Roy Lichtenstein

Roy Lichtenstein, Roy Lichtenstein, Rome Guides

ROY LICHTENSTEIN

Contro ogni apparenza, quella di Roy Lichtenstein potrebbe essere definita una pittura intellettuale, costruita a tavolino e razionalissima. Secondo Larry Rivers, il celebre artista e sassofonista newyorkese, Lichtenstein avrebbe infatti fatto uscire la mano dall’arte contemporanea, sostituendola con il cervello.

La sua poetica, caratterizzata dai primi anni Sessanta da linee diagonali alternate a colori piatti, assommate alle migliaia di punti regolari di un retino tipografico esageratamente ingrandito, gli ha permesso di presentare in modo astratto dei soggetti figurativi. Quel retino li rendeva, allo stesso tempo, più artificiali e più naturali. Erano elementi che regalavano a tutte le sue opere quella qualità caratteristica che lo stesso Lichtenstein riassunse paradossalmente come “l’imitazione di uno stile impersonale, eppure immediatamente riconoscibile”.

Nel 1963 un critico del New York Times, Brian O’Doherty, scrisse una celebre stroncatura di una mostra di Lichtenstein nella Leo Castelli Gallery. Meno di tre mesi dopo, la rivista Life riprese le parole del critico nel titolo di un articolo su Lichtenstein che ha fatto epoca: “È il peggior artista americano?. Leggendo l’articolo, a molti parve che la risposta non dovesse essere che un sonoro sì: “Molti insistono a dire che non sia neppure un artista, che i suoi quadri, strisce di fumetti ingranditi, pubblicità dozzinale e riproduzioni, siano noiose copie del banale”. Tuttavia, l’articolo pubblicato da Life sottolineava anche che molti critici, direttori di museo e collezionisti consideravano l’arte di Lichtenstein affascinante e di notevole forza espressiva.

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Molta acqua è passata sotto i ponti, da allora. Quelle opere che nel 1962 costavano meno di cinquecento dollari e avevano provocato un putiferio, oggi sono considerate tra i capolavori della Pop Art, con una valutazione parecchi milioni di dollari. Nel 1997, quando morì improvvisamente, a 73 anni, a causa di una polmonite, Roy Lichtenstein era stato riconosciuto come uno dei più grandi interpreti dell’arte contemporanea. Il MOMA di New York pubblicò un commosso necrologio a pagamento sul New York Times che riassunse in poche parole la stima guadagnata da Lichtenstein: “Ha modellato un’arte sofisticata che era divertente, ironica, elegante e ininterrottamente creativa. Pochi artisti, tra quelli ammirati nei circoli più esclusivi del mondo dell’arte, hanno avuto lo stesso impatto globale sulla sensibilità visiva del loro tempo, e ancora meno quelli che hanno ispirato un cocktail tanto speciale di amore e rispetto in coloro che lo hanno conosciuto. Lichtenstein ha alterato il modo in cui percepiamo la nostra cultura”.

Niente male, se si pensa che lo stesso Lichtenstein nel 1963 aveva annunciato provocatoriamente di voler fare un’arte così spregevole che nessuno avrebbe mai voluto appenderla in salotto.

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Nel 1965, improvvisamente, abbandonò i quadri che lo avevano reso famoso e con i quali, appropriandosi delle immagini prese dai fumetti, aveva anticipato anche Andy Warhol. Non smise tuttavia di impossessarsi di qualcosa che era stato creato da altri, ma cominciò a guardare alla grande arte del passato, per reinterpretarla attraverso il filtro della sua poetica e della sua tecnica. Iniziò così l’epoca dei Brushstrokes, monumentali pennellate che, in quei tempi, vennero percepite come un attacco agli espressionisti astratti della New York School e, in particolare, a Kline e De Kooning.

Al critico David Sylvester piacquero molto tanto da scrivere che, una volta ingigantite, le pennellate di Lichtenstein diventavano perfino più vigorose di quelle originali. Certo, la loro forma meticolosamente studiata le rendeva tutt’altro che spontanee ma, sottolineava Lichtenstein, neppure quelle di Kline, che realizzava un mucchio di disegni preparatori prima di affrontare la tela, lo erano fino in fondo. Lui, disse, voleva solo prendere bonariamente in giro il culto della spontaneità eroica degli espressionisti astratti.

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Lichtenstein sapeva ironizzare parecchio su se stesso: nel 1995, in un’intervista al New York Times, disse a Michael Kimmelmann di non aver inventato nulla, ma di avere solo reso monumentale una pennellata. I grandi artisti, affermò, lo facevano da secoli: “Franz Hals era in grado di fare una pennellata che è anche un pezzo di taffeta”.

Eppure il suo viaggio nella storia dell’arte era cominciato presto, nei primi anni Sessanta, quando Lichtenstein aveva reinterpretato con il suo idioma da cartoon Cézanne e Picasso. Poi era toccato a una grande varietà di maestri, da Hokusai a Monet, da Gauguin a Van Gogh, da Matisse a Magritte, da Mirò a Dalì, tutti grandi maestri trattati da Lichtenstein più o meno come Warhol aveva fatto con Marilyn Monroe, Elvis Presley e Liz Taylor.

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Diversamente da Warhol, però, nelle sue tele non entrò mai la critica sociale, anche perché la scelta del soggetto non era affatto l’elemento centrale dei suoi interessi: Lichtenstein inseguiva semplicemente una pittura realista, fatta di colori squillanti accostati, che recuperasse qualcosa che gli sembrava perduta.

“Penso che a partire da Cézanne l’arte sia diventata estremamente romantica e irreale. È diventata utopica, si è sempre più staccata dalla realtà e ha acquisito un carattere introspettivo. Fuori c’è il mondo, il vero mondo, e la Pop art è rivolta al mondo”.

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