alla divisione ecclesiastica di Roma in sette regioni fatta da Papa Fabiano nel III secolo.
Molto più prosaicamente, sulla base della versione dell’erudito cinquecentesco Onofrio Panvinio, alle cinque basiliche patriarcali di San Pietro, San Paolo Fuori le Mura, San Giovanni in Laterano, San Lorenzo Fuori le Mura e Santa Maria Maggiore, che erano meta di continui pellegrinaggi, il fervore dei fedeli volle aggiungere le basiliche di San Sebastiano Fuori le Mura e di Santa Croce in Gerusalemme, perchè si trovavano la prima lungo la strada che andava da San Paolo al Laterano e la seconda tra il Laterano e San Lorenzo, e sembrava indecoroso passare davanti ad esse senza sostarvi a compiere i consueti riti devozionali. D’altronde, la tradizione (molto contestata oggi dal Vaticano) voleva che nelle Catacombe di San Sebastiano fossero stati sepolti i corpi di San Pietro e San Paolo, mentre nella Basilica di Santa Croce erano conservate varie reliquie della Passione, fra cui uno dei chiodi della croce di Cristo.
Già le cronache medievali ricordavano numerosi personaggi che erano soliti praticare la visita delle Sette Chiese, ma si dovette arrivare alla seconda metà del Cinquecento perchè questo tipo di devozione, che si era piuttosto raffreddato nel Rinascimento, acquisisse nuovo vigore grazie a San Filippo Neri, il “Socrate cristiano” di Roma che nel XVI secolo influì moltissimo nella mutazione spirituale della città col suo saldo ottimismo cristiano che vedeva, anche nella vita terrena, la possibilità della serenità e della gioia.
Ancor prima di diventare sacerdote, “Pippo Bono” (come lo avevano soprannominato i Romani) si recava quasi tutti i giorni a visitare i luoghi sacri della città, ove era solito trascorrere lunghe ore in meditazione. Dopo aver preso gli ordini sacerdotali nel 1552, egli a poco a poco spinse i suoi devoti seguaci ad accompagnarlo in questo suo pellegrinaggio, tanto che col tempo esso divenne una vera manifestazione di popolo: lo stesso Goethe, nel suo Viaggio in Italia, descrisse con forza il ricordo dell’impressione che provocò in lui tale concorso di folla, e col passare dei secoli la tradizione ha continuato a consolidarsi, fino a giungere ai giorni nostri, sia pure con ovvie modificazioni.
La visita si svolgeva generalmente in due giorni, seguendo a piedi un percorso di sedici miglia che andava, in senso antiorario, da San Pietro a San Paolo, per poi toccare nell’ordine San Sebastiano, San Giovanni in Laterano, Santa Croce, San Lorenzo ed infine Santa Maria Maggiore. Si trattava di un itinerario decisamente impegnativo, soprattutto quando il clima non era favorevole, accompagnando la processione con pioggia e vento.
Questa pratica, con la formazione della Congregazione dell’Oratorio dei Filippini, fondata dallo stesso San Filippo Neri, assunse una frequenza settimanale per i discepoli del santo, mentre per la generalità del popolo romano si concretizzò in uno specifico giorno dell’anno, ossia il Giovedì Grasso, assumendo proporzioni solenni: era il cosiddetto “Carnevale Spirituale”, che si proponeva come alternativa ai disordini e alla violenza del carnevale romano. Alla visita delle Sette Chiese prendevano parte insieme nobili e plebei, tutti spinti dal desiderio di rendere omaggio alle memorie dei martiri e acquisire nello stesso tempo le indulgenze loro concesse. La partecipazione era decisamente massiccia: si pensi che, quando Roma toccava una popolazione non superiore ai 35.000 abitanti, la processione arrivava a contare oltre 4.000 partecipanti.
Gli stessi Pontefici contribuirono, a modo loro, al successo di questa partica: Papa Pio V contribuì al si recava col suo seguito a visitare le sette Basiliche almeno due volte l’anno, in primavera e in autunno, Papa Sisto V la ufficializzò con la bolla “Egregia Populi Romani Pietas”, mentre fu probabilmente Papa Gregorio XIII ad istituire nelle suddette chiese sette altari privilegiati, presso i quali era possibile ottenere particolari indulgenze.
Ogni tratto del pellegrinaggio era devotamente associato ad un episodio della Passione, riproponendo il tema tradizionale della Via Crucis: in ogni tappa inoltre era invocata la presenza di uno dei doni dello Spirito Santo.
Il corteo partiva generalmente la sera del mercoledì grasso dalla Chiesa Nuova per poi dirigersi, passando per Ponte Elio, alla Basilica di San Pietro, che rappresentava la prima tappa del percorso. L’appuntamento era per il giorno successivo alla Basilica di San Paolo, dove si compiva la seconda visita. L’itinerario che conduceva a San Paolo era costellato di cappelle e ricordi degli albori del Cristianesimo, in particolare lungo la Via Ostiense, dove si poteva transitare anche dinanzi al leggendario luogo dove tradizionalmente si sarebbero incontrati San Pietro e San Paolo prima di essere condotti separatamente al martirio.
Dalla basilica di San Paolo si proseguiva per San Sebastiano, lungo un percorso che all’epoca era in aperta campagna: la suggestione doveva essere notevole perché al godimento estetico dei luoghi si aggiungeva l’elevatezza delle preghiere, in un’atmosfera di serena letizia, accompagnate spesso da musiche e canti, fra cui spiccavano le parole coniate da San Filippo Neri ed ispirate ai sermoni di Girolamo Savonarola (non per altro, Filippo Neri era nato a Firenze): “Alla morte che sarà, ogni cosa è vanità”.
Nella Basilica di San Sebastiano sulla via Appia antica, ancora antecedente al pregevole restauro voluto dal cardinale Scipione Borghese, si celebrava una messa e la maggior parte dei presenti prendeva parte alla comunione eucaristica. A questo punto il corteo era solito effettuare una sosta ricreativa, che dapprima avveniva nella Vigna dei Crescenzi nei pressi di Porta San Sebastiano, ma che poi venne consuetudinariamente effettuata nel giardino Mattei al Celio, in quella che oggi è la Villa Celimontana. Gli strumenti musicali ed il canto delle laudi accompagnavano il pranzo, che nei primi tempi aveva carattere modesto, ma che successivamente acquistò sempre maggiore importanza tanto da apparire al poeta dialettale Giuseppe Gioacchino Belli, ai suoi tempi, una vera e propria baldoria di campagna.
Il percorso proseguiva a questo punto dirigendosi verso San Giovanni in Laterano e da lì, dopo una sosta alla Scala Santa, si raggiungeva l’adiacente Basilica di Santa Croce in Gerusalemme. A quel punto, attraverso Porta Maggiore, si usciva dalla cinta muraria per andare alla Basilica di San Lorenzo, ormai immersi nel pomeriggio della seconda giornata, contrassegnate da pause meditative; infine, al tramonto, si compiva l’ultima visita a Santa Maria Maggiore, tappa terminale della cerimonia, che si concludeva in tarda serata.
Ovviamente, una cerimonia così elaborata necessitava di una corposa e dettagliata preparazione, tale da rendere l’organizzazione perfettamente efficiente: si pensi, per esempio, al fatto che ogni partecipante dovesse avere vitto sufficiente ed in eguale quantità rispetto agli altri, che si dovesse chiedere l’autorizzazione al marchese Mattei per usare il suo giardino, che si dovessero avvertire sia i Benedettini di San Paolo, in modo che esponessero il loro Crocifisso, sia i canonici di Santa Maria Maggiore, affinchè scoprissero la celebre icona della Madonna Salus Populi Romani. Bisognava inoltre ottenere la licenza per fare il sermone nelle chiese di San Giovanni e San Lorenzo, ma soprattutto, dettaglio di importanza capitale e requisito fondamentale per la Visita delle Sette Chiese, bisognava chiedere al Papa la concessione dell’indulgenza plenaria per tutti i partecipanti.
Paradossalmente, in tutta questa poderosa organizzazione, la parte più critica era quella del pranzo, che viene ancor oggi ricordato in un’epigrafe a Villa Celimontana. Bisognava infatti procurare i facchini per il trasporto di tutto l’occorrente, compreso un organo portatile e le “biffe”, cioè i paletti con i cartellini numerati che servivano per dividere in vari settori (ovviamente sette) lo spazio del Giardino Mattei. Vi era infatti una diversa sistemazione per i prelati, i nobili, l’alta borghesia, la bassa borghesia ed il popolino.
Il pranzo veniva servito, con tanto di stoviglie, da numerosi “confratelli” addetti al servizio, e comprendeva pane, uova, salame, formaggi e frutta: il cibo che avanzava veniva dato alle carceri come elemosina. Anche il vino era ammesso, purchè fosse annacquato. Per evitare che si inserissero all’ultimo momento degli intrusi, all’inizio della visita ogni partecipante riceveva il proprio “Bollettino”, ossia una sorta di biglietto di ingresso senza il quale non si aveva nessun diritto a partecipare al convito: tale bollettino era gratuito, ma ogni partecipante era gentilmente “invitato” a lasciare un’offerta in proporzione alle proprie disponibilità, al fine di compartecipare alle spese.
Alla morte di San Filippo Neri, avvenuta nel 1595, la Congregazione dell’Oratorio ne raccolse l’eredità spirituale, facendo così proseguire la tradizione della Visita alle Sette Chiese, nella forma concepita e attuata dal santo per quaranta anni. Alla fine del Settecento l’entrata delle truppe francesi a Roma e l’esilio del Papa assestarono un duro colpo a questa tradizione religiosa, che venne abbandonata senza che però se ne estinguesse del tutto la memoria: quando la Visita delle Sette Chiese tornò in auge, ebbe iniziò a caratterizzarsi da una forma più intima e privata, ben lontana dalle gozzoviglie di un tempo.
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Grazie Vincenzo, ma nella pratica come veniva “controllato” il passaggio nelle 7 chiese? Veniva messo un timbro o cosa. L’indulgenza plenaria era un atto formalizzato da un documento o una situazione dello spirito? Bisognava pagare qq? Grazie se hai dei testi da indicarmi.
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La visita delle Sette Chiese non era “formalizzata”: non per altro, San Filippo Neri lo considerava come l’atto di visitare un amico, e non una vera e propria celebrazione.
Suggerisco questo testo per approfondire: “https://www.amazon.it/Visita-sette-chiese-liturgia-Filippo/dp/8831174827”