Cleopatra a Roma

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CLEOPATRA A ROMA

Le grosse squadre di sterratori, muratori e fabbri che salivano verso il Gianicolo nell’estate di quell’anno, che i posteri avrebbero poi numerato come il 46 a.C., non stupivano nessuno: erano infatti operai che in poche settimane avrebbero dovuto fare di un vasto terreno un meraviglioso giardino e che avrebbero dovuto trasformare una comune villa in una principesca dimora.

Altre innumerevoli schiere di lavoratori stavano, proprio in quel tempo, mutando il volto di Roma; moli, portici, ville e sontuose abitazioni sorgevano ormai da ogni parte, collegate da nuove strade che venivano costruite a tempo di record. In Campo Marzio gli architetti già avevano tracciato le basi d’un grande tempio di Marte, mentre presso il Foro Romano si levavano gli archi di una nuova splendida basilica. Di qua e di là dal Tevere il fervore di rinnovamento urbano era enorme, ma ciò del resto non faceva altro che rispondere all’intero mutato ritmo della vita romana. Migliaia di nuovi cittadini, veterani delle guerre di Gallia, d’Oriente e d’Africa, popolavano i fori e le vie, mentre i mercanti affollavano le piazze e la plebe, sempre in attesa dì nuove elargizioni di denaro e di grano, gridava esultante il nome di Caio Giulio Cesare.

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Tutto, nella mente dei Romani, era dovuto a lui, inclusi l’attuale gloria e lo splendore della Città Eterna, che grazie a lui si stava trasfigurando. Anche i nemici di ieri celebravano adesso l’uomo che alla potenza del genio congiungeva la magnanimità e la clemenza, ricordando come egli avesse pianto davanti al capo reciso di Pompeo, il suo nemico implacabile, e come egli avesse risparmiato molti dei seguaci di lui. Persino Terenzio Varrone, pompeiano accanito, era stato graziato da Cesare e poi incaricato di creare una grande biblioteca che doveva compensare la perdita di quella che l’anno precedente era andata distrutta dal fuoco ad Alessandria.

La fastosa dimora che Cesare stava preparando per sé sul fianco del Gianicolo era in realtà destinata ai sovrani d’Egitto, la regina Cleopatra VII e il fratello e marito di lei Tolomeo XV, dei quali era atteso l’arrivo a Roma prima dell’autunno. La notizia non era ancora ufficiale, ma già serpeggiava per la città e tutto il patriziato se la ripeteva con commenti denigratori nei confronti della regina straniera. D’altronde, che ad Alessandria Cleopatra fosse diventata l’amante di Cesare era ormai noto a tutti: in riva al Nilo, del resto, quell’amore era stato ostentato con abbagliante magnificenza orientale dalla giovanissima regina che, in un momento decisivo per la sorte sua e del suo paese, era comparsa davanti al grande condottiero romano uscendo da un tappeto arrotolato e subito ne aveva conquistato il cuore e obnubilato i sensi.

Adesso, a Roma, c’erano migliaia di legionari e centurioni che, due anni prima, avevano visto sfilare sul Nilo quell’interminabile corteo splendente che subito era stato denominato “il corteo nuziale di Cesare”, benché si trattasse di nozze false ed adultere. Prima fra tutte veniva la nave sovrana, ossia un enorme castello natante dorato, sospinto da cinquanta sfavillanti paia di remi d’argento, le cui alte mura erano adornate con enormi ghirlande di fiori e che presentava una gran tenda di porpora che proteggesse dal sole cocente il divanetto su cui sedevano Cleopatra e Giulio Cesare.

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Dalle rive del fiume, una moltitudine di persone salutava il passaggio della nave, toccando con la fronte la terra al passaggio della regina. Al cader della notte lo spettacolo diveniva anche più straordinario: sulla nave maggiore si accendevano innumerevoli luci, fiamme palpitanti che la serravano in una fantastica cintura infocata, mentre mille altri lumi risplendevano sulle altre imbarcazioni e illuminavano le acque del Nilo.

Assai prima che fosse trascorso l’anno da quel fantasmagorico viaggio fluviale, Cleopatra aveva dato alla luce un bambino, il figlio di Cesare. Avrebbe dovuto chiamarsi Tolomeo, ma tutti lo conobbero tosto come Cesarione, e in questo nome suonava, in bocca ai Romani, una lieve nota d’ironia.

Anche Calpurnia, la moglie di Cesare, non ignorava ovviamente le imprese del suo celeberrimo sposo: il fatto che anche Cesare, come la stragrande maggioranza dei mariti di quella Roma splendida e corrotta, passasse d’avventura in avventura non poteva sorprenderla. I nomi delle sue amanti erano infatti ben conosciuti a Roma, tanto quanto quelli delle sue vittorie: i pettegolezzi fra le vie dell’Urbe affermavano d’altronde che anche quella con Cleopatra altro non fosse che una scappatella, considerto che nel frattempo Cesare aveva trovato anche il tempo d’intessere un breve idillio con Eunoe, la moglie del re Bogud di Mauritania.

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Benché di nobilissima famiglia, Calpurnia sentiva, come quasi tutti i Romani, l’immensa superiorità di un uomo i cui atti non potevano essere giudicati con le comuni misure. In ogni momento della sua giornata Cesare riusciva a creare e a forgiare una nuova superba grandezza e potenza romana: anche la sua storia d’amore con Cleopatra appariva come un episodio esemplificativo della sua capacità di annientare e sottomettere i nemici della repubblica, assoggettando nuove terre, nuovi popoli e nuove civiltà a Roma. E mentre al vittorioso si concedevano ogni giorno altri onori, Calpurnia tremava al pensiero di un ripudio che avrebbe potuto forse preludere ad un matrimonio con l’egiziana, la quale aveva dato a Cesare il figlio che invano egli aveva atteso da lei.

Finalmente Cleopatra e Tolomeo giunsero a Roma. Sbarcarono a Ostia, ricevuti dai messi del Senato, e subito si recarono alla Curia dove, seduto sul suo trono d’oro, li attendeva Cesare tra i Patres Conscripti, solenni nei loro laticlavi di porpora. La nave che aveva condotto la regina in Italia era una splendida trireme rilucente d’oro e d’argento, dall’alta prora ricurva e dalle vele di porpora. Anche le navi di scorta erano dorate e infiorate e riempirono di sfarzo e di bagliori il vecchio porto ostiense (il Porto di Claudio sarebbe stato costruito infatti quasi un secolo dopo). Tutti si erano recati per le strade ad ammirare lo sfarzoso corteo, luminoso d’armi e di vesti preziose, palpitante d’insegne e di flabelli, ma nessuno ebbe occasione di ammirare Cleopatra, chiusa all’interno della sua lettiga intorno alla quale alcune schiave bellissime recavano ghirlande di fiori e ardevano profumi.

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Giunta alla Curia, Cleopatra scese ed entrò a testa alta, vestita con sfarzosa eleganza, mentre i senatori si alzavano in piedi. Benché di statura normale, la regina d’Egitto sembrava prevalere sulla gente del suo seguito: forse aveva accortamente scelto solo accompagnatori di media statura, ma più probabilmente a creare quella sensazione era il fascino di quel suo capo eretto, dalle chiome nere sul collo bellissimo, di quegli occhi affascinanti e luminosi, di quel suo profilo con il naso un po’ lungo ma mirabilmente modellato. Accanto a lei il tredicenne Tolomeo, fratello e nominale marito, appariva, pur nello splendore delle sue vesti regali, insignificante. Gli occhi ammirati erano rivolti tutti a quella sovrana che impersonava la magnificenza del misterioso Egitto.

Alle parole del decano del Senato e al saluto di Cesare, Cleopatra rispose, brevemente ringraziando, in perfetto latino. Tutti ne furono sorpresi, mentre Cesare sorrideva: era forse il solo, in tutta Roma, a sapere che quella regina di ventitré anni univa a una straordinaria cultura anche la perfetta conoscenza del greco, del latino e dei numerosi idiomi della valle del Nilo.

Dopo la presentazione, chiusi nelle loro lettighe, con una scorta di legionari in lucide loriche di gala, Cleopatra e Tolomeo salirono alla loro nuova dimora sulle pendici del Gianicolo. Caio Giulio Cesare, in incognito, accompagnato da un liberto e da qualche servo, raggiunse in incognito quella sera stessa la bella casa transtiberina della regina egizia, uscendone solo la mattina seguente. Calpurnia ovviamente non ignorava la notturna sortita del suo sposo, ma fece finta di nulla. Cesare giunse alla villa con impazienza dell’amante e del padre: le sue prime attenzioni furono infatti rivolte a Cesarione, il figlio che ancora egli non conosceva, prendendolo in braccio sotto gli sguardi teneri della giovane madre. Certamente, Cesare rimase a lungo pensieroso, meditando sull’avvenire di quell’infante nelle cui tenui vene scorreva misto il sangue illustre dei Lagidi e quello della Gens Iulia, stirpe di Enea e di Venere, e che forse avrebbe legato la propria vita ai più alti destini di Roma. Commosso, restituì Cesarione alla nutrice.

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Nei mesi che Cesare trascorse con Cleopatra, durante i loro incontri, Cesare ritrovò l’incanto della sua avventura sul Nilo. Nell’intimità con la regina egizia trovò molto tempo per l’amore, come miracolosamente sapeva trovar tempo per le innumerevoli e grandissime cose cui sempre attendeva. In lui, peraltro, il fascino della donna non pervenne mai a generare un intimo incomposto tumulto: non la sua volontà, ma il suo genio reggeva anche i trasporti del cuore e dei sensi. Cleopatra intuiva questo potere sovrumano e certo ne era attratta: in lei, per quel romano di 53 anni che lei aveva sedotto per puro calcolo, non poteva esservi viscerale passione amorosa, ma c’era tuttavia la soddisfazione di essere amata e desiderata da un eroe così fulgido. Cleopatra, che il biografo Wertheimer non esitò a definire la donna più geniale di tutta la storia, dovette apparire ben più che una regina bella e intelligente all’occhio d’aquila di Giulio Cesare: per amore di Cleopatra, che aveva rimessa sul trono, Cesare aveva fatto dell’Egitto un nominale alleato e non una Provincia soggetta al dominio di Roma, e ciò gli diede la sensazione di aver non solo seguito il proprio cuore, ma anche rettamente operato per il bene della Repubblica.

Il tempo trascorso da Cleopatra a Roma, assieme a Cesare, rappresentò una grande vittoria per entrambi i nostri protagonisti: Cleopatra dimorava infatti nell’Urbe come ospite e non come soggetta, creando allo stesso tempo un motivo di orgoglio per Roma nell’averla nella Città Eterna e di compiacimento per lei nell’essere in Roma rispettata e onorata come sovrana. Non le era permesso partecipare direttamente alla vita pubblica, ed anche la vita mondana era per lei parzialmente limitata, ma certamente Cleopatra non fu totalmente estranea a nessuna delle due esperienze. La sua stessa strategia sui movimenti era molto ben delineata. Fin dai primi giorni del suo soggiorno a Roma, Cleopatra aveva iniziato ad uscire soltanto accompagnata da una o due schiave, nelle ore antimeridiane oppure verso il tramonto, per farsi un’idea della città e della sua vita. Roma era gremita di gente, ma all’epoca essa era meno vasta di Alessandria; molti vicoletti erano bui e malsani, al contrario delle ampie vie lastricate di Alessandria, ed anche i nuovi edifici che stavano per essere eretti non avrebbero potuto competere con il Tempio di Iside, il Tempio di Pan o i Palazzi dei Tolomei.

Arrivò ad un certo punto il giorno della celebrazione che Giulio Cesare organizzò per esaltare i suoi quattro trionfi per le guerre da lui combattute e vinte in Gallia, in Oriente, in Africa e in Italia. Cleopatra volle assistervi, ma in incognito: non comparve dunque nelle tribune patrizie, dove avrebbe dovuto sedere accanto a Calpurnia, ma preferì travestirsi e scegliersi un buon posto lungo la Via Sacra. Non stupisca il fatto che nessuno la riconobbe: Cleopatra era infatti espertissima di travestimenti e di trucchi.

Nei quattro giorni del trionfo di Cesare, Cleopatra poté vedere i romani in preda ad un entusiasmo indescrivibile. Tremò solo una volta, ossia quando l’asse della biga condotta da Cesare si spezzò proprio di fronte a lei: la regina d’Egitto ne trasse un funesto auspicio che non cessò poi di angosciarla. Si stupì udendo i salaci canti dei legionari che beffeggiavano il loro duce e ne ricordavano certe imprese erotiche per nulla onorevoli. Dietro la biga di Cesare, nel trionfo africano, Cleopatra vide passare in catene sua sorella Arsinoe, che aveva osato proclamarsi regina d’Egitto e resistere a Roma: le malilingue dissero che Cleopatra non mostrò alcuna commozione per tale situazione, e per questa venne definita “barbara” per la sua insensibilità agli affetti familiari.

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Che la regina egizia ospite di Roma fosse tutt’altro che barbara, però, lo appresero in breve tempo i visitatori e le visitatrici ammessi nella villa sul fianco del Gianicolo. Le matrone udirono dalla bocca di Cleopatra un forbito purissimo greco e anche letterati e oratori illustri dovettero ammirare la singolare cultura di lei: si convinsero così che la donna che avevano disprezzato era invece una degna discendente del grande Alessandro, il discepolo maggiore di Aristotele.

La superiorità intellettuale di Cleopatra fu tuttavia non ultima causa di una dichiarata ostilità verso di lei. Nel patriziato romano essa non ebbe che pochissimi amici: risolutamente avverso le si palesò subito anche uno dei più cospicui ospiti della villa, Marco Tullio Cicerone, il grandissimo oratore e politico, che riassunse l’impressione della sua visita alla regina egizia in una frase intenzionalmente beffarda: “Tutti i nostri mali ci vengono da Alessandria”.

La regina intuì pure un’occulta avversione in un giovanissimo patrizio di appena 17 anni, che venne un giorno a visitarla accompagnato da un suo coetaneo. Il giovane, di bell’aspetto, elegante pur nella semplicità della recente toga virile, guardò la regina senza quel lampo d’ammirazione e di desiderio che essa vedeva sempre apparire anche negli occhi dei maschi più giovani. Quel ragazzo, che si chiamava Ottavio ed era un nipote di Cesare, parlava sempre pacatamente, come se pesasse ciascuna sua parola e il suo sguardo era sfuggente e gelido. Assai più cordiale appariva il suo compagno: si chiamava Marco Vipsanio Agrippa, era decisamente di costituzione più robusta e si mostrava ciecamente devoto ad Ottavio.

Molti cercavano di ottenere un secondo incontro con la splendida Cleopatra: proconsoli, tribuini e matrone facevano a gara per rinnovare le proprie visite. L’unico che la regina avrebbe desiderato rivedere subito si fece invece lungamente attendere: era un uomo vigoroso e prestante, un guerriero che a suo tempo aveva condotto quattro legioni di rinforzo in Egitto e che Cleopatra, allora diciannovenne, aveva conosciuto ad Alessandria. Il suo nome era Marco Antonio: era sempre stato devoto amico di Cesare, ma recentemente la loro amicizia si era un po’ incrinata. Fulvia, sua moglie, una delle matrone più conosciute di Roma, era anch’essa tra le occulte avversarie di Cleopatra.

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Giulio Cesare, intanto, era corso in Spagna per annientare l’estrema resistenza dei figli di Pompeo. Li sbaragliò a Munda e tornò così a Roma vincitore, come sempre. Subito si rappacificò con Marco Antonio, il quale fu creato console con lui e finalmente fu ammesso ai ricevimenti di Cleopatra. Nel rivedere quel gagliardo capitano trentottenne la regina egizia dovette risentire i palpiti antichi di Alessandria; anche Marco Antonio probabilmente subì all’istante il fascino della donna mirabile, ma non divennero subito amanti, poiché Cleopatra scelse di rimanere fedele a Giulio Cesare e al sogno superbo che la sua maternità le ispirava. Per tutto quell’anno, ossia il 45 a.C., Antonio fu per lei soltanto un grande amico che si diede cura di informarla con grande minuzia delle vicende della repubblica e degli umori e dei propositi dei Romani.

Cesare, nel frattempo, studiava i piani di una grande spedizione militare in Oriente contro i Parti, eterni nemici di Roma, e poi contro i Germani che, nella mente del grande condottiero, avrebbero dovuto essere definitivamente sottomessi. Si proponeva di partire da Roma nella seconda metà del marzo seguente, continuando però nel frattempo a svolgere il suo programma di riforme sociali e di grandi lavori: distribuiva terre ai veterani, riformava il calendario, preparava la bonifica delle paludi pontine, meditava di tagliare l’istmo di Corinto.

Il popolo romano gli era sempre più devoto, ma non fu lo stesso per il patriziato. Un busto d’oro massiccio con le fattezze di Cleopatra, collocato per volere di lui nel tempio di Venere Genitrice, scatenò una bufera di ringhiose proteste. I più benevoli scorsero in quel gesto soltanto una debolezza da amante, ma secondo altri Cesare stava iniziando a modificare le tradizioni dei culti romani, in un pericoloso sincretismo con la religione ellenica.

Cleopatra manifestò i suoi timori a Cesare ed egli sorrise, probabilmente accecato da una superba autoconsiderazione: la regina lo ascoltava rassicurata, ma nel contempo si avvicinava a Marco Antonio, meno geniale e più impulsivo, capace di amare senza riflettere, più adatto a creare per lei e con lei il sognato impero di Alessandria.

In quell’inverno, il secondo che ella trascorreva a Roma, Cleopatra ricevette presso la sua villa un singolare personaggio, ossia quel Marco Giunio Bruto che, a quel che si sussurrava nei vicoletti dell’Urbe, sarebbe stato un figlio di Cesare. Bruto la informò di un testamento che Cesare aveva redatto in quei giorni e la regina sperò che in esso il dittatore avesse riconosciuto Cesarione come suo figlio e successore. Bruto non disse nulla che potesse confortare quella speranza, guardando con occhi torvi il bimbo e poi dilungandosi in una strana discussione di filosofia stoica, rievocando spesso la figura del primo Giunio Bruto, l’uccisore di Tarquinio. Nel cuore di Cleopatra, con ogni probabilità, quello stravagante colloquio lasciò una lieve ombra di sgomento.

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Ormai si era giunti a marzo e già la primavera rinverdiva precoce il pendio del Gianicolo.  Verso l’ora sesta di uno di quei giorni, l’atriensis (il portiere della villa) di Cleopatra notò un movimento insolito sulla via lungo il fiume: uomini e donne passavano in fretta, chiamandosi ad alta voce. Pochi minuti dopo, due servi rincasarono sconvolti.

“Hanno ucciso Caio Giulio Cesare! Or ora, nella Curia, a colpi di pugnale!”.

Cleopatra, subito avvertita, sembrò perdere per un momento la sua leggendaria calma serafica. Spedì immediatamente un messo al Console Marco Antonio e si ritrasse, sola, nel suo cubicolo. La notizia correva intanto rapida per la città, facendo gravare su strade e piazze una densa aura di sgomento e di desolazione.

Marco Antonio non rispose immediatamente al messaggio della regina: era troppo occupato a studiare la situazione e a cercare di dominarla. Voleva impedire ai congiurati uccisori di Cesare di impadronirsi di quel potere che egli avrebbe desiderato tutto per sé. Fu solo quando venne aperto il testamento di Cesare che Marco Antonio trovò modo di recarsi da Cleopatra: fu proprio da lui che la regina d’Egitto apprese quali fossero state le ultime volontà del suo amato.

Giulio Cesare lasciava 300 sesterzi a ciascun cittadino romano. Nominava suo erede il nipote Ottavio. Destinava una notevole somma anche a Decimo Bruto, uno dei congiurati. Infine, donava al popolo i suoi terreni sulla destra del Tevere, inclusa la villa nella quale proprio in quel momento risiedeva Cleopatra. Il testamento non parlava di lei e non riconosceva Cesarione.

Fu in quel brevissimo lasso di tempo che Cleopatra comprese come le sue aspettative fossero ormai tramontate: i pugnali dei congiurati avevano tranciato il suo tenue filo di speranza. Lei non sarebbe stata, come aveva sognato di poter essere, al fianco di Cesare, la sovrana di Roma e dell’Egitto, nonchè la madre di un grande imperatore. Ormai l’uomo del quale essa ancora poteva far conto era soltanto Marco Antonio: duttile ben più di Cesare, ancora avrebbe potuto darle quel supremo potere e quell’amore passionale per il quale si sentiva nata.

Antonio, intanto, fece breccia sul popolo: con un accorto discorso tenuto al funerale di Cesare, aizzò la plebe contro i congiurati, costretti a fuggire da Roma. Da Alessandria, intanto, giungevano notizie di ribellioni contro la regina lontana, mentre Roma era ormai piena di pericoli per lei e per Cesarione, spurio discendente di Cesare che in molti avrebbero voluto eliminare per mettere fuori gioco un futuro scomodo pretendente.

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Intanto l’erede testamentario del Divo Giulio, il giovane Ottavio dagli occhi freddi ed ostili, era partito dal suo presidio illirico e si avvicinava a Roma: Cleopatra sentiva che non poteva attendersi nulla di buono e quindi, con pompa assai meno fastosa di quella con cui era sbarcata, la regina d’Egitto spiegò allora le vele verso Alessandria. Sul mare la regina portava con sé verso il Nilo Cesarione e le sue nuove superbe speranze: d’altronde Tolomeo XV, il quindicenne fratello e nominale marito di Cleopatra, era stato curiosamente assassinato a Roma, da un sicario che in molti consideravano assoldato dalla stessa Cleopatra per avere campo libero.

Cominciò così il terzo atto della sua drammatica vita, quello che vide come attore coprotagonista proprio Marco Antonio, con la sua passione folle e la sua disperata devozione. Si tratta dell’atto che portò alla fine, alla catastrofe della battaglia navale di Azio, vinta per Ottavio dal fedelissimo Agrippa ed infine alla morte di entrambi ad Alessandria, per mano del serpente e del pugnale.

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