MARK ROTHKO
Lo trovarono nel suo studio, in un lago di sangue, il 25 febbraio 1970.
Esattamente quella stessa mattina, otto suoi capolavori, che aveva eseguito per il ristorante del Seagram Building di New York ma aveva poi regalato alla Tate Gallery, venivano consegnati al museo londinese per essere esposti nella penombra, come lo stesso Rothko aveva preteso, in una sala interamente dedicata a loro.
Nell’effervescente New York che, grazie agli espressionisti astratti ritratti in una celebre foto pubblicata nel 1951 dalla rivista Life, aveva cambiato il corso dell’arte contemporanea, Mark Rothko non fu l’unico a togliersi la vita o a decedere di morte violenta. Arshile Gorky si era suicidato nel 1948, mentre Jackson Pollock e David Smith avevano perso la vita in incidenti d’auto che ancora oggi lasciano qualche perplessità.
Poco più di un mese prima, Rothko aveva dato un party nel suo studio per chiedere agli invitati un parere sui suoi ultimi dipinti, che sarebbero passati alla storia come i “Dark Paintings”. Molto si è speculato sul fatto che con il passare del tempo, i suoi dipinti diventassero sempre più scuri e infine neri, seguendo probabilmente il medesimo percorso dei fantasmi interiori che l’avrebbero poi condotto alla morte. Eppure non c’è alcuna prova concreta che il radicalismo dei suoi Black on Grays, eseguiti nel corso dell’ultimo anno di vita ed esposti solo dopo la morte di Rothko, fosse in qualche modo legato agli eventi della vita privata: si può invece spiegare come la logica conclusione di una ricerca indirizzata verso una sintesi sempre più accelerata delle forme e dei concetti o ancor più, per usare le parole di Rothko, “verso l’eliminazione di tutti gli ostacoli tra il pittore e l’idea, e tra l’idea e l’osservatore”.
A ben guardare, poi, i Dark Paintings tornano in modo intermittente nella sua produzione fin dal 1949, e il suo ultimo quadro è in realtà sorprendentemente saturo di vibranti variazioni di rosso. Anche i quattordici dipinti monumentali per la Rothko Chapel della Menil Collection di Houston, che a prima vista il visitatore percepisce come neri, sono invece realizzati con parecchie velature di un tenebroso e scurissimo colore rosso sangue. Mark Rothko si era gettato anima e corpo in quelle opere, che sentiva come un punto di arrivo della sua poetica: si pensi che, se tra il 1950 e il 1964 aveva realizzato in media 24 tele ogni anno, nel 1965 non aveva dipinto una sola tela che non fosse connessa con il progetto della cappella, che fu inaugurata nel febbraio 1971, un anno esatto dopo la morte di Rothko.
Rothko credeva in un mondo dell’immaginazione, violentemente contrapposto a quella vita reale che era scomparsa dalle sue composizioni fin dai primi anni Quaranta. Pittore di idee, come non si stancò mai di ripetere, Rothko costruì uno spazio simbolico polverizzando l’identità familiare degli oggetti, e mettendo al loro posto sulla tela due o tre forme colorate fluttuanti, che sembrano essersi materializzate dal nulla come un miraggio, e proprio come un miraggio danno la sensazione di poter svanire da un momento all’altro. Quelli dell’artista sono colori tragici, che dovevano regalare alla sua pittura la stessa emotività della musica, secondo quanto aveva sostenuto Nietzsche, la cui lettura lo aveva accompagnato fin dagli anni della formazione. Come la musica, infatti, l’arte di Rothko si sforza di esprimere l’inesprimibile.
Nel 1972 il critico Harold Rosenberg scrisse che Rothko aveva “ridotto la pittura a volume, tonalità e colore, con il colore come elemento vitale”. L’artista, da sempre caustico nei confronti di critici e storici dell’arte, non fu affatto d’accordo, e ad uno dei suoi collezionisti più affezionati, Duncan Phillips, che vedeva proprio nel colore l’elemento magico delle sue opere, quello in grado di attirare e coinvolgere lo spettatore, rispose che il segreto andava cercato altrove, ad esempio nel formato. Come ha scritto il figlio Christopher, i dipinti di Rothko sono grandi, vibranti e decisamente iconici, e per questo si impongono in modo immediato, quasi “fisico”.
I piccoli quadri del Rinascimento, diceva spesso Rothko, sono come un breve racconto, mentre i grandi dipinti sono come un dramma e invitano lo spettatore a una partecipazione diretta. Le sue opere dovevano far riflettere, e per ottenere lo scopo raccomandava di guardarle da vicino: arrivò a stabilire che la distanza ideale per osservare i suoi dipinti monumentali fosse di appena 18 centimetri, perché lo spettatore doveva letteralmente immergersi in essi. Per Rothko gran parte del significato delle sue tele doveva emergere lentamente proprio dalla mente di chi le osserva: “Un quadro vive in compagnia, dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile”, aveva dichiarato nel 1947. La chiave di lettura “deve scaturire da un’esperienza profonda tra l’immagine e l’osservatore, perché l’apprezzamento dell’arte è un vero matrimonio dei sensi”. Già nel 1943, del resto, aveva dichiarato che i suoi quadri volevano rappresentare l’espressione semplice di un pensiero complesso.
Apprezzava i film di Michelangelo Antonioni, nei quali la narrazione è continuamente ostacolata da un vuoto criptico spaziale e psicologico, lo stesso delle sue tele. Oltre a Nietzsche, la cui Nascita della tragedia lo influenzò moltissimo, leggeva Kierkegaard e Dostoevskij, ma quando gli chiedevano a quale arte si fosse ispirato, continuò sorprendentemente a citare, a parte Matisse, quella antica. Lo avevano sedotto i siti archeologici di Pompei e Paestum, gli affreschi di Boscoreale che andava a studiare al Metropolitan Museum e quelli del Beato Angelico, che riteneva sublimi.
La Biblioteca Laurenziana di Michelangelo “fa sentire i visitatori intrappolati in una stanza in cui tutte le porte e le finestre sono murate”: proprio ciò che voleva ottenere con i suoi quadri che, nelle mostre e talvolta perfino nelle case dei collezionisti, disponeva con una cura maniacale. E se per le opere della cappella di Houston dichiarò di aver guardato ai mosaici della cattedrale di Torcello, si appassionò anche a Turner, che aveva scoperto in una mostra del Moma.
Nel dicembre 1955 la rivista Fortune considerava le opere di Rothko un investimento sicuro. Tre anni dopo Sydney Janis riuscì a vendere 13 dipinti per 20mila dollari e l’Hotel Four Seasons ne avrebbe pagati 35mila per i quadri che gli aveva commissionato quell’anno per il suo elegante ristorante nel Seagram building. Nel 1967 Menil firmò un assegno di 250mila dollari per i 14 quadri della cappella di Houston e due anni dopo la galleria Marlborough comprò direttamente dall’artista 87 quadri, pagandoli più di un milione. Cifre che oggi fanno sorridere: nel XXI secolo, Mark Rothko è diventato uno degli artisti più costosi del dopoguerra.
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