IL GIOCO DEL LOTTO A ROMA
Sor botteghino mio, me so insognata
un mostro nero, brutto, puzzolente,
che me sartava addosso, e lì presente
c’era mi’ nonna e c’era mi’ cognata.
Io tutt’impaurità e spaventata
cercavo de scappà, ma in quer tramente
me preso, sarvognuno, un accidente
m’è amancata ‘na cianca e so cascata.
Er mostro m’ha aggranfiato co ‘n artijo
e m’ha portato in mezzo a l’antri mostri…
Vojo giocà: che nummeri ce pijo?
50 er mostro che ve porta via,
47 li parenti vostri,
32 l’accidente che ve pia.
Questo celebre sonetto del poeta dialettale Trilussa immortala mirabilmente il Gioco del Lotto con tutti gli ingredienti.
Un sogno, qualche anima benedetta messaggera dell’aldilà, un susseguirsi di gesti scaramantici in luoghi e modi diversi, un dialogo spesso strampalato e misterioso: ecco gli elementi base da interpretare e tradurre in numeri, con la speranza che la fortuna metta un pizzico del proprio magico sale nel calderone e capovolga del tutto l’esistenza di chi le crede e a lei affida pochi “baiocchi” a fondo perduto.
Il gioco del Lotto ha origini piuttosto remote, probabilmente lontane da Roma ma altrettanto presumibilmente italiane. Tra gli studiosi, anche se non è possibile addurre prove concrete in tal senso, c’è chi attribuisce l’invenzione del Lotto (all’epoca denominato “lotto a numeri”) al patrizio genovese Benedetto Gentile; assai più certa è la data di origine formale del gioco, risalente al 1576 quando, conseguentemente agli Ordinamenti della Repubblica riformati da Andrea Doria, veniva indicato come il “Gioco del Seminario” e praticato a Genova per la scelta, ogni sei mesi, di cinque membri dei Serenissimi Collegi della Repubblica in sostituzione di altrettanti membri uscenti dalla carica. I nomi dei 120 candidati proposti al popolo (ridotti in seguito a 90, numero caratteristico proprio del Gioco del Lotto) venivano abbinati ad altrettanti numeri e imbussolati in un’urna detta “seminario”: Il popolo allora poteva scommettere su cinque nomi e chi fosse stato così bravo e fortunato da indovinare i numeri estratti avrebbe avuto diritto a un premio, dopo aver pagato la relativa quota.
In un primo momento la Repubblica Genovese non accettò di buon grado un genere di scommesse ritenuto addirittura immorale, ma quando capì che con esse avrebbe potuto incrementare le casse dello Stato e risolvere in parte i problemi del fisco, decise nel 1634 di colpire il gioco stesso con un’imposta e di concederlo nel 1644 in appalto a prenditori autorizzati. Al gioco del Lotto veniva aperta ormai la strada dell’ufficialità e da allora si presentò come (citando un dizionario dell’inizio del XIX secolo) “gioco nel quale i primi 90 numeri dell’abaco sono posti alla rinfusa entro un’urna, donde poscia se ne traggono a sorte 5, e colui è vincitore, la cui polizza contiene in parte o in tutto, secondo certe regole, i numeri sortiti”.
Fin dagli inizi, nello Stato Pontificio il Gioco del Lotto ebbe vita difficile e tormentata. A Roma, prima del Pontificato di Alessandro VII, l’unica possibilità concessa ai giocatori con autorizzazione pontificia era quella di puntare solo sui lotti esteri, vale a dire sulle estrazioni di Genova, Napoli e Modena. I Papi, però, non vedevano affatto di buon occhio questa attività, e dapprima Alessandro VII nel 1660, poi Innocenzi XI nel 1685 ed infine Innocenzo XII nel 1696, attraverso pubblici bandi, proibirono ogni forma di gioco e di scommessa a tutti gli abitanti di Roma e del suo distretto, creando un malcontento generale.
All’inizio del XVIII secolo, Clemente XI, tenendo fede al proprio nome, fu in effetti più “clemente” consentì lo svolgimento del Gioco del Lotto. Come raccontano le cronache dell’epoca, la mattina del 17 settembre 1703 si cominciò “a cavare il lotto sotto il portico del cortile del Palazzo Pamphili a Piazza Navona, con sul palco il giudice del lotto e alla sua destra il notaro. La prima urna a vetri conteneva I bollettini coi nomi e la seconda i bollettini bianchi corrispondenti al numero degli altri. Cavavano i bollettini due putti, mentre sei soldati di Castello con brandistocchi assistevano all’operazione”.
Anche Papa Innocenzo XIII, considerando lecito il Gioco del Lotto, lo permise come il proprio predecessore, ma quando divenne pontefice Benedetto XII le cose cambiarono di colpo: il suo editto del 19 settembre 1725 parlava chiaro, non solo vietando il gioco del Lotto in perpetuo, ma fissando pure le pene da infliggere ai trasgressori, con una multa di 1000 scudi d’oro e la galera ai “prenditori” ed una multa di 300 scudi d’oro ai giocatori, unitamente ad altre pene corporali che potevano estendersi fino alla galera e, per gli ecclesiastici sorpresi a praticare il gioco clandestinamente, alla sospensione “a divinis”.
Morto Benedetto XII, il nuovo pontefice Clemente XII mantenne in vigore la bolla del predecessore, confermando pene e scomunica e invitando i confessori ad ammonire i penitenti di astenersi dal gioco, anche fuori dallo Stato Pontificio. Ma il popolo non obbedì a nessuna imposizione e non temette alcuna minaccia, ed anzi continuò a giocare con un entusiasmo senza freno. Fu allora che il Papa, considerando la grande somma di denaro che andava a finire nelle casse degli stati esteri e le gravi conseguenze della disobbedienza, volle correre ai ripari: da uomo saggio e calcolatore, il Pontefice consultò teologi e canonisti e, superate le opposizioni di una parte del Sacro Collegio, revocò e annullò la costituzione di Benedetto XII, permettendo, a partire dal 1732, il Gioco del Lotto in Roma e in tutto lo Stato ecclesiastico. A quel punto però, proprio ad evidenziare come la decisione fosse esclusivamente finanziaria e non certo moraleggiante, decise la scomunica per chiunque avesse giocato all’estero, ossia ai lotti di Genova, Napoli, Milano: si doveva infatti impedire il passaggio di somme rilevanti alle casse estere, affinchè ne beneficiasse esclusivamente la Camera Apostolica.
Il 9 dicembre 1731, Clemente XII rese ancor più evidenti le proprie intenzioni con un editto, in forza del quale la gestione del gioco non veniva più data in appalto ad estranei, ma veniva affidata all’Arciconfraternita di San Girolamo della Carità e garantita dalla Camera Apostolica. Gli eventuali utili avevano come destinazione gli ospedali, le parrocchie, le famiglie più bisognose. Secondo il nuovo sistema, dovevano stamparsi anticipatamente le liste contenenti i nomi di 90 zitelle da scegliersi ad arbitrio del Papa e dalle parrocchie romane, ora dall’uno ora dall’altro rione, usando particolare riguardo alle ragazze più povere e alle orfane di padre o di madre o di ambedue: le cinque preferite dalla sorte ricevevano in dono una veste nuziale e 50 scudi a titolo di sussidio dotale in occasione del loro futuro matrimonio.
La prima estrazione del nuovo Lotto ebbe luogo il 14 febbraio 1732, in coincidenza dell’inaugurazione del Carnevale. Le cronache dell’epoca sono dense di particolari: “Figurarsi l’attesa del popolino al quale però non mancava un immediato sconforto. Aperti i botteghini per il nuovo gioco, un gerente se ne fuggiva con 400 scudi riscossi dai giocatori! Fu la prima… vincita al Lotto! La prima estrazione eseguita il 14 febbraio, giovedì precedente al primo sabato di carnevale, era organizzata come una grande solennità. Sulla piazza del Campidoglio era stato eretto un palco, ornato di velluti, sul quale prendeva posto il Commissario con i chierici della Camera. Per il bussolo posava sul tavolo alla volta del pubblico una bella urna di rame inargentata. Le palle furono deposte nell’urna da un uomo di gran voce, vestito con zimarra paonazza, che diceva i numeri innanzi al popolo. Tanta era la folla accorsa per assistere all’estrazione che gremiva non solo la piazza del Campidoglio e la scalinata, ma si stendeva fino al palazzo Astalli. Un fanciullo degli orfanelli estrasse 5 palle dall’urna e ne disse al popolo i numeri, che per la storia furono i seguenti: 27 – 56 – 54 – 18 – 6. Si immagina la gazzarra dei vincitori, per i quali il Carnevale non poteva inaugurarsi sotto auspici migliori”.
A conti fatti risultò che la reverenda Camera Apostolica (una sorta di Ministero delle Finanze Pontificie) incassò 107.000 scudi, pagandone 40.000 e sostenendo 2.000 scudi di spese. Il guadagno apparve subito molto ingente: dal 14 febbraio 1732 al luglio 1733, in nove estrazioni, nel banco del Lotto erano entrati 1.050.000 scudi, di cui neanche la metà ritornò ai giocatori, con un guadagno netto per la Camera Apostolica pari a 418.745 scudi. L’intero guadagno fu così distribuito: 20.000 scudi ad alcune comunità religiose; 50.000 al Monte di Pietà; 80.000 all’Ospedale del Santo Spirito; il resto venne impiegato per l’abbellimento di nuove insigni fabbriche romane, per lavori di perfezionamento del palazzo del Quirinale, per il rinnovamento della chiesa delle suore del Bambino Gesù, per il restauro della chiesa di Palestrina, per la biblioteca vaticana.
A partire dal 2 febbraio 1743 l’estrazione ebbe luogo sulla loggia della Curia Innocenziana, ossia l’odierno Palazzo di Montecitorio, dove Innocenzo XII aveva destinato i tribunali di Giustizia civile. Ben presto, però, la grande popolarità del gioco del Lotto rese necessaria la costituzione di particolari ricevitori e raccoglitori delle giocate in tutto lo stato, distribuite capillarmente nella Città Eterna “a giuste e proporzionate distanze”: tali botteghe, spesso davvero minuscole a livello di superficie, presero il nome assai attuale di “botteghini”, e non potevano cambiare luogo e trasferirsi da una contrada all’altra senza il permesso del tesoriere e dell’amministrazione generale dei Lotti. Essi venivano conferiti per grazia e per consuetudine agli aiutanti di camera dei Papi, ai camerieri dei cardinali segretari di Stato, ai camerieri dei prelati tesorieri generali e ai figli dei prenditori defunti.
Anche all’inizio del XIX secolo il Gioco del Lotto ebbe un successo incredibile: Papa Pio VI ordinò anche che le spese della bonifica delle terre pontine fossero affrontate proprio con il denaro proveniente dall’impresa del gioco del Lotto e poi, nonostante i francesi di Napoleone nel 1809 avessero occupato lo Stato Pontificio, arrivando addirittura all’imprigionamento di Papa Pio VII, le estrazioni del Lotto ebbero luogo ugualmente, non più da Montecitorio ma dalla chiesa delle monache benedettine della SS. Concezione di Maria in Campo Marzio. Soltanto al ritorno del Papa a Roma, l’estrazione ebbe luogo il 24 maggio 1814 ancora una volta sulla loggia del palazzo di Montecitorio.
Le giocate divennero 48 all’anno, divise in 24 di Roma e 24 di Toscana, e il giorno dell’estrazione venne fissato nel sabato a mezzogiorno. I numeri uscivano dall’urna per opera di un orfanello dell’Ospizio di Santa Maria in Aquiro, che qualcuno sospettava complice dell’Impresa Pontificia dei Lotti e ched pertanto ricevette lo sgradito soprannome di “ruffianello”. Oltre al Palazzo di Montecitorio, furono di volta in volta usati per l’estrazione anche Palazzo Madama, Palazzo Pio Righetti al Biscione ed il cosiddetto Ferro di Cavallo a via di Ripetta.
Per quanto concerne l’Amministrazione dei Lotti, essa ebbe sede fino al 1839 nel Palazzo dei Conti o Cesarini, per poi essere trasferita nel 1840 nel Palazzo Pio sulla Piazza del Biscione, realizzato nel 1440 dal cardinale Francesco Condulmer, nipote di Papa Eugenio IV, sulle rovine del Teatro di Pompeo.
Riguardo alle sedi per le estrazioni, il Decreto del 5 novembre 1863 designava quelle di Torino, Milano, Firenze, Bologna, Napoli, Palermo. Successivamente l’11 febbraio 1866 Bari prese il posto di Bologna, mentre più tardi entrarono nell’elenco anche Venezia e Roma, per concludere con Genova e Cagliari le cui sedi furono istituite solo nel 1938.
I Romani, nella loro bonaria arroganza, erano convinti di conoscere una serie di sistemi sicuri per vincere al Lotto. C’era per esempio chi correva, dopo un’esecuzione, davanti alla chiesa di San Giovanni Decollato, dove si seppellivano i giustiziati, o al Muro Torto, dove finivano i cadaveri degli impenitenti: recitate alcune preghiere, si dovevano cogliere al volo i “segni” forniti dalle anime dei poveri morti, da interpretarsi poi attraverso il libro dei sogni.
Anche dalla recita di una novena in onore di Sant’Alessio si potevano ricavare numeri sicuri: alla fine del nono giorno si doveva uscire di casa a mezzanotte e tradurre in numeri tutto quello che si vedeva e si sentiva. C’era poi San Pantaleone che, al terzo giorno della novena, andava “di persona” a casa del postulante per scrivergli di proprio pugno i numeri da giocare. La certezza di una buona vincita al Lotto poteva essere data anche da un trifoglio portato in tasca o da due denti legati con un filo di seta sbavato da una lumaca.
Il modo migliore per assicurarsi una vincita al Lotto, però, era quello di scegliere in numeri fortunati indossando la camicia di un condannato a morte a esecuzione avvenuta, specialmente se fosse stata di un assassino, come scriveva il poeta Cesare Pascarella in un sonetto:
Ecco er fatto. Lo prese drent’ar letto,
dove stava in campagna in un casino;
je siggillò la bocca cor cuscino,
e jammollò na cortellata in petto.
Dunque, ferita all’undici; ce metto uno,
er giorno; quarantatré, assassino:
vado giù da Venanzio er botteghino
ar Popolo e ce butto un pavoletto.
A l’estrazzione, sabbeto passato,
ce viè l’ambo; ma invece de ferita
m’esce settantadue: morto ammazzato.
Ma guarda tante vorte er Padreterno
come dà la fortuna ne la vita!
—
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