I mosaici nelle prime chiese di Roma

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I MOSAICI NELLE PRIME CHIESE DI ROMA

Quando l’arte paleocristiana salì dagli oscuri meandri delle catacombe romane alla superficie, al fine di decorare gli edifici di culto, si abbandonò la tecnica dell’affresco, più idonea ai supporti tufacei e all’illuminazione delle lucerne, e le si preferì quella del mosaico, raramente impiegata nei cimiteri sotterranei (anche se non mancano insigni esempi di tale genere, anche ben conservati, nelle catacombe napoletane di San Gaudioso).

A Roma, l’esempio probabilmente più celebre in tal senso si trova all’interno della Necropoli Vaticana, con il cosiddetto Mausoleo dei Giulii, databile alla metà del III secolo d.C., con volta e pareti interessate da un fine tessellato, sul quale compaiono la storia di Giona, il Buon Pastore e, al centro della volta, la personificazione del sole che sale al cielo su una quadriga, allusivo al trionfo di Cristo, sole di giustizia e di salvezza.

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IL MAUSOLEO DI SANTA COSTANZA

Circa un secolo dopo, un altro mausoleo presentò nella decorazione la tecnica musiva: si tratta dell’edificio legato alla figura di Costantina (o Costanza), sorto a pianta centrale accanto al complesso di Sant’Agnese sulla via Nomentana. Il monumento, analogo ad altri mausolei costantiniani, doveva essere completamente rivestito di mosaici, ma oggi restano solo le decorazioni della volta anulare, mentre sono andati completamente perduti i mosaici della calotta, dove sappiamo che erano rappresentati i più noti episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento.

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In due piccole absidi, ricavate nelle pareti del mausoleo, vengono invece raffigurate due scene relativamente innovative sia per la pittura che per il mosaico, ma già più volte elaborate nelle fronti dei sarcofagi. In quella di sinistra, infatti, compare la cosiddetta “traditio legis”, con Cristo al centro della composizione, alla sua sinistra San Pietro che con le mani velate riceve un rotolo con l’iscrizione Dominus pacem dat (il Signore dà la pace) e dalla parte opposta San Paolo, nell’atto tipico dell’acclamazione.

Nella seconda absidiola, il concetto di trasmissione del potere è ancora più esplicito con la rappresentazione di Cristo, nimbato, barbato e seduto sul globo, mentre consegna le chiavi a San Pietro: si tratta di una vera e propria investitura, in cui il Cristo ha l’aspetto dell’imperatore e Pietro quello del primo dignitario.

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SANTA PUDENZIANA

Il monumento mosaicato più antico che sia rimasto, per quanto attiene alle decorazioni degli edifici di culto, si può invece localizzare nella basilica sita fra i colli Esquilino e Viminale, laddove era sorto già con ogni probabilità l’antico titulus di Pudente, poi noto come Santa Pudenziana. Della sua decorazione si conserva solo lo splendido mosaico del catino absidale, riferibile con buon margine di probabilità al pontificato di Innocenzo I (401-417), come testimoniato anche da un’iscrizione oggi andata perduta.

Quest’ampia composizione musiva ha purtroppo subito innumerevoli danni nel corso del tempo, tra i quali il taglio della parte inferiore durante i rifacimenti della chiesa nel 1588 ad opera dell’architetto Francesco da Volterra ed alcuni restauri poco felici tra il XVI e il XIX secolo, prima in pittura e poi sul mosaico stesso, che hanno definitivamente compromesso la parte destra del catino. Rimane, comunque, intatto lo schema compositivo, che vede al centro la splendida immagine di Cristo barbato, nimbato e seduto su un prezioso trono aureo tempestato di gemme e coperto di drappi. Egli con la mano sinistra sostiene un codice aperto, ove è scritto Dominus conservator ecclesiae Pudentianae (il Signore protettore della chiesa di Pudente); attorno a Gesù siedono i dodici apostoli, quasi a costituire un consesso di alti dignitari imperiali, che riflette come in uno specchio l’immagine stessa della Chiesa militante, dove il vescovo di Roma, ossia il rappresentante di Dio in terra, siede in trono circondato dai suoi ministri.

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La rappresentazione a mosaico di Santa Pudenziana vuole significare innanzitutto l’unità delle due componenti essenziali della comunità delle origini, quella che proveniva dal seno della religione giudaica e quella che si era propagata fra i pagani: lo testimoniano due figure di donne che, personificando con ogni probabilità queste due chiese, pongono sul capo dei principi degli apostoli le corone del martirio.

Sovrasta la scena un’imponente croce gemmata situata sul Golgota, in perfetta corrispondenza con il Cristo, intorno alla quale è posto il cosiddetto tetramorfo, ossia i simboli dei quattro evangelisti, in un cielo variegato nei toni rosa, arancio, verde e azzurro. Questa simbologia trae ispirazione dall’Apocalisse di San Giovanni, al cui scritto sembra vadano ricollegati anche altri elementi in parte perduti, come l’agnello mistico, una colomba e la mano divina. Da ciò si potrebbe dedurre che l’intera scena possa essere letta anche come Giudizio Finale, ossia il momento in cui Cristo ritorna per la seconda volta (la cosiddetta parusia) prendendo posto fra gli apostoli come in un tribunale, per separare i giusti dai malvagi.

SANTA SABINA

Muovendoci idealmente da Santa Pudenziana, raggiungiamo ora il colle Aventino, dove ancora si conserva, intatta nelle sue essenziali strutture e decorazioni, la Basilica di Santa Sabina. La chiesa testimonia una fase più avanzata, almeno di un trentennio, rispetto a Santa Pudenziana: al suo interno sussistono elementi decorativi che di solito invece sono andati completamente perduti, quali il magnifico colonnato in marmo greco, la schola cantorum (ossia lo spazio per il coro dei cantori), le tarsie marmoree delle pareti laterali nella navata centrale e soprattutto la splendida porta lignea, comprensiva di quella che è considerata una delle prime, se non la prima in assoluto, rappresentazioni della crocifissione di Cristo.

Meno conservato, purtroppo, si presenta oggi il mosaico che doveva decorare il monumento: restano, comunque, alcuni brani del tessellato che ornava il muro di controfacciata, dove ancora campeggia una monumentale epigrafe a mosaico, in una splendida grafia classica in lettere d’oro su un intensissimo fondo blu di tessere vitree. Essa riporta al pontificato di Celestino I (422-432), sebbene la chiesa sia stata consacrata con ogni probabilità solo dal suo successore Sisto III (432-440). D’altra parte, anche l’elogio delle virtù cristiane del committente, il prete Pietro d’Illiria, contemporaneo di Celestino, fa pensare ad una sorta di elogio postumo.

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L’iscrizione di Santa Sabina è definita da un classico fregio aureo su fondo scuro e presenta, nei lati minori, due campi rettangolari a fondo d’oro campiti da due figure femminili. Le due donne, rappresentate di fronte ma leggermente volte verso il centro, personificano, così come in Santa Pudenziana, la Ecclesia ex gentibus (chiesa dei pagani) e la Ecclesia ex circumcisione (chiesa dei giudei), come suggerito molto esplicitamente dalle due didascalie poste ai piedi delle figure. La prima figura presenta caratteristiche fisiche ed elementi del vestiario di tipo romano; ha nelle mani un codice aperto con una scrittura a “zig zag” per alludere al corsivo occidentale, e dunque al Nuovo Testamento. La seconda, vestita nei toni del bruno, mostra invece nel libro che tiene dischiuso righe di grafia indicate da tessere separate, per esprimere la lingua ebraica, riferita al Vecchio Testamento.

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Da antichi disegni conosciamo il resto della decorazione a mosaico, rimasta intatta sino alla fine del XVII secolo, quando lo studioso Giovanni Ciampini redasse una preziosa riproduzione che rappresentava, più in alto dell’iscrizione, i principi degli apostoli nella corrispondenza già riscontrata a Santa Pudenziana. Ancora più in alto erano disposti i simboli degli evangelisti e la mano divina.

Sono oggi perduti anche i mosaici dell’arco absidale e dello stesso catino. Per il primo ci viene ancora in aiuto Ciampini che, in un disegno, pone una serie di clipei che corrono lungo l’arco, ove sono raffigurati Cristo, gli apostoli e gli evangelisti, con le due città di Gerusalemme e Betlemme.

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SANTA MARIA MAGGIORE

Pressoché coeva a questa decorazione è anche quella musiva della Basilica di Santa Maria Maggiore, da riferire al pontificato di Sisto III, che con quest’opera volle esaltare il dogma di Maria Madre di Dio, appena stabilito dal concilio di Efeso (431). Di quel maestoso complesso figurato sono andate perdute le decorazioni della facciata interna e quella della conca absidale, mentre si conservano i mosaici dell’arco trionfale e parte di quelli che ornavano le navate mediane. Di questi ultimi, organizzati in quadri ispirati alle storie del Vecchio Testamento, restano dodici pannelli nella parete sinistra e quindici nella destra.

I singoli episodi, che spesso riprendono tematiche ed iconografie già note nell’arte cimiteriale, sono rappresentati con dovizia di particolari che lasciano indovinare dei modelli miniati, dove ancora viva è la tradizione ellenistico-romana nella narrazione continua e realistica. Nella parete destra si sviluppano le storie di Abramo e di Giacobbe, desunte dalla Genesi, in quadri che talora ricordano molto da vicino gli splendidi affreschi dell’ipogeo di via Dino Compagni a Roma. Nell’altra parete si snodano invece i racconti della vita di Mosè, tratti dall’Esodo, e di Giosuè, ispirati all’omonimo Libro.

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Più complessa risulta la decorazione dell’arco trionfale, organizzata in quattro fasce che accolgono specialmente episodi legati alla figura della Madonna e all’infanzia di Gesù, utilizzando anche racconti non riportati dai Vangeli, e quindi considerati apocrifi. In alto, in un tondo compare un trono gemmato su cui sono poggiate una corona e una croce, mentre ai suoi piedi è un libro: si tratta di una raffigurazione ispirata all’ Apocalisse, e il trono è quello in cui siederà il Cristo nel giorno del Giudizio Universale.

Al di sotto di questa scena, l’iscrizione che sigla la committenza dei lavori dice che il Papa Sisto ha fatto tutto per il popolo di Dio, mentre a sinistra si sviluppano le rare scene dell’Annunciazione a Maria e del Sogno di Giuseppe, con a destra la Presentazione al Tempio e la Fuga in Egitto. Inferiormente, un episodio pure ambientato in Egitto è ancora ispirato agli scritti apocrifi, nei quali si narra la storia di Afrodiso di Sotine, che si reca al tempio per adorare Gesù Bambino avendo saputo che il piccolo, entrando nell’edificio, aveva fatto infrangere tutti gli idoli pagani.

Sul lato sinistro del medesimo registro è raffigurata un’originale versione dell’Adorazione dei Magi, con il Bambino seduto da solo su un trono gemmato fra la Madonna e una matrona, identificabile con la sacerdotessa Anna, ovvero con la personificazione della Chiesa. Nel terzo registro compaiono i Magi dinanzi ad Erode e la Strage degli innocenti, mentre nel quarto le due città di Gerusalemme e Betlemme con le mura gemmate definite da didascalie.

I mosaici di Santa Maria Maggiore, sia quelli delle navate che quelli dell’arco, raccolgono molte componenti dell’arte paleocristiana ed anticipano alcune tendenze che saranno proprie di quella bizantina. Oltre ai Vangeli, anche le narrazioni apocrife ed i soggetti apocalittici entrano inoltre nel repertorio figurativo ufficiale.

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SANTI COSMA E DAMIANO

È proprio l’Apocalisse di San Giovanni ad animare il discorso figurativo sviluppato sull’arco e nel catino absidale della Basilica dei Ss. Cosma e Damiano, fatta edificare da Papa Felice IV (526-530) nel cuore del Foro Romano, sul lato della via Sacra. Il mosaico absidale cattura immediatamente l’attenzione di chi entra nell’edificio, anche se la sopraelevazione del pavimento fornisce oggi una visione troppo ravvicinata dello stesso.

La figura solenne del Cristo, barbato e col capo inquadrato dal nimbo, si staglia al centro della composizione, quasi librata in una scala scintillante di nubi porporine e dorate, contro un fondale blu oltremarino. Ai lati, Pietro e Paolo in candide vesti introducono i Santi Cosma e Damiano, due fratelli medici che, secondo la tradizione, subirono il martirio sotto Diocleziano e che recano le corone del martirio con le mani velate; all’estrema sinistra è la (molto restaurata) figura di Papa Felice con il modellino della chiesa tra le mani, mentre dalla parte opposta è San Teodoro.

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Concludono la composizione due piante di palma, su una delle quali è posato il simbolo della fenice, e in basso la consueta processione di agnelli che escono dalle due città celesti e si muovono verso il mistico agnello posto sul monte paradisiaco.

Il programma decorativo si completa definitivamente nell’arco trionfale, la cui decorazione è stata considerata più tarda, ma che comunque riprende la tematica apocalittica con i simboli dei quattro evangelisti, i sette candelabri, il trono gemmato su cui si trova l’agnello, i quattro angeli e i due gruppi di profeti, purtroppo oggi conservatisi solo in minima parte.

GLI ALTRI ESEMPI

Questo breve articolo vuole solo accennare agli esempi più celebri dell’arte musiva nei primi edifici di culto romani. Si sarebbero potuti citare anche altri monumenti oggi scomparsi, come le antiche decorazioni absidali delle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Pietro in Vaticano, così come quelli, probabilmente meno noti, di Sant’Agata dei Goti o della cappella detta di S. Elena nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme.

Altri monumenti avrebbero poi fatto imboccare un sentiero destinati a cronologie troppo avanzate, come ad esempio il mosaico absidale della chiesa di San Teodoro al Palatino, databile alla fine del VI secolo, con il Cristo sul globo al centro di un gruppo di santi, in un’impostazione simile a quella adottata per il mosaico dell’arco trionfale di San Lorenzo Fuori le Mura.

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