L’inflazione monetaria nell’Impero Romano

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L’INFLAZIONE MONETARIA NELL’IMPERO ROMANO

“La sicurezza della nostra città è scossa dalla malizia e dalla bassezza di pochi, che assalgono e depredano la comunità. Per causa loro la speculazione sul cambio delle monete è penetrata nel mercato e impedisce di assicurare l’approvvigionamento di quanto è necessario alla vita…”.

Così diceva la parte finale di un decreto del municipio di Mylasa, in Caria, datato al 209 d.C., rivelando la preoccupazione che la borsa nera dei cambi mettesse in crisi le finanze cittadine diminuendo gli introiti dei banchieri che per concessione comunale detenevano il monopolio del mercato delle valute.

Ancor più clamorosa è la scoperta delle domande rivolte ad un oracolo egiziano, conservate in un gruppo di papiri datati alla fine del III secolo d.C.

“Le mie proprietà saranno messe sotto ipoteca?”.

“La mia casa sarà venduta all’asta?”.

“Diventerò un povero mendicante?”.

“Riceverò il denaro che mi è stato promesso?”.  

Pochi anni prima, ossia nel 260 d.C. ad Ossirinco in Egitto, il terribile deprezzamento della moneta aveva indotto i cambiavalute a chiudere le proprie banche e a rifiutare il cambio “della moneta dei divini imperatori”; l’amministrazione locale dovette ricorrere alla coercizione e alle minacce, ordinando ai banchieri, sotto pena delle più gravi sanzioni, “di riaprire i loro sportelli e accettare e cambiare tutte le monete, salvo quelle assolutamente spurie e contraffatte”.

Questi documenti danno la misura tangibile della crisi finanziaria e monetaria in cui precipitò l’Impero Romano nel III secolo e da cui uscì completamente trasformato: non più tentativi di conservare un equilibrio economico tra i ceti sociali, ma abbandono dei più deboli a loro destino e consolidamento sempre maggiore dei grandi potentati economici e fondiari.

LA CRISI FINANZIARIA DELL’IMPERO ROMANO

L’inflazione e l’incapacità di mantenere una moneta che riscuotesse fiducia furono uno degli aspetti salienti di questa crisi. In realtà, i motivi per cui si imboccò la china pericolosa del sistema fiduciario furono nobili e quasi umanitari, ma le cause che impedirono poi di controllarlo e di regolarlo furono solo in parte imprevedibili, essendo profondamente connessi alla struttura stessa della società e dell’economia antica: la loro soluzione fu quindi inconciliabile con il mantenimento di quella struttura, che aveva la necessità di interpretare l’economia in funzione della politica.

Questa esigenza era nata con l’impero stesso: le masse proletarie infoltitesi durante la crisi sociale del II secolo a.C. avevano alimentato gli eserciti delle guerre civili tra Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio. Da queste guerre era nato il nuovo Stato imperiale e, con la pace portata da Augusto, cominciò a risorgere e a irrobustirsi il ceto medio, che traeva i suoi guadagni dal piccolo commercio e dalla piccola proprietà, e poi, in misura sempre crescente, dalle possibilità di impiego offerte dall’amministrazione civile e militare.

La base del potere imperiale era quindi il favore delle classi medie che ad esso si appoggiavano, come un’immensa clientela, e che ne erano inoltre il sostegno e la giustificazione. Per poter svolgere la politica di appoggio ai ceti medi e di progressiva promozione sociale che ad essi si richiedeva e per sottrarsi il più possibile a dipendenze e limitazioni di qualsiasi genere, gli imperatori aumentarono progressivamente la concentrazione dei beni economici nelle loro mani: questo fenomeno, insieme con l’accrescimento delle funzioni che l’amministrazione statale andava assumendosi, fece aumentare considerevolmente il numero dei dipendenti pubblici, mentre in misura uguale aumentavano i dipendenti, schiavi o liberi salariati, delle vastissime proprietà del demanio imperiale. Vennero così a delinearsi due blocchi sociali naturalmente contrastanti: da un lato lo Stato imperiale e le sue proprietà con la enorme massa dei dipendenti militari e amministrativi, dall’altro la proprietà privata, che non era soltanto rappresentata dai grandi latifondisti della cosiddetta classe senatoria, ma da tutti coloro che economicamente non erano legati all’attività dello Stato, e ai quali tuttavia lo Stato, con la sua organizzazione, permetteva di vivere e di prosperare. Questa massa era rappresentata dal latifondo privato e dai suoi dipendenti, ma soprattutto dalla vastissima borghesia cittadina, a base terriera e commerciale, che popolava le città dell’impero.

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A mano a mano che lo Stato sottraeva qualcosa all’economia privata, però, diminuivano le entrate fiscali, giacché lo Stato non poteva tassare se stesso, e si rendeva necessaria l’applicazione di un sistema di tassazione più gravoso, mentre il meccanismo della produzione accentrata, pur dando vistosi risultati apparenti, impoveriva lentamente l’amministrazione per la necessità politica di mettere le merci in distribuzione senza tener conto dei costi reali. Tutti questi problemi creavano enormi difficoltà finanziarie, e queste si ripercuotevano sulla stabilità della moneta.

IL SISTEMA MONETARIO DELL’IMPERO ROMANO

Il sistema monetario romano era un sistema bimetallico con una moneta d’oro chiamata aureo e una moneta d’argento chiamato denario più alcune monete divisionali (da cambio) in rame, di cui la più comune era il sesterzio (1/4 di denario).

Stabilire un rapporto col valore attuale della moneta o un potere d’acquisto è davvero molto difficile, ed anche rifarsi al valore dei metalli è ingannevole, perché ai tempi dell’Impero Romano l’oro aveva un potere d’acquisto molto superiore a quello attuale e l’argento ancora di più. Oggi infatti l’argento costa circa 0,65 euro al grammo e l’oro circa 55 euro al grammo, quindi per avere un grammo d’oro ci vogliono quasi 85 grammi d’argento; al tempo di Augusto, invece, per avere un grammo d’oro erano sufficienti 12 grammi d’argento. Si consideri inoltre che, all’epoca di Augusto, un denario pesava circa 4 grammi di argento, che 250 denarii era la paga annuale di un soldato delle legioni, e che il consumo settimanale di frumento per due persone costava poco più di mezzo denario. Il potere d’acquisto del metallo (oro e argento) era quindi molto superiore a quello attuale.

Tenendo conto di questi rapporti, appaiono strabilianti le cifre degli stipendi annui dei funzionari dello Stato, che andavano dai 10.000 denarii dei dirigenti di rango minore ai 75.000 denarii annui dei prefetti e dei procuratori.

La grande massa della popolazione era naturalmente lontana da queste cifre e probabilmente si aggirava su livelli inferiori alla paga del militare di carriera, la cui condizione era già considerata invidiabile. In seguito all’aumento del costo della vita, la paga dei militari salì a 300 denarii verso la fine del I secolo d.C. e a 350 verso la fine del II secolo d.C.

Uno scriba municipale prendeva verso la fine del II secolo un po’ meno di un legionario, cioè 300 denarii annui, mentre un lavoratore delle miniere con un contratto a termine di sei mesi datato 164 d.C. e conservatoci da un’iscrizione della Dacia (Romania), prendeva, per 130 giornate lavorative, 70 denarii più il mantenimento, calcolabile in circa 15 denarii al mese.

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Per ottenere la carica di consigliere municipale era necessario possedere un patrimonio minimo di 100.000 sesterzi, mentre molto più elevato era il patrimonio minimo richiesto a un cavaliere per entrare nell’amministrazione dello Stato o a un senatore per rivestire impieghi governativi. La maggior parte dei senatori e dei cavalieri erano però infinitamente più ricchi, come si può agevolmente valutare dai costi di opere pubbliche costruite a loro spese e donate alle loro città d’origine. Le gratifiche dei militari si traducevano invece per lo più in acquisto di poderi e, anche se conservate in denaro, non permettevano una grande accumulazione di capitale. Il lavoratore medio probabilmente non era mai in grado di tradurre in oro i suoi risparmi, se non in misura minima.

Moneta d’oro e moneta d’argento acquistano una connotazione sociale e i loro rapporti interni al sistema monetario si fanno difficili e delicati. Anzitutto la saldezza del sistema stesso era indebolita dalla difficoltà di mantenere una relazione fissa tra oro e argento nonostante le fluttuazioni del mercato; in secondo luogo bisognava trovare un equilibrio tra la domanda e l’emissione di mezzi monetari, ma con gli strumenti dell’epoca era quasi impossibile valutare la necessità di moneta richiesta dalla congiuntura economica.

LE SOLUZIONI FINANZIARIE DI NERONE

Le tendenze degli esperti romani erano infatti contrastanti ed ambedue nocive: da un lato si pensava che immettendo sul mercato una grande quantità di moneta si potesse creare euforia economica e stimolare gli investimenti, senza tener conto, se non a fatti avvenuti, che ciò provocava un immediato rialzo dei prezzi e uno svilimento delle quotazioni del metallo; dall’altro lato si preferiva contrarre le emissioni, per evitare l’inflazione, ma ciò rendeva il valore nominale inferiore al valore reale, provocava l’aumento del costo del denaro, la contrazione dei commerci e il fallimento a catena delle imprese.

Tipico, a questo proposito, il caso verificatosi durante il principato di Tiberio, convinto assertore della teoria restrittiva: l’aumento dei tassi d’interesse e la stagnazione dei prezzi portarono sull’orlo del fallimento migliaia di medi imprenditori indebitati col grande capitale, e per evitare il peggio, l’imperatore fu costretto a mettere a disposizione delle banche pubbliche l’ingente somma di 100 milioni di sesterzi da prestare a privati dietro garanzie fondiarie o immobiliari.

Da Augusto a Nerone l’oro e l’argento aumentarono di prezzo perché la passività della bilancia dei pagamenti impoveriva le scorte: si manifestò quindi una tendenza a diminuire il peso dell’aureo e del denario oppure a ridurne il contenuto argenteo. Nerone, trovatosi nella necessità di operare una scelta che rispecchiasse le tendenze politiche e sociali del governo, agì in difesa delle classi medie con una grande riforma monetaria che ebbe pesanti ripercussioni sulla storia dell’Impero, ma che lo pose in contrasto insanabile con l’oligarchia senatoria, la quale, di lì a quattro anni, giunse a rovesciarlo dal potere.

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Nel 64 d.C. Nerone modificò profondamente il rapporto tra le monete: mentre prima di lui un aureo di 8 grammi si acquistava con 25 denarii d’argento di 4 grammi, dopo la riforma un aureo di grammi 7,40 si otteneva con 25 denarii d’argento di soli grammi 3,25, per di più in una lega di minore qualità.

Mettendo in circolazione dei nuovi denarii con la medesima capacità d’acquisto dei precedenti, ma con peso e titolo inferiori, Nerone andava decisamente contro corrente: sopravvalutava l’argento e obbligava a vendere sottocosto un oro che manifestava invece una costante tendenza al rincaro e allo sganciamento dalle parità fissate con l’argento. La possibilità di riuscita stava tutta nella capacità da parte dello Stato di garantire, per 25 monete d’argento svalutato, un aureo di peso costante. In tal modo Nerone aiutava la piccola borghesia detentrice del denario, i salariati e le truppe pagate in moneta d’argento, mentre si inimicava i grandi latifondisti detentori di oro, i quali si allarmarono e divennero nemici giurati di Nerone proprio a causa di questa sua difesa dell’argento a danno dell’oro.

La riforma di Nerone significò anche l’abbandono del sistema bimetallico: l’oro e l’argento non venivano più considerati due valori indipendenti e, per mantenere il loro rapporto di cambio, il secondo veniva ancorato al primo con la garanzia dello Stato. Era l’embrione di un sistema fiduciario e l’inizio di un pericoloso sistema di risparmio peri governi in deficit.

LE SOLUZIONI FINANZIARIE DI TRAIANO

Con l’Impero di Traiano (98-117 d.C.), un militare di grande prestigio e di origine provinciale spagnola, acquistarono maggiore rilevanza politica le classi medio borghesi di Occidente e Oriente. Il problema sociale del mantenere un equilibrio tra il grande capitale senatorio e le borghesie provinciali si tradusse in un problema economico che imponeva la conservazione dell’equilibrio neroniano tra l’emissione di aurei e l’emissione di denarii.

Questo equilibrio era compromesso dalla passività della bilancia commerciale con l’Oriente, sui cui mercati gran parte delle transazioni avvenivano in oro. Il rincaro del metallo induceva infatti sfiducia nelle possibilità dello Stato di mantenere a lungo il cambio ufficiale, con gli speculatori che puntavano sulla rivalutazione dell’oro ed i militari ed i funzionari che cercavano di ottenere lo stipendio pagato in oro.

Sulla base delle indicazioni forniteci da Tacito, si sa che anche i Germani rifiutavano il denario, accettando solo quello che fosse stato coniato antecedentemente a Nerone.

Traiano doveva cercare una soluzione che lo mettesse in grado di aumentare considerevolmente le riserve auree del tesoro e che al contempo deprimesse il prezzo dell’oro a favore dell’argento, consentendo il mantenimento delle parità stabilite da Nerone e facendo dimenticare il continuo peggioramento della lega del denario. La via d’uscita fu offerta dalla spedizione contro i Daci di Decebalo, che rese i romani padroni dell’odierna Romania con le sue miniere d’oro e con le enormi riserve di metallo prezioso. Conquistando poi l’Arabia Petrea, Traiano pose sotto controllo le principali vie di commercio con l’Oriente, garantendosi anche un cospicuo prelievo fiscale.

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In questo modo non solo Traiano ristabilì la fiducia e provocò un effettivo abbassamento del prezzo dell’oro (che fu abilmente sfruttato per ridurre ulteriormente il fino del denario), ma riuscì anche a ribadire l’immagine di un potere centrale interessato al benessere dei ceti medi e difensore della loro moneta.

I maggiori impegni militari, tuttavia, resero sempre più dura la pressione fiscale, che colpiva soprattutto quei ceti medi che si volevano proteggere con la politica monetaria. Riprese così vigore una lenta ma inesorabile ascesa dei prezzi, direttamente proporzionale alla diminuzione del contenuto argenteo del denario: i cambi rimanevano stabili, perché si aveva ancora fiducia nell’autorità e nella solvibilità dello Stato, ma i prezzi delle merci, computati in argento (l’oro serviva solo per le grandi transazioni, salivano falciando così il reddito delle classi medio-basse.

Si ricorse ai calmieri, ma i tassi d’interesse cominciarono a fluttuare pericolosamente provocando il fallimento degli operatori bancari. I salari cominciarono a essere instabili, come dimostrato dalla paga dei legionari, che era aumentata di soli cento denarii in quasi due secoli, e che di colpo passò da 350 a 500 denarii tra il 198 e il 217 d.C.

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LE SOLUZIONI FINANZIARIE DI SETTIMIO SEVERO E CARACALLA

Settimio Severo (198-211 d.C.) dovette cavalcare la tigre: mentre esercitò un severo controllo sui cambi e sulla borsa nera, cercò di seguire la linea ascensionale del tasso d’inflazione con un corrispondente deprezzamento della moneta d’argento, che arrivò con lui al 50% di contenuto metallico.

Settimio Severo cercò anche di seguire l’esempio di Traiano. procurandosi notevoli riserve auree con la confisca dei maggiori patrimoni privati dei suoi oppositori politici e con fortunate imprese militari. Con la sua azione riuscì a mantenere una sufficiente fiducia nello Stato come garante dei cambi, ma non riuscì a frenare l’inflazione, con la spesa pubblica che sotto di lui raggiunse proporzioni mai viste.

Il crollo avvenne sotto il regno di suo figlio Caracalla, il quale ebbe la malaugurata idea di abbandonare il sistema neroniano e di tentare una nuova riforma monetaria, con conseguenze disastrose. Caracalla, per riportare i cambi a un livello più accettabile, decise di fare un aureo meno pesante (grammi 6,50), distruggendo quello che era stato, fino a quel momento, il cardine intoccabile su cui, nonostante tutto, continuava a reggersi il sistema fiduciario. Inoltre tentò di ripetere il vecchio sistema del risparmio sulla moneta d’argento, ma non sul vecchio denario, temendo di creare eccessiva sfiducia, bensì su una nuova moneta, l’antoniniano, che ufficialmente valeva due denarii ma che conteneva meno argento di due vecchi denarii.

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Anche se la correzione era minima, l’effetto psicologico fu enorme: in pochi anni, Caracalla distrusse la fiducia che la gente comune continuava a nutrire nella capacità del governo, con l’oro che cessò di essere coniato regolarmente, tenendolo in serbo solo per i soldati, la cui fedeltà era più che mai necessaria.

In questo periodo divenne palese l’intrinseca debolezza del sistema economico. In un mondo di scarsa produttività, in cui era remunerato più il capitale che il lavoro, in cui lo Stato aveva un bilancio modesto (specialmente se paragonato all’entità di molte fortune private) ed in cui il benessere economico dei ceti medi era legato soprattutto alle possibilità di circolazione della moneta per i medi e piccoli commerci, il governo centrale aveva scelto di aumentare le proprie prerogative e le proprie competenze in misura abnorme. Andando incontro a ingenti spese di propaganda e di beneficenza, il governo aveva scelto di colpire il grande capitale, in modo sporadico e casuale, senza favorire realmente una ridistribuzione della ricchezza.

Caracalla sottovalutò clamorosamente il costo dell’enorme macchina burocratica e produttiva dell’Impero, costo che si ripercuoteva in perdite continue ed in un aumento del peso fiscale, mal distribuito e a carico soprattutto dei ceti medi provinciali e municipali.

Pochi anni più tardi Lattanzio, nel De mortibus persecutorum, notò che essendo ormai divenuto maggiore il numero delle persone che ricevevano dallo Stato rispetto a quelle che davano, i coloni e gli agricoltori, oppressi dal gravame delle tasse, furono costretti a fuggire e ad abbandonare i campi e gli oggetti del loro lavoro, provocando un enorme declino della produttività agricola e industriale.

IL TARDO IMPERO

A questo punto, il governo dovette scegliere tra il ritorno al passato, cioè la difesa della civiltà borghese classica, o il suo abbandono. Aureliano e Diocleziano optarono per la difesa del passato, per la difesa dei ceti medi e della borghesia, sia pure con concessioni alle necessità del momento, e per la difesa della civiltà classica, paganesimo compreso. Diocleziano tentò di conciliare l’impossibile, cioè la fondazione di un buon sistema monetario con un aureo di grammi 5,45 (con lui riprendono regolarmente le coniazioni auree) e un argenteo di grammi 3,40 in buona lega, coesistente con il corso forzoso di una moneta di rame argentato di valore intrinseco bassissimo. Questa moneta, considerata la moneta dei poveri, doveva nelle intenzioni dell’imperatore essere difesa a oltranza, appoggiandosi alle altre due monete di prestigio e venendo garantita da esse. A questa moneta Diocleziano pretendeva si desse credito all’interno dell’Impero, garantendo i cambi in argento e in oro e comminando pene severissime a chi cercava di speculare; come al solito, però, i detentori del capitale si rifiutarono di vendere o di fornire denaro a chi presentava questa moneta.

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Diocleziano reagì emettendo il famoso editto sui prezzi, in gran parte conservato, e la sua difesa del passato si spinse fino al tentativo di colpire mortalmente le comunità cristiane, divenute ormai molto ricche ed i cui interessi si identificavano ormai con gran parte del capitale senatorio.

Il crollo dell’ideologia dell’antichità è contrassegnato dal fallimento del sistema monetario di Diocleziano e dalla riforma di Costantino, fatta a spese dei pagani. Costantino fu disposto a sacrificare le classi medie che Diocleziano aveva tenacemente cercato di difendere: secondo l’Imperatore, se si voleva un sistema monetario solido bisognava abbandonare il corso forzoso e ritornare al valore di Mercato dei metalli, abbandonando i detentori di moneta divisionale al loro destino e accettando un mondo diviso in privilegiati latifondisti e sottoproletari ridotti in condizioni di semi servitù.

Costantino coniò un solidus aureo di 4 grammi (rimasto invariato per tutto il periodo bizantino fino al 1200) e adeguò la restante moneta secondo il valore metallico reale, saccheggiando i tesori dei templi pagani. I prezzi salirono vertiginosamente, condannando alla miseria una grossa parte della popolazione: fu un crollo spaventoso, che mai si era visto nella storia della Roma Antica.

Un autore anonimo di qualche decennio posteriore a Costantino, esortando l’Imperatore a porre un freno alle terribili conseguenze della riforma costantiniana, ne diede una lucida descrizione: “Fu Costantino che, con una dissennata politica monetaria, al posto del bronzo, che una volta aveva un alto valore nominale, diede l’oro come moneta per i commerci minuti. L’avidità e l’accaparramento cui assistiamo si ritiene abbia avuto origine di lì. La grande massa d’oro e d’argento e di pietre preziose riposta da tempi antichissimi nei santuari pagani fu buttata in pasto al pubblico e accese l’istinto collettivo di possedere e di spendere. Da questa massa d’oro furono riempite soltanto le case private dei potenti divenute ancora più splendide per la rovina dei poveri, e le classi basse furono naturalmente oppresse con violenza. Ma la diseredata povertà affidò la sua vendetta al crimine e colpì di gravi sciagure l’impero devastando i campi, turbando la quiete con scorrerie e rapine, infiammando gli odii e suscitando alla fine tiranni e usurpatori”.

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6 pensieri su “L’inflazione monetaria nell’Impero Romano

  1. Titusmiraak dice:

    Articolo molto bello e dettagliato spiegando concetti complessi in maniera semplice, Costantino é stato la Rovina dell’ impero Romano,ma guai a dirlo in giro che offendi i cristiani

  2. Scalisi Giovanni dice:

    Articolo molto bello e interessante seguo fin dai tempi della scuola la storia Romana e da appassionato seguivo tutte le vicende politiche militari dalla Roma Republicana prima e da quella imperiale dopo mi rendo conto ora che ho letto questo articolo che parla di vicende economiche che si sono susseguite nel tempo e che ne hanno causato una volta l’ascesa e poi il declino mi è stato detto che cambiano gli uomini cambiano i tempi ma il motivo della duspita è sempre stato è sarà il denaro che we’ve per vivere ma anche per creare quelle ricchezze che se non vengono ridistribuire con uguaglianza nei veri ceti sociali possono creare delle disparità che ne generano odi verso i più facoltosi fino alla disfatta di imperi regni e nazioni. Se ci guardiamo un po intorno anche si giorni d’oggi abbiamo gli imperialist mondiali e tutti gli altri a correre intorno, resto comunque sempre più convinto che la civiltà Romana ha lasciato un segno molto profondo sul mondo intero e per questo conserva il titolo di capitale del Mondo,

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