Andy Warhol

Andy Warhol, Andy Warhol, Rome Guides

ANDY WARHOL

Andy Warhol, con quella sua aria stralunata e un po’ sorniona, fingeva di stupirsi nello scoprire quante persone appendessero in camera da letto una tela che raffigurasse una sedia elettrica. Soprattutto, sibilava caustico, “quando il colore dello sfondo si intona con quello delle tendine”.

Magnifico provocatore, grande stratega del suo successo e personificazione stessa dell’ironia e del voyeurismo, Warhol ha fatto di se stesso un personaggio distaccato ed enigmatico, anche giocando astutamente anche con le interviste, che rilasciava a chiunque dando risposte diverse a seconda dell’interlocutore.

Andy Warhol è stato però anche uno degli artisti più radicali e influenti del Novecento: nei primissimi anni Sessanta ha trasformato il linguaggio dell’arte, inventato una pittura tutta nuova utilizzando le tecniche serigrafiche e una stesura piatta del colore, trasformato da un giorno all’altro non soltanto il rapporto tra l’artista e la società, ma anche quello tra l’artista e i suoi collaboratori. Così facendo, Warhol stava letteralmente gettando alle ortiche ogni distinzione tra pittura e cultura popolare, pittura e immagini stampate, pittura e reportage sociale.

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Warhol ha moltiplicato all’infinito le immagini, sempre le stesse, scelte con occhio infallibile tra quelle più iconiche, per creare un’arte che è una registrazione impassibile della realtà. Le rubava dai mezzi di comunicazione popolare o le prendeva dagli archivi della polizia, freddi documenti di incidenti, suicidi spettacolari e avvelenamenti, eventi tragici quotidiani nella società dei consumi che Warhol utilizzò per raccontare la banalità della morte.

Fin dalle sue prime tele, Warhol rivelò come non esistano immagini oggettive, e che i media presentano come realtà qualcosa che è soltanto una personale interpretazione della realtà. Inoltre, ha guardato al formato delle opere come a un espediente per far lievitare i prezzi, come svelò chiaro e tondo in una celebre intervista: “Penso spessissimo agli scrittori a spazio, quelli che vengono pagati in base a quanto scrivono. La quantità è la miglior misura di tutto, così mi sono messo in mente di diventare un artista a spazio”. Quando realizzava un dittico, lo faceva tendenzialmente solo allo scopo di raddoppiare il valore di un quadro, tanto più se una delle due parti dell’opera era lasciata, come talvolta accadeva, completamente priva di immagini, ma dello stesso colore dello sfondo dell’altra. Molti videro in quelle composizioni (una delle quali, Mustard race riot, è stata venduta nel 2004 per dodici milioni di euro) un modo beffardo di criticare i monocromi di Barnett Newman, Yves Klein e Piero Manzoni che tanto facevano parlare la critica in quegli anni.

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Andy Warhol ebbe un gran numero di intuizioni geniali, perché era in grado di fiutare le novità con molto anticipo sugli altri. L’arte della comunicazione, per esempio, è entrata nel mondo delle arti figurative sotto braccio a Warhol, ed è stato sempre lui ad aprire la strada alle strategie di marketing che oggi dominano l’arte contemporanea. Voleva essere (e ci riuscì perfettamente) un “business artist”, e le sue idee sull’argomento erano chiarissime: “Far soldi è un’arte, lavorare è un’arte, e fare buoni affari è la migliore forma d’arte”, era solito ripetere.

Warhol però, che è stato pittore, grafico pubblicitario, scultore, illustratore, regista e produttore cinematografico, e poi indossatore, filosofo, commediografo, agente di divi, fotografo, talent-scout, produttore musicale e chi più ne ha più ne metta, non poteva essere grande e profetico solo in campo artistico. Rilette oggi, in effetti, certe sue dichiarazioni lasciano a bocca aperta: “Oggigiorno sei considerato anche se sei un imbroglione. Puoi scrivere libri, andare alla tv, concedere interviste. Sei una grande celebrità e nessuno ti disprezza. Sei sempre una star. La gente ha bisogno delle star più di ogni altra cosa”. Il tutto senza dimenticare quella che è forse la sua affermazione più celebre: “In futuro chiunque sarà famoso per quindici minuti”.

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Warhol sembrava avere in mente l’uso della comunicazione di massa dei nostri tempi, tra Grandi Fratelli e talk show frequentati da personaggi sempre più trash: in un suo film del 1966, Chelsea Girl, gli attori vivono davanti alla macchina da presa, discutendo, facendo l’amore, dormendo e drogandosi in uno squallido albergo in rovina di Manhattan, mostrando un’inquietante anticipazione dei Reality Show che hanno invaso la nostra televisione.

Il suo successo fu immediato. Era arrivato a New York dalla provincia nel 1949, portando con sé il diploma del Carnegie Institute di Pittsburgh, tanti sogni e tre idoli: Truman Capote, Tennessee Williams e Gore Vidal. Ottenne subito una serie di commissioni per illustrazioni che vennero pubblicate su Vogue, Glamour e altre riviste di moda, arrivando a diventare nel 1957 uno dei più pagati artisti commerciali d’America.

Poi, di colpo, avvenne la svolta: Warhol decise che era arrivato il momento di irrompere nel mondo dell’arte contemporanea, e lo fece con dirompente violenza, direttamente dalla porta principale. Rifiutato dal gallerista Leo Castelli, che nel luglio 1962 gli preferì Roy Lichtenstein, espose in novembre le sue prime opere alla Stable Gallery di Los Angeles; quando poi il Moma di New York acquistò una mirabolante Gold Marilyn, Leo Castelli tornò precipitosamente sui propri passi.

Tra il 1962 e il 1964 realizzò i suoi primi folgoranti ritratti di celebrità, da Liz Taylor ed Elvis Presley a Marilyn Monroe, omaggio ad una stella appena caduta ma, allo stesso tempo, acutissima riflessione sulla rapacità svogliata di Hollywood e dei media nel creare, consumare e gettare via i propri miti.

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Miti ai quali Warhol accostò la serie dei Disasters, immagini di sedie elettriche, incidenti d’auto, suicidi e disordini razziali prese da Life e Newsweek: opere dedicate alla morte che avrebbero dovuto essere urticanti, ma non lo furono più di tanto, perché le tele di Warhol, grazie alla moltiplicazione delle immagini, ottennero esattamente lo stesso risultato dei media, che pubblicandole o mandandole in onda continuamente le trasformavano in spettacolo, facendo perdere perfino alla morte ogni drammaticità.

Furono proprio questi i soggetti che portarono Warhol al trionfo: nel 1965, a Filadelfia, una sua mostra fu presa d’assalto dai fan, con i quadri che vennero rimossi precipitosamente dalle pareti e l’artista che venne fatto uscire dal retro per sicurezza.

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La morte lo sfiorò in verità a quarant’anni, il 3 giugno 1968, quando Valerie Solanas, una femminista dello SCUM (una sorta di società decisa a distruggere il genere maschile) gli sparò a bruciapelo, accusandolo di essere un manipolatore e uno sfruttatore del talento altrui. Lui non perse il gusto per la battuta, affermando “Se ci tieni alla tua privacy non farti mai sparare”.

Non rinunciò mai al suo personaggio, anche se durante un’intervista affermò che “a volte è bello tornare a casa e togliersi il costume da Andy”. E continuò a mistificare: ‘Se volete sapere tutto di me, basta guardare la superficie dei miei dipinti, dei miei film e me stesso. Non c’è nulla dietro la facciata”. Una frase che finì su un francobollo delle poste americane.

Una sera, forse lasciandosi andare più del dovuto, chiese che sulla sua tomba venisse incisa una sola parola: finzione. Nel bookshop del Warhol Museum di Pittsburgh, però, l’oggetto più venduto continua a essere una calamita da frigorifero, con un autoritratto dell’artista e una semplice scritta: “I tuoi quindici minuti sono iniziati”.

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