GIORGIO DE CHIRICO
La lettura di Nietzsche gli aveva insegnato a rifiutare la realtà, ed anche per questo Giorgio de Chirico fece della soppressione del senso logico una bandiera: “Non è un’invenzione di noi pittori. È giusto riconoscere a Nietzsche il primato di tale scoperta. In poesia è stata applicata perla prima volta da Rimbaud, ma in pittura il primato dell’applicazione spetta al sottoscritto” scrisse con la consueta sicurezza, contrassegnata da un pizzico di acidità.
Nell’effervescente Parigi dei primi anni del Novecento, per spiegare le spettacolari invenzioni della sua pittura metafisica con le sue disabitate Piazze d’Italia rivelò cripticamente che “l’intera nostalgia dell’’infinito ci è rivelata attraverso la geometrica precisione della piazza”.
I Surrealisti adorarono De Chirico, sia per i suoi quadri che per le sue parole, e si dichiararono tutti figli del pittore, che diventò per loro un nume tutelare e una guida spirituale: molti, tra i surrealisti, si dedicarono alla pittura proprio seguendo le suggestioni dei quadri di De Chirico, e straordinari artisti come Yves Tanguy e René Magritte dichiararono apertamente il loro debito ne suoi confronti. Il primo restò impressionato dall’incontro con Le revenant, che gli era apparso improvvisamente, come in un sogno, mentre viaggiava in tram, dalla vetrina della galleria di Paul Guillaume. Per emozionare Magritte era invece bastata la riproduzione di un altro quadro dipinto da de Chirico nel 1914, il patriottico Chant d’amour.
In realtà, l’amore dei Surrealisti durò poco: continuarono a venerare il De Chirico metafisico dei primi anni del Novecento, ma ripudiarono in blocco la produzione successiva, colpevole di aver abbandonato la pittura d’invenzione, tanto da definire De Chirico “un traditore”. Nel 1932 lo abbandonò perfino Waldemar George, il critico che pure l’aveva difeso per anni, adoperando parole durissime: “De Chirico è un cadavere vivente, uno spettro, i cui occhi morti hanno smesso di vedere”.
Giorgio de Chirico, però, che considerava la stragrande maggioranza dei Surrealisti come dei “figli di papà”, tirò dritto, forte delle sue robuste dosi di sarcasmo. Quando gli chiesero se avesse conosciuto il poeta Guillaume Apollinaire, il primo a utilizzare il termine metafisico riferito ai suoi quadri, De Chirico rispose ironico: “Certo che lo conoscevo. Mi dimostrò anche una certa benevolenza, ma non c’è molto da insuperbirsi, perché dimostrava benevolenza anche ad artisti che non valevano un fico secco”.
Dal primo dopoguerra, De Chirico non perse una sola occasione per attaccare il futile modernismo e invocare il ritorno alla tradizione classica italiana. A suo parere bisognava “tornare al mestiere”, cioè alla buona pittura dei maestri antichi, ed iniziò a firmare alcune opere e documenti con una firma urticante per qualsiasi avanguardia: Pictor classicus sum.
I Surrealisti lo ripagavano con la stessa moneta, criticando le opere realizzate da De Chirico a Parigi fra il 1925 e il 1932: quadri popolati di gladiatori e archeologi, con mobili curiosamente collocati nel paesaggio e vedute che entravano prepotentemente nelle stanze, che per l’artista rappresentavano una nuova e struggente declinazione della poetica metafisica, mentre i surrealisti li interpretarono (infuriandosi) invece come uno stravagante omaggio al classicismo italiano.
La guerra andò avanti senza esclusione di colpi. I Surrealisti cominciarono a distribuire volantini denigratori davanti alle gallerie che esponevano i quadri di De Chirico, ed iniziarono anche a far circolare qualche quadro metafisico che in realtà De Chirico non aveva mai dipinto, al fine di denigrare il grande artista. Il falsario era un artista ben noto e dalla mano felice: Oscar Dominguez, che dipinse almeno una trentina di falsi De Chirico metafisici.
De Chirico, però, non mollò di un centimetro. Negli anni Trenta si elevò di nuovo in tutta la propria grandezza: nel 1935 presentò alla Quadriennale una nuova e straordinaria invenzione poetica, i Bagni Misteriosi. Era senza dubbio una nuova versione della pittura metafisica: un tempo, i suoi dipinti raffiguravano piazze e arcate che non portavano da nessuna parte, statue di Arianna e monumenti equestri, torri e ciminiere, velieri e treni che attraversavano sbuffando l’intera composizione. Poi, a Ferrara, erano comparsi i manichini, il castello estense, i dolciumi e le carte geografiche.
Ora, dopo i gladiatori della fine degli anni Venti, per la prima volta entravano in scena degli uomini veri, in carne ed ossa; l’acqua della piscina però, dipinta come se fosse fatta di lucido parquet, era però il segnale evidente che nulla fosse cambiato nella poetica di De Chirico. Come prima, continuava ad inserire nelle sue opere architetture ed oggetti familiari, ma collocandoli nello spazio seguendo prospettive multiple, falsate e incongrue, rubando loro il senso più ovvio per suggerirne un altro, decisamente più enigmatico.
Tutto, nei suoi quadri, diventa simbolo o metafora di significati nascosti dietro l’apparenza del mondo visibile: la metafisica di De Chirico rappresenta la scoperta del mistero che è costantemente davanti ai nostri occhi, nascosto negli aspetti più comuni della quotidianità.
Giorgio De Chirico continuò a disseminare le sue tele di chiavi segrete per sciogliere antichi enigmi, ed ancor oggi trovare la chiave per scassinare queste serrature non è facile. Tra il 1938 e il 1942, ad esempio, fu proprio il padre della Metafisica a sfidare i Surrealisti, ridipingendo alcune sue tele metafisiche retrodatandole agli anni Dieci del Novecento, e mescolando elementi tipici delle sue prime tele parigine a peculiarità che erano presenti solo nelle composizioni del periodo ferrarese. Voleva anche dimostrare l’incompetenza di una critica e di un collezionismo che, a Parigi come a Milano, a New York come a Londra, osannava solo la sua prima produzione. Ci volle mezzo secolo per smascherare la sciarada di de Chirico.
Riassumere la poetica pittorica di De Chirico non è semplice. Era partito dalla pittura di Klinger e dalle elucubrazioni filosofiche di Schopenhauer e Nietzsche. Grazie a loro era approdato alla sua metafisica, e aveva anticipato molti aspetti non solo del Surrealismo, ma anche del Dadaismo e, dagli anni Quaranta, dell’arte concettuale. Sicuramente, De Chirico mise in pratica un concetto caro a Schopenhauer, ossia che non sia l’oggetto a venire rappresentato in un quadro, ma l’idea dell’oggetto stesso, tanto da far dire allo stesso De Chirico: “Nei primi quadri ho cercato di esprimere idee. Più tardi mi premeva soltanto la qualità della pittura”.
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