Feste di piazza nella Roma Ottocentesca

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FESTE DI PIAZZA NELLA ROMA OTTOCENTESCA

Nell’Ottocento, le piazze di Roma erano veri e propri spazi teatrali che rappresentavano il fulcro della vita popolare, il punto d’incontro della città e della campagna, dei vari ceti sociali dall’intellettuale al “burino”, dei romani e degli stranieri a Roma: in parole povere, esse riproponevano il medesimo ruolo detenuto dal Foro ai tempi dell’Antica Roma e dall’Agorà per i Greci.

Nelle piazze di Roma poi, per il mercato del mercoledì, affluivano anche migliaia di sfaccendati e di curiosi ad ammirare e ad ascoltare a bocca aperta le meraviglie dei cantastorie, dei ciarlatani, dei saltimbanchi, degli improvvisatori popolari, dei domatori di orsi, in un vero e proprio caleidoscopico spettacolo popolare che il celebre incisore Bartolomeo Pinelli riprese in vari lavori, ancor oggi assai preziosi per comprendere le variegate esibizioni e l’entusiasmo popolare.

Anche le ultime novità tecnologiche e le ultime “diavolerie scientifiche” avevano la propria eco proprio sulla piazza dove, fra gli spettacoli popolari, comparivano per l’appunto gli ultimi ritrovati del progresso, come la Lanterna Magica, e vi faceva capolino quel mondo fatato che tanto affascinava il popolo romano, da secoli isolato culturalmente e politicamente sotto la cupola di vetro affumicato della Chiesa.

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Uno degli spettacoli da piazza più seguiti era quello dei burattini. Molti burattinai chiedevano con regolare domanda al Governatore di Roma di poter agire con il loro “casotto” nelle piazze della città, specialmente a Piazza Navona, durante tutto l’anno, perché il teatro dei burattini era l’unico a fare eccezione alla legge rigorosissima, secondo cui il teatro si poteva fare solo in tempo di Carnevale. In aggiunta a ciò, di fronte alla restrittiva e pignola censura della Roma Papalina, irta di impedimenti e di intoppi d’ogni genere, il teatro dei burattini era l’unico ad avere una vaga (seppur vigilata) libertà di espressione, in cui la satira politica aveva il suo meritato sfogo. Leggendo i libri sull’argomento, si leggono per l’appunto passi come questo: “Vogliamo notare come quella specie d’impunità e d’irresponsabilità, di cui si rivestivano i pupattoli, faceva sì i piccoli teatri di Piazza Navona e del Fico, e più tardi di Palazzo Fiano, si trasformassero qualche volta in assemblee politiche, in cui il pubblico, incominciando a dialogare con i piccoli attori, li istigava a ribadire i luoghi più duri e non smetteva finché non fosse venuto fuori un atroce sarcasmo di circostanza, che, ricoperto d’applausi, equivaleva a un ordine del giorno”.

Uno dei protagonisti da piazza più popolari a Roma nei primi dell’Ottocento fu il celebre burattinaio Ghetanaccio, al secolo Gaetano Santangelo, che lavorava con il suo casotto soprattutto a Piazza Navona, ma anche a Piazza di Spagna e in altre piazzette della Città Eterna. Era così soprannominato per il suo aspetto trasandato da accattone e per l’atteggiamento sempre ribelle e spregiudicato nei confronti dei potenti, dei nobili e dell’autorità costituita.

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Grande attrazione popolare erano anche i cantastorie, che approdavano a Roma dalle fiere dei paesi vicini con un repertorio di racconti e ballate che facevano restare a bocca aperta il popolo di Roma. Erano le gesta degli eroi del Ciclo Carolingio, Orlando e Rinaldo, il Ciclo di Re Artù e della Tavola Rotonda, la Gerusalemme Liberata, i fattacci medievali come quelli riguardanti la Pia de’ Tolomei o Francesca da Rimini, e poi ovviamente i grandi classici, come le leggende dell’Antica Roma o della Guerra di Troia.

C’erano poi le dolorose storie “strappacore” che venivano spesso stampate in foglietti volanti da editori di provincia per una diffusione capillare e vasta, affidata a questi cantastorie girovaghi, che il pubblico non esitava a comprare per pochi soldi; d’altronde, secondo molti studiosi, furono proprio bardi e cantastorie a determinare, fin dal primo apparire della stampa nel XV secolo, il diffondersi e il prosperare di tale nuovo mezzo di comunicazione.

Erano storie cantate con accompagnamento di chitarra, di calascione, di violino o di un semplice tamburello, che dava il ritmo scandito dai versi aggiustati sul motivo musicale tradizionale del ritornello; il pubblico si lasciava guidare dal ritmo ed ascoltava queste favole (“frottole”) e queste leggende, pendendo dalle labbra del cantore, che rievocava amori infelici e delitti spaventosi commessi per gelosia da amanti traditi.

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Una popolarità simile a quella dei cantastorie l’avevano i “cerretani”, parola che si è poi trasformata nel vocabolario italiano in “ciarlatani”, imbonitori che vendevano rimedi per tutti i mali e soprattutto santini e reliquie miracolose, che secondo le loro assicurazioni facevano prodigi di guarigione. Così spacciavano per buone ai creduloni le più strane reliquie: l’acqua del Giordano, l’ampolla di vino dell’ultima cena, la piuma dell’arcangelo Michele, la candela delle nozze di Cana, la spina del leone di Daniele presa nella fossa dei leoni, uno dei trenta denari di Giuda, un tizzo di carbone preso sotto la graticola di San Lorenzo e così via, tutti rimedi infallibili per guarire ogni malattia.

Con il loro caratteristico cartellone, in cui erano raffigurati i tanti miracoli e prodigi operati dai loro rimedi, imbonivano il pubblico bigotto e credulone della piazza, facendo affari d’oro nel propinare alla gente rimedi di ogni genere, sotto forma di unguenti, lozioni, pomate e sciroppi, buoni per tutte le malattie e per tutti i dolori, dall’artrite all’asma.

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Dall’arte della parola, più o meno poetica, si passava al gioco di strada vero e proprio (raccontiamo nel dettaglio i giochi di strada della Roma Ottocentesca in questo altro articolo del nostro blog). Il giocatore di bussolotti, ad esempio, era un pittoresco biscazziere da fiera, che faceva un gioco molto simile al moderno gioco delle tre carte. Con tre barattoli o bicchieri rovesciati sul piano di un tavolino coperto da una tovaglia sgargiante, il giocatore accettava le scommesse con quelli del pubblico che abboccavano: gli scommettitori dovevano indovinare, dopo aver messo la posta della scommessa, sotto quale bicchiere o barattolo stava la carta o la moneta messavi dall’abilissimo prestigiatore. Operava davanti agli occhi di tutti, con un gioco di mani rapidissimo, tale che qualche contadino o bracciante agricolo, arrivato fresco fresco dalla campagna con un piccolo gruzzolo guadagnato faticosamente in una o due settimane di duro lavoro, si incaponiva al gioco e tentava più volte la fortuna, fino a lasciare in mano dell’abile “bussolottaro” tutto il proprio denaro.

Come si vede chiaramente dall’incisione di Bartolomeo Pinelli, non mancava mai, fra gli spettatori, qualche buttero della campagna romana, con i tipici gambali dalla larga falda protettiva sul ginocchio e gli speroni sui talloni, che si appoggiava all’inseparabile bastone da mandriano per seguire interessato l’abile volteggiare delle mani del giocoliere, con quest’ultimo ad osservarlo invitante con un sorrisino malizioso.

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C’erano poi ovviamente i saltimbanchi, abilissimi acrobati che strabiliavano la gente con spettacolari capriole e mirabolanti salti mortali. Questi giocolieri, che offrivano al pubblico delle piazze veri e propri numeri da circo, non erano mai romani, ma venivano in gran parte dall’Illiria, dalla Bulgaria, dal Veneto, dalla Romagna, e qualcuno da Napoli, dove la maschera di Pulcinella, come del resto tutte le maschere della gloriosa Commedia dell’Arte, aveva una spiccata vocazione e tradizione acrobatica.

Bartolomeo Pinelli ha rievocato questi spettacoli in svariate incisioni, una delle quali è qui riproposta. “All’entrar Signori a vedere l’insuperabile Spagnoletta. La spesa non è altro che un bajocco”, ecco quanto si legge sul cartellone pubblicitario affisso dall’impresario sul palco di legno piuttosto improvvisato nei pressi di Piazza della Rotonda, a pochi passi dal Pantheon. Un tamburino martella furiosamente sul tamburo, l’acrobata suona la tromba per attrarre i passanti e un pagliaccio, vestito da Pierrot, esegue piroette e recita buffi e arzigogolati soliloqui, che mandano in visibilio gli sprovveduti spettatori.

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Fra i numeri di attrazione che richiamavano il pubblico delle piazze di Roma c’era poi la cosiddetta “Lanterna Magica”, un apparecchio ottico paragonabile ai nostri vecchi proiettori per diapositive. Le lastre erano costituite da vetri su cui erano disegnati oggetti, paesaggi ed animali. I disegni potevano essere animati, con parti mobili ed effetti ottici di movimento, ottenuti grazie a opportuni giochi di specchi, come in un caleidoscopio: un cavallo al galoppo, un uccello in volo che muoveva le ali e così via.

La “Lanterna Magica” risaliva alla fine del Cinquecento e fu perfezionata da padre Atanasius Kircher e da padre Milliet de Charles nel 1671. L’apparecchio era munito internamente di pareti di specchi, al cui centro focale si metteva una candela o una luce a petrolio, che fungeva da fonte luminosa. Una torretta a forma di comignolo serviva all’uscita del fumo prodotto dal lume. La fonte luminosa poteva in realtà essere ottenuta anche dalla luce del sole, che penetrava attraverso finestrelle circolari nell’intorno dell’apparecchio, grazie a specchi inclinati secondo una calcolata angolazione. La “Lanterna Magica” aveva generalmente quattro oblò per permettere ad altrettanti spettatori di vedere all’interno del cassone, attraverso apposite lenti, le immagini riprodotte: era insomma una minuscola sala cinematografica ante litteram.

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Uno degli spettacoli da piazza più curiosi era il cosiddetto Ballo dell’Orso, raffigurato da Bartolomeo Pinelli in un’incisione del 1830, nel mirabile scenario di Fontana di Trevi. L’orso ballava al suono di uno strumento a fiato, mentre il domatore lo teneva per la catena, fissata alla museruola. In genere i domatori di orsi erano zingari, di provenienza slava o ungherese, che giravano l’Italia con la belva a guinzaglio, per dare spettacolo nelle piazze; addestravano l’orso facendolo passare su una lastra di ferro infuocata e suonando, contemporaneamente, con una tromba o un tamburello una determinata musica, sempre la stessa. In seguito, all’udire quella stessa musica, anche se sotto i piedi non aveva più la lastra rovente, pet riflesso condizionato, la belva sollevava le zampe istintivamente, collegando la musica al dolore, dando l’impressione che ballasse al suono di quella musica.

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In realtà, però, lo spettacolo più grandioso per il popolo romano era offerto, in tutta la sua drammaticità, dall’esecuzione della giustizia. Tale era la passione dei Romani per tali crudeli esecuzioni che le prime dell’anno si tenevano a Carnevale, per dar modo al boia (uno per tutti, Mastro Titta) di dare ufficialmente inizio, con lo spettacolo dell’impiccato, ai festeggiamenti, trasformando il condannato a morte nel capro espiatorio su cui si scaricavano le colpe e i peccati di tutta la comunità. Che la forca fosse il massimo dello spettacolo, gustato nel tragico sapore che la morte di un uomo, ce lo ricorda anche un celebre sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli:

Mi’ padre pijò poi la carrettella,

ma pri ma vorze vede l’impiccato,

e me teneva in arto inarberato,

dicenno: “Va’ la forca quant’e bella!”.

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Nel raro caso in cui non ci fossero condannati a morte disponibili, essi venivano sostituiti con un galeotto condannato al supplizio del “cavalletto”: fissato su un somaro, con le mani legate dietro la schiena ed i piedi allacciati con una fune sotto la pancia dell’animale, il condannato doveva percorrere le vie della città per essere oggetto di scherno e di ludibrio da parte del popolo romano.

Il condannato portava appesa al collo una tavoletta dove erano scritte le sue generalità e la motivazione della condanna, che nel caso dell’incisione di Bartolomeo Pinelli, è quadruplice: si tratta infatti di un malvivente che ha bestemmiato, ha rubato, è stato trovato con le armi addosso ed inoltre è stato preso in flagrante stato di ubriachezza.

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2 pensieri su “Feste di piazza nella Roma Ottocentesca

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