LA MARCIA SU ROMA
Il meteo, che si era mantenuto tiepido e limpido per tutta quella lunga ottobrata romana del 1922, si guastò improvvisamente durante la giornata del 27 ottobre. Era un venerdì, destinato a cambiare la storia d’Italia e a determinarne i destini per i successivi venti anni.
Alle 18.00, sotto la pioggia battente, poche decine di squadristi perugini, in camicia nera e manganelli in pugno, scesero in piazza, facendosi ricevere dal Prefetto ed intimandogli la resa. A mezzanotte, dicevano, tutti i poteri governativi per la regione umbra sarebbero stati assunti da un triumvirato formato dai fascisti Bastianini e Pichetti e dal deputato nazionalista Callenga; se le autorità avessero resistito, le squadre sarebbero passate all’azione violenta.
Prefetto e Questore si asserragliarono entro le rispettive sedi e cercarono febbrilmente di mettersi in contatto con Roma: i telefoni funzionavano poco e male, e comunque da Roma giunsero semplicemente i canonici consigli di “agire con prudenza”. In sostanza, i fascisti furono padroni di Perugia in meno dI un’ora. Alle 19.00 il quadrumvirato insurrezionale (composto da Italo Balbo, Michelino Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi) si insediò all’Hotel Brufani, il più elegante della città. Lo squadrista Luigino Illuminati, un bel giovanottone biondo, cacciò via il portiere e si mise lui di guardia: portava sul petto il simbolo della morte, ricamatogli dalle sorelle in cotone bianco, a punto francescano, ed era armato di un moschetto di cavalleria modello 1891.
Italo Balbo, in quei giorni, soffriva d’otite e doveva tenere le orecchie intasate di bambagia. Proprio a lui, praticamente sordo, era stato affidato il controllo dei collegamenti telefonici. Insediato presso il centralino dell’albergo, lo si udì bestemmiare in romagnolo per tutta la serata, finché, sul tardi, decise di partire per Firenze, dove sembrava che la rivoluzione fosse andata male. Si fece prestare l’automobile dal marchese Marmini e, del tutto inaspettatamente, tirò fuori due mitragliatrici e le piazzò sui parafanghi anteriori; prese poi due squadristi ferraresi e diede loro l’ordine di aprire il fuoco contro chiunque avesse tentato di fermare la macchina. Tutte le strade di campagna erano però (per fortuna) ormai deserte, con i cani che abbaiavano l’uno all’altro da fienile a fienile.
La marcia su Roma era cominciata.
In realtà, la cronaca della marcia cominciò in data 16 ottobre 1922 quando, a tarda sera, i capi fascisti convocati da Mussolini si riunirono a Milano, nella sede dell’organizzazione di Via San Marco. Fu in quell’occasione, infatti, che l’idea di giungere alla conquista del potere politico assoluto mediante un’azione di forza e di stile militare, che avesse come obiettivo la stessa capitale, prese forma concreta e che l’operazione cominciò ad essere chiamata dai suoi stessi futuri protagonisti col nome, che presto doveva divenire celebre, di “Marcia”.
La riunione venne tenuta presso l’ultima e più piccola delle quattro stanze che formavano la sede del fascio, alla presenza, oltre che dello stesso Mussolini, anche di Balbo, De Bono, De Vecchi, Attilio Teruzzi e dei due generali dell’Esercito in servizio attivo, Fara e Ceccherini. La presenza di questi due uomini, che stavano a rappresentare le simpatie di cui il movimento fascista godeva presso tutta una parte delle alte gerarchie militari, diede anzi luogo ad un piccolo incidente iniziale: De Bono infatti, che si considerava il cervello strategico del fascismo e che era estremamente geloso delle sue prerogative, non li voleva ammettere alla discussione. I due a quel punto si alzarono e fecero per allontanarsi, ma Mussolini li fermò, spiegando che sarebbe stato utilissimo avere due generali in divisa alla testa dell’importantissima azione: di fronte alle parole del Duce, De Bono finì per cedere. Balbo, che era il più giovane dei presenti, fu incaricato di redigere il verbale della seduta e Mussolini prese la parola per primo.
La situazione politica italiana, dal punto di vista fascista, stava precipitando: tra Roma e Milano i capi democratici, con in testa Giolitti e Salandra, stavano manovrando per condurre in porto quell’operazione di inglobamento del movimento fascista nella legalità costituzionale che, al momento, sembrava loro l’unica via d’uscita. L’idea era di mettere in crisi il secondo gabinetto Facta, in carica dall’agosto precedente, indire nuove elezioni previa modifica della legge elettorale e, infine, formare un nuovo ministero Giolitti con la partecipazione di Mussolini.
Il fascismo, a sua volta, come gruppo parlamentare di minoranza e come movimento armato sulle piazze, aveva davanti a sé due strade: partecipare a quelle trattative (come Mussolini del resto aveva già cominciato a fare) e al successivo governo, lasciandosi in un certo qual modo catturare, o sviluppare un’azione di forza a carattere extra legale e rivoluzionario, che lo portasse direttamente al vertice del potere. Entrambe le soluzioni erano obiettivamente possibili. Tutti i capi democratici, da Giolitti a Facta e da Nitti a De Nicola, esclusi i socialisti, erano pronti a dividere il potere con Mussolini.
D’altra parte, niente ormai si sarebbe opposto ad un’azione violenta da parte degli squadristi: le forze popolari erano già state battute al tempo dell’occupazione delle fabbriche torinesi, Il partito socialista era stato seriamente indebolito dalla scissione comunista di Livorno nel 1921 ed in fondo la stessa struttura dello Stato appariva minata. Per quanto concerne l’esercito, invece, il generale Badoglio, al Consiglio della Corona del giorno 25 settembre, aveva bensì detto che sarebbero bastati pochi arresti tempestivi per stroncare ogni pericolo d’insurrezione fascista, ma a dispetto di tali dichiarazioni tutta una parte degli alti gradi aveva dato indubbi segni di simpatia per le camicie nere. Il Sovrano manteneva intanto un atteggiamento sibillino, che certo non poteva essere interpretato come favorevole ad azioni di forza in difesa delle guarentigie statutarie.
Occorreva dunque soltanto decidersi.
Ora, è certo che la decisione di insorgere con la violenza, di marciare su Roma e di prendersi tutto il potere venne adottata dai capi fascisti nel corso della riunione del giorno 16 a Milano. Stante le discordanti testimonianze dei protagonisti, non è però possibile stabilire con esattezza come e per opera di chi si pervenne alla decisione di muoversi subito, anche se, a quanto pare, Mussolini si presentò a quella discussione avendo già in tasca, completamente redatto, un ordine del giorno in cui si diceva che “l’ora della battaglia decisiva era suonata e che l’esercito delle camicie nere doveva puntare disperatamente su Roma”.
Mussolini, che fu intervistato sulla questione da un redattore del Secolo nel corso della notte tra il 29 e il 30 ottobre, mentre da Milano scendeva in treno su Roma, disse di essere stato lui a vincere l’esitazione degli altri e ad aver voluto l’azione immediata. Se alcuni storici del fascismo, come Giorgio Pini, accettano questa versione, Italo Balbo, nel suo “Diario 1922”, lascia invece chiaramente intendere di essere stato lui a strappare la decisione. Balbo racconta che il futuro duce ne fu parecchio turbato e che riacquistò la propria serenità soltanto parecchio tempo dopo la fine della riunione, mentre rincasava in carrozzella ed i gerarchi, per distrarlo e rincuorarlo, gli raccontavano barzellette.
Se la versione di Balbo venne confermata anche da Paolo Monelli e da Michele Campana, per Efrem Ferraris, capo di gabinetto di Facta, “il vero istigatore della marcia fu il segretario del partito Michele Bianchi”.
Indipendentemente da cosa sia davvero avvenuto in quella riunione, appare sicuro che, la notte del 16 ottobre a Milano, venne deciso sia di costituire il famoso quadrumvirato che doveva guidare la marcia, sia di stabilire il comando generale a Perugia sia, da ultimo, di muoversi su tre direttrici, che avrebbero avuto come primi obiettivi i centri di Santa Marinella per le forze provenienti dalla Toscana e dalla Liguria, di Monterotondo per gli emiliani e i lombardi e di Tivoli per le legioni meridionali. La data precisa per l’insurrezione sarebbe stata decisa a Napoli, nel corso della già prevista adunata fascista del giorno 24 successivo. Balbo venne incaricato di recarsi a compiere un giro d’ispezione nell’Umbria, per rendersi conto delle possibilità politiche e logistiche che la zona avrebbe offerto.
Il secondo atto della preparazione ebbe per sfondo la cittadina di Bordighera, già vuota di bagnanti, immersa nel clima un po’ sognante e un po’ malinconico della fine autunno: Qui, il 18 ottobre, convennero Balbo, De Bono e De Vecchi per mettere a punto la macchina organizzativa. I tre presero alloggio all’Hotel du Parc insieme col Teruzzi, incaricato di mantenere i contatti col partito, e col colonnello Sacco, che De Bono si portava dietro in qualità di suo capo di Stato Maggiore personale. In due giorni, i piani della marcia vennero messi a punto, forse con l’aiuto del generale Etna, ex comandante del Corpo d’Armata di Torino che, messo a riposo, si era ritirato in quella stazione climatica e non nascondeva le sue simpatie per il movimento.
Naturalmente, il governo di Roma sapeva tutto. Basti dire che i quadrumviri, che già stavano preparando l’insurrezione, furono invitati a colazione addirittura dalla Regina Madre, Margherita di Savoia, che già aveva iniziato il suo soggiorno invernale a Bordighera e la cui villa era evidentemente sotto sorveglianza. Al pranzo andarono soltanto De Bono e De Vecchi, poiché Italo Balbo preferì restare in albergo, con la scusa ufficiale di non possedere un abito da cerimonia adatto.
Da Roma, intanto, non si verificò alcun intervento, anche se ormai le intenzioni dei fascisti dovevano apparire chiarissime: tanto Facta quanto Giolitti, probabilmente, pensavano ancora di potersi accordare con Mussolini, e Mussolini, da parte sua, faceva di tutto per dimostrarsi disponibile ad un accordo (e forse, in cuor suo, credeva più facile giungere al potere attraverso le normali vie parlamentari che non per la strada pericolosa dell’insurrezione).
Il 21 ottobre, i comandanti dei fasci di tutta Italia si riunirono pubblicamente a Firenze. La Penisola venne divisa in zone militari, al comando di ciascuna delle quali venne nominato un Ispettore Generale: furono Cesare Forni, Italo Bresciani, Giovanni Giuriati, Attilio Teruzzi, Ulisse Igliori, Dino Perrone Compagni, Giuseppe Bottai, Aurelio Padovani, Giuseppe Caradonna e Achille Starace. Anche in questo caso, il governo italiano non mostrò il minimo segno di reazione.
Tra il 24 e il 25 ottobre si riunirono a Napoli almeno 30.000 fascisti armati e inquadrati militarmente, mentre Mussolini proclamava nel suo discorso al campo sportivo dell’Arenella: “Vi dico con tutta la solennità che il momento impone: o ci danno il governo o ce lo prendiamo calando su Roma!”. Era evidentemente un ultimatum, ma la sera stessa del 24 ottobre Facta telegrafò al Re le seguenti incredibili parole: “Adunata fascista procede tranquillamente… Fino a quest’ora nessun incidente… Credo ormai tramontato progetto marcia su Roma. Conservasi tuttavia massima vigilanza”.
La sera del 25 ottobre, alle ore 22.00, tutti i capi fascisti si radunarono in un salotto dell’Hotel Vesuvio, a Via Caracciolo, mentre dai ristoranti di Marechiaro proveniva distintamente un suono di mandolini. La riunione durò solo pochi minuti, giusto il tempo per fissare la data del 27 ottobre, alle ore 18.00, come quella dell’inizio del movimento in periferia, e del 28, a mezzogiorno, per l’adunata a Roma. I fascisti avrebbero dovuto occupare simultaneamente le Prefetture, le Questure, le centrali telefoniche e le stazioni ferroviarie, e quindi partire immediatamente alla volta della Città Eterna.
La riunione venne sciolta in fretta e, mentre tutti i gerarchi tornavano in sede, Balbo si fermò per qualche ora a Roma dove, presso la sede del fascio allora a Piazza San Claudio, organizzò un centinaio di facinorosi armati di bombe a mano e quattro lanciafiamme che, ove necessario, avrebbero attaccato i centri di resistenza governativa.
A Piazza San Claudio si trovava anche Giovanni Marinelli, amministratore del partito, che cominciò a distribuire a mani basse grandi somme di denaro. L’operazione “Marcia su Roma”, infatti, fu parecchio dispendiosa: si pensi che al solo Balbo (come risulta dal già citato Diario 1922), toccarono tre buoni dell’epoca da un milione ciascuno, che il gerarca garanti con un effetto a sua firma depositato nelle casse del partito. A conti fatti, si può valutare il costo delle due giornate del 27-28 ottobre intorno ai 50 milioni di lire del 1922.
La cronaca dell’operazione insurrezionale, a questo punto, deve essere articolata su tre linee parallele: bisogna esaminare, nel loro intrecciarsi reciproco, sia l’azione fascista che le reazioni governative sul piano militare, nonché, più brevemente, le manovre e le contromanovre politiche che, finalmente, portarono alla assunzione di Benito Mussolini alla carica di capo del governo.
L’azione insurrezionale messa a punto nei saloni dell’Hotel du Parc di Bordighera avrebbe dovuto svilupparsi in tre tempi. Dalle ore 18.00 alla mezzanotte di venerdì 27 ottobre, le squadre fasciste si sarebbero dovute mobilitare ed armare, per occupare, se necessario con la violenza, i centri di potere in tutte le province. A Milano e a Roma, in particolare, si sarebbe dovuta impedire l’uscita per il giorno seguente dei quotidiani antifascisti come il Corriere della Sera, l’Avanti! e l’Unità. Dalla mezzanotte fino all’alba del successivo sabato 28 gli squadristi più giovani e audaci, lasciatisi alle spalle forti nuclei di copertura per presidiare le provincie conquistate, sarebbero dovuti convergere su Roma attestandosi, secondo le strade di provenienza, sui tre centri di Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli, comandati rispettivamente dallo squadrista toscano Perrone Compagni, assistito dal generale Ceccherini, da Ulisse Igliori, assistito dal generale Fara, e da Bottai. Una forte riserva si sarebbe dovuta costituire a Foligno, pronta ad intervenire ove necessario. Infine, alle prime luci del giorno 28 ottobre, le tre colonne avrebbero dovuto iniziare simultaneamente il movimento concentrico sulla capitale, dove sarebbero entrate verso il mezzogiorno attraverso treni speciali e camion requisiti.
In realtà, le cose cominciarono ad andare male già dall’inizio. A Milano, per esempio, alle ore 18.00 di venerdì non c’era un solo fascista in piazza; si era infatti sparsa la voce che il Prefetto Lusignoli avesse richiamato in città alcune batterie accasermate a Lodi. Per la verità, Lusignoli non si era mai sognato di dare quell’ordine e anzi, al momento, stava facendo quanto era in suo potere per facilitare a Mussolini la via della conquista del potere.
A Cremona, Farinacci, che doveva essere uno degli uomini di punta della marcia, non riuscì a venire a capo della resistenza locale. Alle 18.30, per facilitare l’azione di sorpresa sulla Prefettura e Sa Questura, i fascisti cremonesi avevano fatto interrompere l’erogazione dell’energia elettrica su tutta la città, ma ciò aveva causato una gran confusione anche negli stessi fascisti, che trovarono i palazzi pubblici fortemente presidiati, poiché il Prefetto aveva già passato i poteri alle autorità militari. Farinacci scriverà nel suo libro “Squadrismo” che dal comando di Perugia gli era pervenuto l’ordine di sospendere l’azione: “Ho l’ordine di sospendere l’azione, ma ormai è troppo tardi. Fermarsi è danno irreparabile. Il nostro piano è già conosciuto e diffuso. Non si potrà più attuarlo”. Mussolini, però, diede l’ordine di procedere: dall’interno della Prefettura, un impiegato simpatizzante calò una corda per facilitare l’occupazione del palazzo e lo squadrista Cattadori vi si arrampicò per primo. Carabinieri e Guardie Regie spararono senza remore, causando sette morti e tredici feriti. Queste di Cremona furono le uniche vittime fasciste della giornata, e proprio a causa di queste inopinate perdite Farinacci non potè partecipare alla Marcia su Roma.
Intanto, a Firenze, anche Tamburini si ritrovava bloccato. Il 27 sera, infatti, la sua brigata non aveva potuto assaltare la Prefettura perché, proprio quel giorno, era ospite del palazzo nientemeno che il maresciallo Armando Diaz, di cui il fascismo voleva conquistarsi le simpatie mostrandosi rispettoso e legalitario. Gli squadristi toscani, esaltati e armatissimi, non sapendo come passare il tempo, si sfogheranno in numerose violenze private. Le cose vanno male anche a Pisa, a Bologna (dove la Prefettura fu occupata soltanto il giorno 30), ad Ancona e a Verona.
Non è in tal senso periglioso affermare che se, la notte sul 28 ottobre, la forza pubblica di Perugia avesse disperso il concentramento dell’Hotel Brufani e il prefetto di Milano avesse fatto arrestare Mussolini, tutto sarebbe finito in poche ore. A Roma però, mentre una parte della classe dirigente democratica nutriva ancora fiducia di potersi accordare col fascismo, un’altra parte era già disposta a cedere alla violenza.
Proprio a Roma, la notizia dell’inizio dell’insurrezione venne portata alle ore 23.00 all’attenzione del Ministro della Guerra Marcello Soleri, un deciso antifascista. Soleri mandò immediatamente a chiamare Facta e si incontrò con lui, ormai a notte inoltrata, nel palazzone di Via XX Settembre, dove, verso le 3.00 del mattino, lo raggiunsero anche il ministro degli Interni Carlo Taddei e il comandante della piazza di Roma, il generale Emanuele Pugliese. I quattro esaminarono rapidamente la situazione dal punto di vista militare: le notizie che Taddei portava dal suo ministero erano gravi, ma non del tutto catastrofiche, ed a sua volta Pugliese garantiva sulla fedeltà e la disciplina delle sue truppe.
Il governo, nei giorni precedenti, aveva concentrato a Roma circa 28.000 uomini, tra Carabinieri, Granatieri di Sardegna, marinai e reparti di fanteria comandati da ufficiali non compromessi. La città era in pieno assetto di guerra, con tutti gli accessi e tutti i ponti sbarrati da cavalli di frisia e filo spinato. La resistenza poteva far perno sui due caposaldi di Ponte Milvio, che chiudeva la Via Cassia e la Flaminia, e del Gianicolo, che difendeva la città dalla parte della Via Aurelia. Gli squadristi che sì stavano radunando a Tivoli, d’altra parte, ben difficilmente sarebbero riusciti a forzare il passaggio obbligato attraverso i quartieri meridionali di Roma, come San Lorenzo e Portonaccio, che erano presidiati dagli Arditi del Popolo, l’organizzazione armata dei partiti di sinistra. I Carabinieri, dal canto loro, avevano organizzato una serie di blocchi stradali e ferroviari che dovevano arrestare l’avanzata ben lontano da Roma. In effetti, all’alba del 28 ottobre, le colonne di camion e i treni speciali che convergevano sulla capitale furono tutti fermati dai blocchi a Civitavecchia, Orte, Avezzano e Segni, e cioè parecchi chilometri prima dei punti di raccolta prestabiliti.
Alle 5 del mattino di sabato 28 ottobre, mentre pioveva e la temperatura era fredda, la Marcia su Roma si stava delineando come un disastro, almeno dal punto di vista tecnico-militare. Invece dei 100.000 partecipanti previsti, convergevano sulla capitale non più di 26.000 fascisti, stanchi, intirizziti e affamati. Le disposizioni logistiche dei generali in camicia nera si stavano rivelando confuse e inefficienti: gli uomini erano restati senza rancio per tutta la nottata e la mattinata successiva, tanto che alcuni si diedero al furto di galline. Nessuno riuscì ad arrivare a Santa Marinella e a Monterotondo; soltanto i pugliesi di Peppino Caradonna e gli elementi usciti da Roma con Bottai riuscirono ad incontrarsi tra Tivoli e i Castelli, dove però restarono asserragliati e spesso assediati dalle popolazioni.
È probabilmente non peregrino affermare che, all’alba della famosa giornata che cambiò la storia italiana, il governo poteva dirsi ancora completamente padrone della situazione dal punto di vista militare. Secondo alcuni resoconti dell’epoca, alle 5.00 del mattino, Facta dichiarò: “Questa è una rivolta, e alla rivolta si resisterà”, per poi esclamare in dialetto “Se a voelo avnì a devo porteme via a toch” (“Se vogliono venire, mi devono portar via a pezzi”).
Pochi minuti dopo il Consiglio dei Ministri, tenutosi alle 5 di mattina del giorno 28 ottobre, decise l’attuazione dell’unica misura degna della situazione e che, se fosse stata prontamente applicata, avrebbe bloccato la Marcia su Roma: lo stato d’assedio in tutto il Paese, del quale la sera prima era stato preventivamente informato anche il Re d’Italia.
Il relativo decreto, passato alla tipografia dello Stato, venne quindi tramutato in un manifesto pronto per l’affissione già alle 8.30 del mattino, proprio mentre gli squadristi erano bloccati sotto la pioggia e si disperdevano per i fienili e le case coloniche, imprecando contro i capi giudicati incapaci. Il fascismo, fino a quel momento, non aveva vinto che a Milano, dove Mussolini era riuscito ad intimidire con una serie di telefonate notturne i fratelli Alberto e Luigi Albertini, che decisero di non pubblicare il Corriere della Sera.
Alle 8 del mattino, Facta lasciò il Consiglio dei Ministri e andò dal Re per fargli firmare il decreto. Ora, cosa si siano detti i due uomini nel breve colloquio resta ancor oggi un mistero: più tardi Facta dichiarerà che non avrebbe mai rivelato nulla, neppure se fosse stato messo davanti al plotone di esecuzione. Certo è che Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare il decreto che istituiva lo stato d’assedio: era la capitolazione dello Stato di fronte allo squadrismo.
Sulla base del resoconto del suo Capo di Gabinetto, Facta tornò al Viminale cereo in volto e in preda a viva emozione. L’annuncio che lo stato d’assedio non sarebbe stato proclamato, e che quindi i fascisti avrebbero avuto via libera verso Roma, venne dato ai giornali verso mezzogiorno. Era una vittoria insperata: i posti di blocco saltarono ed i fascisti cominciarono ad affluire sulla capitale, indisturbati.
Da questo momento gli avvenimenti precipitarono: Mussolini, che non aveva partecipato alla marcia e che si trovava a Milano in attesa degli eventi (a detta di molti storici, in base ad una misura prudenziale che gli avrebbe permesso di trattare ancora un’eventuale soluzione di compromesso), sentì di colpo di avere la situazione in pugno. Se alcuni esponenti del fascismo, come De Vecchi, ancora non credevano alla vittoria piena e proponevano la formazione di un governo di destra Mussolini-Salandra, Mussolini decise di rischiare il tutto per tutto.
Intanto, continuava a piovere. Gli squadristi affluivano a Roma alla spicciolata, requisivano qualche capo di bestiame in mezzo alla fanghiglia desolata dell’agro romano e si cuocevano ranci di fortuna. L’incertezza durò per tutta la giornata del 29 ottobre; alla fine, di fronte alla pressione di Mussolini, a Salandra non restò che ritirarsi e Mussolini ebbe dal generale Cittadini, per telefono, la comunicazione che il Re gli dava l’incarico di comporre il ministero. Al futuro Duce però non bastò e volle una conferma per telegramma.
Mussolini, quando ormai si era fatta notte, andò ad aspettare il telegramma in un palchetto dell’Odeon; in realtà, egli aveva già prenotato il vagone letto per il viaggio in treno su Roma. Di prima mattina, il treno si fermò a Civitavecchia, dove era ancora concentrato il grosso delle squadre: tutti si arrampicarono a bordo e così riuscirono ad entrare nella città.
Intanto, per tutta la notte, le sparatorie si erano susseguite nei quartieri popolari romani, con vittime e feriti. Era una Roma ancora provinciale ed ottocentesca, con molti café-chantant, dove si esibivano il commendatore Edoardo Scarpetta, Mimì Bluette ed Ettore Petrolini. A Piazza Colonna sorgeva un grande palco semicircolare di legno sul quale, tutte le domeniche pomeriggio, suonava la Banda Musicale del Comune, mentre i cittadini passeggiavano.
Quella domenica 30 ottobre 1922 lo spettacolo bandistico venne sospeso, mentre gli squadristi sfilavano ordinatamente a Piazza del Quirinale. Mussolini, in camicia nera, pantaloni da cerimonia e ghette gialle, si recò da Vittorio Emanuele III, scusandosi per la strana tenuta che aveva indosso, “non avendo avuto tempo di mutarsi d’abito in quanto reduce dalla battaglia”, quando in realtà era sceso da un semplice vagone letto.
Il primo ministero fascista fu messo in piedi, rapidissimamente, il giorno successivo. Salandra scrisse più tardi che era stata quella “la prima volta, dopo la fondazione della monarchia costituzionale, che la trasmissione della somma dei poteri pubblici era avvenuta per un atto di forza, di fronte al quale il Re e poco di poi il Parlamento, dovettero capitolare senza condizioni”.
La maggioranza degli squadristi tornò a casa la sera stessa di domenica; quelli che rimasero, molti dei quali si erano ammalati per la pioggia ed il freddo, vennero accasermati all’interno del Teatro Adriano, mentre alcuni invadevano cantando i caffè e i locali del centro.
Era appena cominciato il Ventennio Fascista.
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