La Pop Art

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LA POP ART

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, Londra era una città austera, che mostrava ancora le ferite della Seconda Guerra Mondiale. Gli unici artisti inglesi di fama internazionale erano Francis Bacon ed Henry Moore; i quadri di giovani come Richard Hamilton, Peter Blake e David Hockney esplosero all’improvviso, come una bomba piena di colori, insieme alla minigonna di Mary Quant e al fenomeno Beatles, che aprì la porta al loro strepitoso successo ed alla quasi simultanea moda dei capelloni.

La Pop Art nacque proprio in quegli anni, una fase fondamentale in cui la grigia Londra venne sostituita con la velocità di un fulmine dalla “Swinging London”, la città più hippy del mondo. Il termine stesso di Pop Art, riferito ad un’arte che adottava immagini familiari, già viste e riviste in televisione, al cinema, per strada o al supermercato, fu usato per la prima volta dal critico inglese Lawrence Alloway in occasione di una mostra dal titolo profetico, This is tomorrow, organizzata dalla Whitechapel Gallery nel 1956. L’anno dopo Richard Hamilton mise nero su bianco ciò che la Pop Art dovesse essere: “Popolare, destinata a un pubblico di massa, effimera, facilmente comprensibile, di basso costo, rivolta alla gioventù, spiritosa, sexy, ingegnosa, affascinante e capace di creare un grande business”. Tutti concetti che Andy Warhol avrebbe ribadito, con una sorprendente conoscenza delle tecniche della comunicazione di massa, qualche anno dopo.

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La Pop Art inglese arrivò infatti a New York nel 1961. Fu un 32enne di belle speranze, Claes Oldenburg, ad usare parole chiarissime per far capire a tutti che l’arte intellettuale degli espressionisti astratti aveva ormai fatto il suo tempo: “Sono per un’arte che prende le sue forme dalla vita, ed è dolce e stupida come la vita stessa. Sono per l’arte delle pompe di benzina bianche e rosse e perle ammiccanti pubblicità di biscotti”.

Due anni dopo fu il grande artista Roy Lichtenstein a specificare che la Pop Art si servisse “dell’arte commerciale per il contenuto del quadro. È coinvolta con le caratteristiche più sfacciate e minacciose della nostra cultura, le cose che odiamo, ma che sono così potenti nella pressione che esercitano su di noi”. Le insegne stradali e i fumetti divennero improvvisamente soggetti interessanti per un dipinto.

Riconosciuta negli Usa come forma d’arte vera e propria solo verso la fine del 1962, quando il MOMA di San Francisco mise in scena una rassegna sull’arte inglese contemporanea e il gallerista Sidney Janis organizzò a New York quella Mostra internazionale dei Nuovi realisti che fece epoca, la Pop Art cominciò a mietere successi su entrambe le sponde dell’oceano: all’inizio del 1964 finì sulle copertine del Sunday Magazine, del London Observer e di Newsweek. In meno di dieci anni si era diffusa a macchia d’olio in mezzo mondo, lanciando un modo nuovo di fare arte che avrebbe continuato a germogliare per quasi mezzo secolo.

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Per quanto velocissimo, comunque, il successo della Pop Art fu molto contrastato: tanto per intendersi, la prima mostra delle Campbell’s Soup di Andy Warhol alla Ferus Gallery di Los Angeles, nel 1962, fu semplicemente ridicolizzata dai recensori. Dei 32 quadri esposti, e offerti a un prezzo che non superava i 1.500 dollari, solo uno trovò un acquirente. Il gallerista a quel punto fece un’azione di straordinaria saggezza: li comprò tutti in blocco, riprendendosi anche l’opera venduta. Nel 1996 quel gruppo di lavori, diventato nel frattempo assai celebre, venne acquistato dal MOMA per 15 milioni di dollari. Un ottimo affare, visto che poco più di venti anni fa uno dei Car Crash di Warhol è stato aggiudicato da Christie’s per più di 70 milioni di dollari, a dimostrazione di quanto il maestro della Pop Art avesse ragione a dire: “Quando una fotografia terribile la si vede e la si rivede tante volte, non fa più alcun effetto”.

Nel gennaio 1964 la rivista Life, riprendendo una feroce stroncatura del New York Times, pubblicò un articolo su Roy Lichtenstein, il cui titolo era: “È lui il peggior artista americano?”. Eppure, a soli due anni dal suo esordio, le sue tele si vendevano già per quattromila dollari, e Lichtenstein era al centro del dibattito artistico. Anche in Italia, puntualmente, scoppiò la polemica: nell’estate del 1964, durante quella che venne ironicamente soprannominata come la “Biennale della Pop Art”, il riconosciuto precursore Robert Rauschenberg vinse il Leone d’Oro tra le interpellanze parlamentari indignate, l’improvvisa assenza del presidente della Repubblica Antonio Segni all’inaugurazione della rassegna e la bocciatura della Chiesa Cattolica, che deplorò l’esposizione di “oggetti che non hanno alcuna relazione con l’arte, relitti grotteschi, robaccia trovata in qualche soffitta con l’aggiunta di ostentazioni indecenti, che offendono la sensibilità morale”.

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A dire la verità, la Pop Art fu stroncata anche dalla parte opposta della barricata (ed obiettivamente non sarebbe potuto essere altrimenti): per la Pravda si trattava di un “carnevale tragico, di una falsa e distorta forma di realismo”.

Anche la stampa italiana fu durissima. Alla Stampa di Torino, che si chiedeva se questi sedicenti artisti della Pop Art fossero in realtà “falegnami, maniscalchi, commercianti d’immondizia, tecnici? Sono dei geni o degli idioti? Profeti illuminati o imbroglioni sfrontati?”, rispose il Corriere della Sera con un celebre articolo: “Rifiutiamo un’arte americana che non difende i valori dello spirito, che non crede nell’arte e contribuisce alla disintegrazione del mondo”.

Anche il mondo dell’arte italiana si spezzò in due tronconi nettissimi. A Giorgio de Chirico, convinto che la Pop Art non potesse nemmeno essere giudicata perché “non ha nulla a che fare con l’arte”, si contrappose clamorosamente Renato Guttuso, che forse fu più lungimirante nell’affermare, spiazzando tutti, che “la Pop Art americana è il più grande fenomeno artistico del XX secolo dopo il cubismo”.

Appena un anno dopo, nel 1965, la Pop Art veniva già data per morta e sepolta da quello stesso Andy Warhol che le aveva dato gloria e fama. In realtà, gli artisti pop erano ormai già entrati nella storia per aver saputo raccontare, interpretare e criticare in modo nuovo la società contemporanea dominata dalle comunicazioni di massa, con l’ossessivo martellamento pubblicitario e il consumismo eletto a sistema di vita.

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