LA MUSICA NELL’ANTICA ROMA
Nel mondo greco e romano, il significato di mousikè andava ben al di là della sinfonia sonora in senso stretto: l’arte delle Muse comprendeva infatti anche il testo poetico e i movimenti della danza che accompagnavano il canto, tanto che un artista, per definirsi tale, doveva spesso essere responsabile e artefice della melodia, delle parole e delle figure della danza.
La musica greco-romana si espresse fondamentalmente attraverso la melodia, composta da un accompagnamento musicale che si basava sul tetracordo, ovvero su un sistema di quattro note congiunte comprese in un intervallo di una quarta. Con il passare del tempo, però, la partitura musicale divenne tuttavia sempre più complessa e dal semplice accompagnamento di strumenti a fiato e a corda che suonavano insieme, si giunse in età imperiale romana alla costituzione di grandi orchestre.
Della musica romana non si hanno informazioni molto dettagliate. L’unica dubbia documentazione, il verso 861 dell’Hecyra di Terenzio, afferma che il sistema vocale e strumentale si avvaleva, come note, delle lettere dell’alfabeto greco, raffigurate sia nella loro forma normale, sia in orizzontale, capovolte o con l’aggiunta di apici.
Nel mondo romano, la produzione e l’esecuzione dei canti accompagnati dalla musica e dalla danza furono in un primo momento circoscritte alle occasioni importanti e solenni della vita comunitaria, come ad esempio le cerimonie religiose, i funerali ed i trionfi. Soltanto a partire dal II secolo a.C., in seguito ai sempre maggiori contatti con Il mondo greco, la musica finì con l’essere eseguita e apprezzata come prodotto artistico autonomo.
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I FRATRES ARVALES
Una forma antichissima di canto rituale è quello che i Fratres Arvales, membri di un antichissimo collegio sacerdotale ritenuto addirittura di fondazione romulea, intonavano danzando attorno all’altare della dea Dia, una divinità agreste il cui santuario si trovava a 5 miglia da Roma sulla Via Campana.
La festa della dea Dia si celebrava nel mese di maggio e durava tre giorni (a seconda dei periodi, il 17, 19 e il 20 del mese oppure il 27, 29 e 30) e consisteva nell’offerta di vino e incenso e nel sacrificio di due maiali e di una giovenca nel bosco sacro della dea da parte del Magister (capo) del collegio, il quale successivamente ne cuoceva le viscere (che più tardi gli Arvali avrebbero consumato in un pasto comune), e quello di una grossa pecora, le cui viscere venivano dallo stesso esaminate sulla base della tecnica dell’aruspicina.
Il culmine della cerimonia si raggiungeva quando gli Arvali, all’interno del tempio e a porte chiuse, presi i libri rituali e sollevate le toghe, danzavano attorno all’altare della dea intonando il carme in cui venivano invocati i Lari, Marte e i Semones, forse divinità agresti legate a Semo. Se voleste avere un’idea di come si svolgessero i riti svolti dai Fratres Arvales, potete visitare con noi il Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano dove, nel Chiostro Piccolo, sono esposti numerosi rendiconti marmorei di tali celebrazioni.
IL CARMEN DEI SALII
La più antica danza sacerdotale romana è però forse quella dei Salii, collegio di sacerdoti istituito dal secondo re di Roma, Numa Pompilio, consistente in una danza guerriera da effettuarsi nei mesi di marzo e di ottobre, in corrispondenza delle cerimonie che segnavano l’apertura e la chiusura della stagione delle guerre. Si narrava che durante una terribile epidemia uno scudo di bronzo fosse caduto dal cielo nelle mani del re Numa Pompilio e che poco dopo l’epidemia cessò; Numa avrebbe quindi ordinato al fabbro Mamurio Veturio di fabbricarne altri undici, che vennero conservati nel sacello di Marte della Regia e affidati alla custodia dei Salii i quali, durante le loro danze guerriere, provvedevano a metterli in movimento.
Il ritmo della danza era ternario e sembra consistesse in due salti brevi sul medesimo piede e in un terzo, lungo quanto gli altri due, sull’altro piede. Nell’eseguire queste figure, i Salii percuotevano gli scudi con la lancia e intonavano il carme in versi saturni accompagnato dal suono della tuba (tromba) e diretto dal vates, ossia uno dei dignitari della cerimonia.
I CANTI DI GLORIA
In età arcaica, durante i banchetti degli aristocratici, i convitati solevano cantare a turno lodi e virtù dei propri antenati, accompagnati dal suono della tibia (flauto), affinchè i giovani fossero desiderosi di imitarle. In un secondo momento furono i giovani a intonare canti di gloria in onore degli eroi antichi: si parla in tal senso di carmina convivalia, una sorta di celebrazione delle virtù gentilizie, si trasformano progressivamente in una nobile forma di intrattenimento.
Era però il trionfo a rappresentare la massima apoteosi dei canti romani. Al generale che avesse posto fine vittoriosamente a una guerra, ampliando in tal modo i confini dello Stato romano, e che avesse ucciso in battaglia almeno cinquemila nemici veniva infatti concesso l’ambito premio del trionfo. Il trionfatore entrava in città dalla Porta Triumphalis, seguito dal proprio esercito, e si dirigeva al Campidoglio: il corteo era composto anche dalla sfilata del bottino di guerra, delle tavole con i nomi dei popoli vinti e dei disegni dei Paesi conquistati, dai prigionieri illustri in catene e soprattutto, immediatamente dinanzi al cocchio del trionfatore, trainato da quattro cavalli bianchi, dai littori attorniati dal cornicines (suonatori di corno). Lo si vede perfettarmente nel rilievo connesso a Marco Aurelio ed esposto presso i Musei Capitolini.
I soldati che seguivano il carro trionfale intonavano per il loro generale rozzi canti (i cosiddetti carmina incondita), in cui battute vivaci, spesso sarcastiche mordaci, si mescolavano alle lodi.
La più antica poesia trionfale romana è andata interamente perduta, ma grazie a Svetonio ci si più fare un’idea del tenore di questi canti. Particolarmente popolari furono quelli intonati durante il trionfo gallico di Cesare nel 46 a.C., con frasi del tipo “Cesare sottomise le Gallie, Nicomede Cesare. Ecco che ora trionfa Cesare che sottomise Nicomede, ma non Nicomede che sottomise Cesare!”.
I CANTI FUNEBRI
Fin dai tempi più antichi, il lento funebre ed il pianto rituale caratterizzarono ritualmente il dolore, spesso insopportabile, scatenato da un evento luttuoso. Nel mondo romano, la cerimonia del funerale patrizio era particolarmente solenne e musica e canto (la cosiddetta nenia, accompagnata dal suono della tibia) vi rivestivano un ruolo di primo piano.
In origine questo lamento funebre era appannaggio esclusivo della funera, ossia la parente più prossima del defunto (madre o sorella), ma con il passare del tempo, anche per evitare che una matrona si abbandonasse ad atti di disperazione ritenuti poco consoni al suo rango, si fece ricorso alle praeficae, donne pagate a questo scopo, cosicchè alle matrone restasse solo un dolore composto e silenzioso.
Dopo l’esposizione del defunto nella propria dimora, il corteo funebre attraversava strade e piazze con grande fragore di strumenti a fiato (trombe e corni): gli esecutori musicali, impiegati esclusivamente in questa triste occasione, erano i siticines.
Con il passare del tempo, la nenia in cui si decantavano le lodi del defunto venne sostituita dalla più solenne laudatio (discorso di lode), spesso pronunciata nel Foro alla presenza del popolo romano e talvolta persino delle imagines maiorum, ossia i ritratti degli antenati dell’estinto.
I CORI TEATRALI
In un discusso brano di Livio viene ripercorsa tutta la storia del teatro latino, a partire dalla prima rappresentazione che si ebbe a Roma nel 364 a.C. Poiché, infatti, la città era devastata da una pestilenza, furono mandati a chiamare alcuni ludiones (attori) dall’Etruria, nella speranza che con la loro danza placassero l’ira degli dèi. Essi ballarono in effetti con grande grazia al suono della tibia (flauto), mentre tutti i giovani cominciarono a imitarli, scambiandosi lazzi e versi rozzi. Prese così l’avvio un genere di spettacolo più complesso, eseguito da attori professionisti, cui fu dato il nome di histriones, che misero in scena satire ricche di musiche e di canti modulati sul suono della tibia, eseguendo movimenti in armonia con la musica.
Intorno alla metà del II secolo a.C. si passò dal teatro di improvvisazione al teatro letterario: fu una svolta fondamentale nella storia del teatro latino, maturata nell’ambito dell’incontro tra la cultura romana e quella greca. A differenza dell’attore greco, quello latino eseguiva soltanto le parti recitate del dramma (i cosiddetti deverbia), mentre un cantore eseguiva le parti cantate. A poco a poco, i canti attoriali finirono con l’assumere un ruolo predominante, mentre il canto del coro, riducendosi progressivamente a semplice intermezzo lirico con musica e danza in forme preponderanti, assunse una funzione essenzialmente spettacolare.
Nella Commedia poi, essendo le parti cantate di gran lunga più numerose di quelle recitate, la funzione di intermezzo lirico del coro divenne pressoché inutile, ma tra un atto e l’altro potevano essere inserite delle esecuzioni strumentali. Nella Tragedia, invece, il coro conservò invece una certa importanza, ma venne spesso spostato dall’orchestra al palcoscenico, a diretto contatto con gli attori, libero di entrare e uscire dalla scena a seconda delle necessità dell’azione drammatica.
DIVI E MUSICI GIROVAGHI
Nel corso del II secolo a.C., in seguito ai sempre maggiori contatti con l’Oriente ellenistico, Roma divenne una grande metropoli mediterranea, profondamente ellenizzata nella cultura e in grado di offrire ai molteplici attori e musicisti, che in gran numero vi giunsero, le condizioni ideali per l’esercizio della propria arte. Nella loro patria d’origine, infatti, la musica e la danza erano state progressivamente ridotte all’interno dell’educazione tradizionale dei giovani greci, al pari della ginnastica, mentre nella città latina l’acquisizione di una cultura musicale, anche se guardata con sospetto dai nostalgici dei severi costumi dei padri, divenne sempre più un requisito fondamentale per la formazione dei fanciulli delle famiglie più ragguardevoli.
I musicisti greci, oltre a insegnare la propria arte, si esibivano personalmente in esecuzioni di musica squisitamente greca, e i loro compensi erano sempre molto alti. Amatissimo da Cesare e Cleopatra, e successivamente da Ottaviano, fu il sardo Tigellio, cantore e suonatore di flauto (tibicine), che morì probabilmente nel 39 a.C. Un suo probabile liberto, Tigellio Ermogene, fu invece insieme a Demetrio profondamente avversato da Orazio: la ragione di tanta ostilità va forse cercata nel fatto che i due artisti cantavano solo le opere del rivale Catullo.
Il più famoso tibicine di età augustea fu però senza dubbio Princeps, il quale accompagnava l’altrettanto celebre mimo Batillo. In seguito a un incidente capitatogli in teatro, che gli provocò la rottura della gamba sinistra, egli dovette restare lontano dalle scene per molti mesi finché, convinto da un compenso molto alto offertogli da un nobile romano, acconsenti a prendere parte a una rappresentazione privata. Quando, all’inizio dello spettacolo, il coro intonò un canto nuovo, il cui ritornello recitava “Gioisci, Roma, il tuo Principe è salvo!”, il vanitoso Princeps, credendo che si alludesse a lui, uscì a ringraziare la folla che però, resasi conto di quell’assurdo fraintendimento, lo canzonò aspramente.
Nel I secolo d.C., come narra Svetonio, si distinsero particolarmente due citaredi, il greco Terpnos, che ricevette dal parsimonioso Vespasiano la somma ingente di 200.000 sesterzi, e Menecrates, che “ricevette in dono patrimoni e palazzi da trionfatore”.
Accanto a questi veri e propri divi del mondo antico esisteva però una vasta schiera di musici ambulanti, che per teatro avevano le strade e le piazze e per pubblico la gente di passaggio e gli artigiani della strada. Il loro nome era circulatores, perché il pubblico occasionale si disponeva in cerchio attorno a loro e, alla fine dell’esibizione, lasciava il proprio spontaneo e modesto compenso per quell’intermezzo di svago inaspettato.
NERONE E LA MUSICA
Tra i più appassionati cultori della musica figurano gli imperatori Caligola, Adriano, Commodo, Eliogabalo e Alessandro Severo, ma tra tutti fu certamente Nerone quello che con maggiore ostinazione e tenacia ne praticò fin da piccolo lo studio.
Non appena divenne imperatore, infatti, Nerone convocò a corte il più stimato citaredo del tempo, il già citato Terpnos, e per lungo tempo trascorse gran parte delle notti seduto accanto a lui, per ascoltarlo mentre cantava. Di lì a poco iniziò a comporre egli stesso, senza sottrarsi a nessuno dei fatitcosi esercizi che gli artisti erano soliti effettuare per rinforzare la voce, come ad esempio starsene sdraiato supino con una pesante lastra di piombo poggiata sul petto.
Quando fu pienamente soddisfatto dei propri progressi, Nerone decise di esibirsi in pubblico, sebbene la sua voce, a detta di Svetonio, fosse gracile e roca. Secondo le cronache dell’epoca, Nerone esordì nell’Odeon di Neapolis, e neppure il terremoto che scosse la città riuscì a interrompere la sua ispirata performance.
Conscio della necessità di avere una claque che lo applaudisse e sostenesse, Nerone reclutò anche cinquemila plebei molto robusti che lo esaltassero mentre cantava, non senza averli precedentemente istruiti sui diversi tipi di applauso da eseguire.
Nel 60 d.C., deciso a ridare vigore ai generi solistici più antichi come la citarodia (canto accompagnato dalla cetra) e la citaristica (assolo della cetra), l’Imperatore istituì a Roma i Neronia, una sorta di triathlon quinquennale comprendente una gara musicale, una ginnica e una di equitazione, che tuttavia non sopravvisse al suo fondatore.
Nell’86 d.C., Domiziano istituì un analogo concorso quinquennale in onore di Giove Capitolino, con un alto numero di premiati. Per lo svolgimento di queste gare, l’ultimo imperatore della Gens Flavia fece costruire nel Campo Marzio uno stadio, l’attuale piazza Navona, e un Odeon, ossia un teatro coperto dotato di un’acustica perfetta in grado di accogliere fino a 10.600 spettatori, la cui forma sarebbe oggi intuibile nella facciata ricurva di Palazzo Massimo alle Colonne, lungo Corso Vittorio Emanuele.
LE FESTE PRIVATE
Fin dagli inizi del II secolo a.C. a Roma si diffuse l’abitudine di far intervenire danzatrici e suonatrici durante i banchetti, al fine di deliziare i convitati. L’abitudine di eseguire musica durante i pasti aveva nel mondo greco origini antichissime: basti pensare a Femio e Demodoco, i celebri aedi dei poemi omerici, e a quell’atto collettivo successivo al banchetto vero e proprio, il simposio, in cui il bere vino era accompagnato da musiche, canti, amabili conversazioni e giochi, in una mirabile mescolanza di piaceri.
Anche nella Roma arcaica, i carmina convivalia rappresentarono una simile testimonianza ma poi, con il procedere dei secoli, non restò più traccia del convito aristocratico in cui si cantavano le gesta dei padri perché fossero di esempio ai giovani, facendo prevalere il piacere dell’ascolto musicale fine a se stesso, non scevri da un certo gusto per l’ostentazione da parte di chi procurava ai suoi ospiti una serata indimenticabile.
Durante l’ultimo secolo della Repubblica ed ancor più in età imperiale, si diffuse tra i nobili romani l’abitudine di avere al proprio servizio musicisti di ambo i sessi capaci di suonare ogni genere di strumento: si pensi ad esempio ai pueri symphoniaci che facevano parte del seguito di Milone o al nutrito gruppo di suonatori che faceva parte del seguito di Marco Antonio. Plutarco cita “suonatori di liuto come Anassenore, auleti che accompagnavano il canto come Suto, un certo Metrodoro, danzatore, e altre congreghe simili di attori asiani del medesimo stampo, tutti esagerati in petulanza e ribalderia”.
LE CRITICHE
Nel corso dei secoli, quindi, quella musica che era un tempo circoscritta alle occasioni solenni della vita comunitaria, finì per conquistare i teatri, le case private e le piazze.
Nel IV secolo d.C. Ammiano Marcellino, l’ultimo storico della Roma pagana, stigmatizzò con parole pesanti quella che, a suo parere, era l’eccessiva importanza riservata all’arte delle Muse a tutto svantaggio degli studi seri: “Le poche case che nel passato si erano rese illustri per il culto degli studi ora sono invase da un’ignavia degna di scherno e risuonano di canti e del tintinnio delle cetre, lieve come un soffio. Al posto di un filosofo oggi si fa venire un cantore e anziché un oratore un maestro di arti sceniche; le biblioteche, come i sepolcri, sono chiuse per sempre, mentre si costruiscono organi idraulici e lire enormi, tibie e accessori pesanti per la mimica degli istrioni”.