Keith Haring

Keith Haring, Keith Haring, Rome Guides

KEITH HARING

Pochi mesi prima che morisse improvvisamente, a metà di un discorso su tutt’altro argomento, Keith Haring disse ad un suo caro amico: “Nella mia vita ho fatto un sacco di cose, ho guadagnato un sacco di soldi e mi sono divertito molto. Ma ho anche vissuto a New York negli anni del culmine della promiscuità sessuale. Se non prenderò l’Aids io, non lo prenderà nessuno”.

Era un modo per rivelare che l’Aids lo aveva già contratto. E infatti, poco dopo, l’ammise pubblicamente anche se non mutò per nulla il suo stile di vita: vita che sarebbe durata ancora poco, fino al 16 febbraio 1990, quando il male lo stroncò ad appena 31 anni. Due anni prima, lo stesso male aveva portato via il suo compagno, un ex disc-jockey di colore che lui chiamava Little Angel 2 e con il quale da due anni dormiva sotto una tenda (una delle sue tante stravaganze) al centro di un loft di trecento metri quadrati a Manhattan.

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Molti hanno detto che, fisicamente, Keith Haring assomigliasse a Woody Allen. Secondo altri, invece, assomigliava moltissimo a Buster Keaton: sapeva infatti tenere il volto perfettamente immobile, sorridendo solo con gli occhi. A detta di chi lo conosceva, però, quando sorrideva con tutto insieme era irresistibile, ed anche negli ultimi mesi non rinunciò mai alla sua allegria. Molti lo giudicavano un incosciente, ma Haring (sguardo fisso, spesso puntato nel vuoto) spiegava: “Sono così non perché faccio uso di droghe, ma perché sono stato un vidiot, cioè un idiota videodipendente che ha passato tutta l’infanzia incollato al televisore”.

Sarà stato anche incollato davanti ad un televisore come amava affermare, ma certamente sarà stato anche molto impegnato a disegnare, con una frenesia e un’inventiva che gli hanno permesso di diventare celebre poco più che ventenne.

Keith Haring, Keith Haring, Rome Guides

Era nato a Kutztown, in Pennsylvania, figlio di una casalinga irlandese e di un operaio tedesco appassionato di disegno e di semiologia, il quale lo aveva spronato a darsi alla pittura. A 18 anni, dopo il liceo, Keith Haring era andato a New York ed era stato ammesso alla School of Visual Art che negli anni Settanta ospitava il meglio dei talenti nel campo dell’arte e del design. Qui aveva studiato con l’artista di origine ungherese Joseph Kosuth, santone dell’arte concettuale il cui sogno era dì realizzare opere d’arte con formule algebriche; e con il polacco Opalha, altro santone che da vent’anni allineava sulla tela numeri in progressione. Fu da questi due compagni di studio e di vita che Haring imparò uno dei suoi segreti, ossia l’abilità di rendere affascinante un’operazione tutto sommato ripetitiva.

Il resto ce l’ha messo lui, facendo ricorso al suo bagaglio di “vidiot”: fumetti, cartoni animati e così via. Già a vent’anni aveva capito quale fosse il vento che agitava la cultura newyorkese e invece di prendere la via delle gallerie consolidate (Haring sosteneva: “I mercanti pensano solo a sfruttarti e quindi devi imparare a sfruttarli tu”) aveva scelto di scendere le scale mobili della metropolitana. Era lì infatti che stavano nascendo i miti e le galline dalle uova d’oro di certa cultura statunitense degli anni Ottanta: il graffitismo, di cui Haring è stato il profeta, ma anche la rap-music (Keith Haring si è spesso vantato di essere stato uno degli scopritori della cantante Madonna) e la breakdance, di cui diceva: “Mi piace moltissimo, ma mi guardo bene dal farla: non ho il fisico”.

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Giù nei meandri della Subway, insieme con compagni che si firmavano “Cat 87”, “Snake I” e “Bam”, Keith Haring, lasciando agli altri le fiancate dei treni, si avventò sugli spazi neri, quelli che attendevano di essere ricoperti dai cartelloni pubblicitari. Qui mi sono fatto il mio museo personale”, prima ritagliando e incollando titoli del quotidiano popolare New York Post e poi mettendosi a graffitare a spray quello che è stato alla base di tutto il suo repertorio espressivo fino alla morte: topolini, cani a sei zampe come quello dell’Agip, bambini a tutto tondo in posizione fetale talvolta con falli enormi e radioattivi, idoli aztechi con il volto a forma di X. A proposito di questi idoli qualcuno parlò di “segni precolombiani”, cioè derivanti da un’ispirazione culturale precedente la scoperta dell’America: di fronte a tali suggestioni, Haring rispose “Cerchiamo di non esagerare”.

Durante quel periodo sotterraneo, si beccò qualche denuncia dalla polizia, ma si guadagnò anche rapidamente una certa fama nel gruppo dei graffitari, dove spiccava per talento e originalità. Fu in quel momento che inevitabilmente comparve Tony Shafrazy, un mercante furbacchione di origine armena, che si era guadagnato una certa notorietà negli ambienti dell’avanguardia più spinta per aver scritto con lo spray sulla Guernica di Picasso, allora esposta al Moma di New York, “KILL LIES ALL”.  Questa provocazione gli aveva aperto le porte di alcuni santuari dell’arte di punta della Grande Mela, nei quali introdusse subito Haring e l’altrettanto celebre Jean-Michel Basquiat, giamaicano proveniente dal South Bronx legatissimo a Andy Warhol che preferì uccidersi con una overdose di eroina, per non permettere all’Aids di consumarlo lentamente.

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Con questa scuderia il mercante armeno partì all’attacco prima di New York e poi dell’Europa: la nuova immagine usciva dai sotterranei delle metropolitane e se ne andava in giro per il mondo. Il successo di Haring fu immediato: in pochissimi anni riuscì ad incantare non soltanto il low-cult, il culto di basso profilo degli imbrattatori di metropolitane e muri vari e di sfondatori di timpani della rap-music, ma anche l’high-cult, il culto alto della più spocchiosa critica europea.

A questo successo non è stata estranea la singolare personalità di Haring, trasgressivo sì, ma certamente non “primitivo”. Uno che confessava di non aver mai letto molti libri, ma che citava Freud e Jung; uno che non frequentava la Scala o il Metropolitan solo perché la lirica non gli interessava, ma bazzicava teatri di ogni genere; uno che non aveva certo paura a dare giudizi politici violenti e molto caustici, sia a livello nazionale (“In America ormai non c’è più distinzione tra finzione e realtà: per forza, abbiamo un presidente come Ronald Reagan che faceva l’attore”) che internazionale (“I giapponesi sono sommersi dall’elettronica, ma trattano ancora le donne come facevano i samurai”).

Soprattutto, Keith Haring aveva imparato bene la lezione del suo maestro Andy Warhol, e cioè che l’arte del nostro tempo “deve essere anche spettacolo, deve essere disinvolta e disinibita e pronta a sposare più o meno ironicamente il marketing”. Ed ecco così Haring che, dopo aver raggiunto la fama attraverso musei e grandi gallerie, si metteva a dipingere gratis murali per i frati di Pisa e sul muro di Berlino, ma contemporaneamente graffitava il negozio di Fiorucci, faceva la pubblicità per la vodka Absolut, disegnava un orologio Swatch e apriva addirittura un negozio a Soho dove vendeva sue magliette e riproduzioni di sue opere.

Keith Haring, Keith Haring, Rome Guides

“Il mio negozio è la continuazione di quel che facevo nella metropolitana: cioè lo uso per rompere le barriere tra arte alta e arte bassa”. Le barriere le ha rotte davvero, questo ragazzo un po’ inquieto che spiegava con estrema tranquillità: “Per disegnare mi vanno bene uno scatolone di cartone come la facciata di un palazzo, una T-shirt come una tela, un distintivo come la fiancata di un furgoncino. Alcune delle cose che faccio si vendono care, le altre svaniscono o finiscono nella spazzatura”.

Chissà dove sarebbe arrivato, da grande, Keith Haring…

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