Le ragioni della caduta dell’Impero Romano

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LE RAGIONI DELLA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO

Nel settembre del 476 d.C., i soldati di Odoacre, un ufficiale Sciro a capo di truppe federate ribelli, deposero l’ultimo imperatore Romano d’Occidente, Romolo, detto “Augustolo” (piccolo Augusto), un bambino che il destino volle portasse il nome del fondatore di Roma. Il patrizio Oreste, effettivo detentore del potere e padre di Romolo, fu ucciso, ma il ragazzo fu risparmiato e ebbe assegnata come residenza la splendida Villa di Lucullo sul promontorio di Baia, insieme con una pensione annua di 6000 solidi aurei.

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A scuola ci hanno insegnato che, con questo atto ed in questa data, finiva l’Impero Romano d’Occidente. In realtà, da un punto di vista giuridico e costituzionale, nulla era accaduto. La separazione dell’Impero in parte occidentale e parte orientale, ricollegandosi all’istituto della co-reggenza sperimentato fino da Marco Aurelio e Lucio Vero, era stata inaugurata da Diocleziano e resa definitiva alla morte di Teodosio, il quale aveva assegnato ad Arcadio l’Oriente, con capitale Costantinopoli, e ad Onorio l’Occidente con capitale Roma. L’idea dell’unità dell’Impero era stata però mantenuta: non si parlava di due Imperi, ma di due parti di un unico Imperium Romanorum, in cui in Oriente potevano vigere le leggi promulgate in Occidente e viceversa.

In tal senso, la deposizione di Romolo Augustolo non costituì, per i contemporanei, un fatto più rilevante che la perdita di una Provincia. Il governo di Costantinopoli si limitò a prendere atto del crollo dell’Italia e di quel che restava della Pars Occidentis, facilitato in ciò dall’atteggiamento conciliante di Odoacre, il quale riconobbe la sovranità dell’Augusto di Costantinopoli ed ebbe il titolo di Magister Militum per Italiam, governando ufficialmente il paese come plenipotenziario dell’imperatore, di fatto come sovrano autonomo di un regno germanico che di lì a poco fu effettivamente instaurato da Teodorico il Grande (493 d.C.). Gli imperatori bizantini continuarono a considerarsi Imperatori Romani, successori ed eredi dei Cesari, ed i loro sudditi continuarono a chiamarsi “Romani” conservando il concetto e la tradizione dello stato uni versale.

A questo punto qualcuno potrebbe affermare che nominalmente l’Impero Romano finì con la Caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi (1453). In effetti, la continuità costituzionale con l’antica Roma si spezzò solo in quel momento, ma nessuno potrebbe mai sognarsi di affermare che l’impero bizantino medievale avesse in comune con l’Impero di Augusto o di Traiano qualcosa di più che questi tenui legami giuridici. Pertanto, mantenendo viva l’idea che un tempo ci fu un Impero Romano e che questo declinò e cadde, bisogna domandarsi concretamente quando e perché sia crollato, anche considerando che, nel Medioevo, molti individui non erano affatto convinti che l’Impero Romano fosse finito ed anzi alcuni, fra cui lo stesso Dante Alighieri, era convinti della sua persistenza, seppure in forme molto diverse.

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UN IMPERO O MOLTI IMPERI?

Probabilmente anche gli stessi Romani condivisero l’idea che fossero esistiti svariati “Imperi Romani”, ognuno dei quali diede vita all’altro, secondo un concetto di renovatio che trovava la sua prima formulazione propagandistica nel mito dell’Araba Fenice, l’uccello che rinasce dalle sue ceneri, effigiato già nelle monete dell’età di Adriano (117-136 d.C.). Ciò che induceva i Romani ad insistere sul concetto della rigenerazione era l’idea ossessiva della decadenza e della morte che minaccia gli Stati, la convinzione che un ciclo biologico regolasse lo sviluppo, e quindi rendesse fatale la fine di tutti gli organismi.

Questo spettro della morte andava esorcizzato, ed ecco quindi sorgere il vagheggiare di un possibile ritorno all’età dell’oro, una sorta di regno di Saturno, come citato da Virgilio con celebri parole: Ultima Cumaei venit iam carminis aetas; magnus ab integro saeculorum nascitur ordo (Giunta è ormai l’ultima età della profezia Cumana; e puro nasce da capo un nuovo ordine di secoli).

Col tempo la certezza virgiliana svanì, e l’idea della incombente senectus si fece più forte: Floro si accontentò di registrare un’apparenza di ringiovanimento dell’impero nell’età di Traiano, ed i suoi successori, come ad esempio Claudiano, di fronte ad una crisi inesorabile, si limitarono a profetizzare che, anche se Roma non esisterà più, rimarrà ciò che la parola “romanus” significò, con le parole “Haec est in gremium victos quae sola recepit… quod cuncti gens una sumus” (Questa è colei che sola accolse nel suo grembo i vinti, e a tutto il genere umano provvide, nel nome comune, dando la pace e la sicurezza…).

Anche Rutilio Namaziano si rifiutò di credere che ormai solo il sopravvivere di una leggenda potesse ricordare la gloria di Roma e levò ad essa una sorta di canto funebre, nel quale colse il senso e il motivo della continuità dell’Impero: Fecisti patriam diversibus gentibus unam…urbem fecisti quod prius orbis erat (Hai dato a diverse genti un’unica patria…hai fatto una città di ciò che prima era il mondo).

Rutilio Namaziano e Claudiano riassunsero poeticamente secoli di meditazione politica e filosofica sulle cause della grandezza di Roma e sull’essenza del suo Impero, ma molti secoli prima di loro anche gli stessi uomini che questo Impero avevano creato si mostrarono timorosi circa la sua sopravvivenza nei secoli: Publio Cornelio Scipione Nasica aveva ad esempio teorizzato che si dovesse mantenere in vita Cartagine, non per sdegno contro l’atto di sopraffazione e distruzione della città punica, ma perché l’esistenza di un avversario era, nella la sua concezione filosofica, la condizione necessaria per evitare la decadenza di Roma. Uguale preoccupazione mostrò anche Scipione l’Emiliano che, al termine della sua censura, vietò allo scriba di ricopiare l’invocazione rituale agli dèi perché facessero più grande e più prospera Roma, dicendo: “Roma è già abbastanza prospera e grande. Preghiamo perché si mantenga così”.

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Antica come questa atavica idea della decadenza dello Stato era l’idea dell’Impero universale, che i Romani assorbirono da Alessandro Magno, il quale a sua volta l’aveva mutuata dai Persiani: essa è infatti insita nel sistema sociopolitico e nel concetto stesso di sovranità dei primi popoli dell’Oriente ed è inscindibile dall’affermazione di una superiorità divina del monarca. Anche il pensiero greco contribuì a questa visione: come i Greci avevano diritto all’egemonia sui barbari in virtù della loro superiore capacità e cultura, così Atene aveva diritto all’egemonia sui Greci, perché più degli altri aveva dato alla causa dell’Ellenismo. Se quindi la capacità di operare il bene diveniva fonte di un diritto che trovava la sua giustificazione nell’utilità collettiva, allora anche il dominio del più forte poteva essere accettato poiché trovava la sua base teoretica in un’esigenza morale di giustizia, di concordia e di pace. Questi concetti furono quindi assorbiti dai Romani nel Il secolo a.C., e il lungimirante atteggiamento dei circoli aristocratici che in questo periodo si atteggiavano in Roma a patroni della cultura greca, tese a fare dell’Italia, nuova patria tutelare dell’ellenismo, l’erede di questo diritto alla sovranità universale.

LE RIFORME IMPERIALI

La grande differenza fra il concetto di impero universale ellenistico e Stato Romano si evidenziò però nella profonda disparità giuridica tra cittadini Romani ed alleati italici, che in epoca repubblicana mise più volte in forse il perdurare della concordia nell’Italia Stessa, che sentiva giustamente lo stato Romano come una “proprietà comune” e non solo di Roma. Le continue ribellioni in Spagna e in Oriente facevano in tal senso sentire la voce delle Province che reclamavano maggiore giustizia.

Dopo la riforma militare di Mario, che trasse le debite conseguenze dalla impossibilità di formare un esercito di possidenti e creò un esercito di professionisti composto di proletari, avvenne la saldatura tra i proletari italici e la protesta delle Province, che reagivano al malgoverno senatorio. Le due forze, a quel punto, si riconobbero in un’unica persona, in un capo militare di cui esse divennero la vasta clientela nella lotta a fondo contro l’oligarchia italica.

L’Impero nacque quindi come espressione geopolitica, derivante da questa richiesta di rappresentanza da parte di forze altrimenti prive della possibilità di far sentire la propria voce e da una sorta di necessità di giustizia la cui realizzazione veniva affidata ad un uomo solo che, essendo superiore a tutti i suoi sudditi, li parifica davanti a sé eliminando le differenze tra dominati e dominatori.

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I primi due secoli di vita dell’Impero si mossero sui binari tracciati da Augusto, basandosi su un’ordinata collaborazione tra gli eterogenei elementi che costituivano l’ecumene romana. In essa, un unico uomo, l’Imperatore, sostenuto dall’esercito, si elevava a forza regolatrice e garante dell’ordine e della pace, da cui dipendeva il funzionamento dello Stato. L’aspetto più evidente della lotta politica posteriore ad Augusto consistette nel complicato rapporto tra autorità imperiale ed aristocrazia senatoria, anche perché gli storici antichi furono compartecipi di questo conflitto, agendo come portavoce dei sentimenti del Senato o dell’esercito, mentre la voce e il respiro delle masse provinciali è giunta a noi solo attraverso testimonianze letterarie e documentali “minori”, che hanno comunque permesso di visionare la situazione sotto un’ottica diversa.

I RAPPORTI CON IL SENATO

Nel compromesso augusteo, la posizione di supremazia del Princeps si basava sull’accumulo dei poteri in un’unica persona, e soprattutto sul riconoscimento a questa persona della auctoritas, da cui derivava il titolo di Augustus, che aveva un significato religioso e sacrale più che giuridico, e che indica nella elevazione al di sopra degli altri uomini la caratteristica prima del potere imperiale. Sia i suddetti poteri che l’altrettanto suddetto titolo sacrale di Augustus venivano conferiti al principe dal Senato, spesso con l’implicita approvazione dell’esercito; il Senato quindi, insieme con il populus Romanus, rappresentato in un embrione di comizi, restava la fonte tradizionale di ogni autorità.

Il Senato era un organo ristretto, al quale si apparteneva per nascita o al quale potevano accedere per designazione imperiale uomini distintisi per particolari meriti. Benché, col tempo, il senato finì per rappresentare solo i vertici di un apparato burocratico che aveva nell’imperatore il suo “motore”, senza conservare più alcuna traccia delle grandi famiglie nobili della prima età Augustea, tuttavia esso tramandò di membro in membro un tenacissimo spirito di corpo che ne fece per lungo tempo un potente interlocutore dell’Imperatore, se non altro perché la classe di governo, cioè la materia prima per far funzionare lo stato, era reclutata nei suoi ranghi.

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Ciò che opponeva il Senato all’Imperatore era non tanto la velleità da parte del Senato di poter fare a meno di una figura simbolica e autoritaria, quanto una diversa interpretazione della libertas che Augusto aveva promesso al Senato. Per i senatori tale concetto rappresentava la coscienza di una supremazia ideale nello stato, che volevano continuamente vedere riconosciuta e che era invece reiteratamente negata nella realtà quotidiana, ancorché conservata gelosamente nei rituali giuridici. Per l’Imperatore esso stava invece ad indicare la libertà, da parte del Senato, di collaborare di buon grado alle sue direttive.

In aggiunta a ciò, tendenzialmente i senatori si opponevano a qualunque forma dinastica: il principato non doveva tramandarsi tra membri della stessa famiglia, ma l’Imperatore doveva essere scelto tra i componenti del Senato mediante l’adozione e ponendo la massima attenzione alle qualità personali e ai superiori interessi dello Stato. Questo principio, basato su una diffusa convinzione filosofica, fu accettato e si affermò nel II secolo d.C., garantendo parecchi decenni di tranquillità all’Impero Romano, che navigò all’interno della cosiddetta Età dell’Oro.

Infine, vi era una profonda lotta economica tra autorità centrale ed aristocrazia senatoria. In maggiore o minore misura, gli Imperatori tesero a sbarazzarsi dei più ricchi latifondisti aristocratici per assorbire le loro proprietà nei beni fiscali o patrimoniali. Poiché erano il fisco e il patrimonio imperiale a sostenere le maggiori spese dell’amministrazione, dell’esercito e delle opere pubbliche, si era escogitato questo sistema di redistribuzione della ricchezza, che in realtà lasciava spesso sgomenti i senatori, costretti ad assistere a questo drenaggio delle loro sostanze, che andavano a incrementare i fondi con i quali si mantenevano i soldati nelle Province, si costruivano le strade e gli acquedotti e si garantiva l’approvvigionamento alimentare delle grandi città.

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I RAPPORTI CON L’ORDINE EQUESTRE

Appena al di sotto del Senato, esisteva un’altra classe di cittadini privilegiati: l’ordine equestre. Si trattava di un ceto più vasto, al quale si accedeva non ereditariamente, ma per meriti e capacità personali, e che quindi era lontano da ogni tradizionalismo aristocratico. Agli equites erano riservate tutte le cariche amministrative e finanziarie dello stato, più il governo di alcune Province direttamente dipendenti dall’Imperatore.

Il conflitto latente con il Senato spinse progressivamente gli Imperatori, chi più chi meno, a basarsi sempre di più sulla classe equestre, reclutata in modo da essere più rappresentativa delle energie vitali dell’Impero. Claudio, Domiziano, Traiano e Adriano non fecero che accrescere le competenze e le prerogative di questo ceto, finché con Gallieno (253-268 d.C.) i senatori furono esclusi dal comando delle legioni a tutto vantaggio degli equites.

La promozione sociale continua del ceto equestre fu la vera chiave di volta del sistema imperiale: l’Impero Romano, infatti, spiccava su altre forme di governo proprio per la possibilità che era offerta a vasti strati della popolazione di avanzare, nell’arco di una o due generazioni, da condizioni di servitù o di minorità giuridica fino a posti di notevole rilevanza sociale.

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I MUTAMENTI IMPERIALI

Nel corso del I secolo d.C. si cominciarono a vedere i primi importanti mutamenti nelle rappresentanze dei vertici dello Stato. Il Senato cominciò ad essere composto in gran parte da famiglie provinciali (specialmente Gallia, Spagna ed Africa) e alla fine del secolo giunse ai vertici dello stato un uomo proveniente da famiglia provinciale spagnola.

Questi mutamenti non furono privi di conseguenze. Nel II secolo d.C. si fece ad esempio più intensa l’opera di promozione economica e sociale delle Province, molte delle quali rivaleggiavano a livello di prestigio con l’Italia stessa. In aggiunta a ciò, si rafforzò la collaborazione tra Imperatore e Senato, divenuto ora assai più rappresentativo delle energie delle Province: di ciò esistono ancor oggi genuine testimonianze documentali ed artistiche nei documenti dell’età di Traiano, nelle opere di Adriano e di Antonino Pio e negli scritti memorabili di Marco Aurelio.

Proprio l’accresciuta importanza delle Province portò ad un inarrestabile moto di parificazione, che culminò nel 212 d.C. con la celebre Constitutio Antoniana, editto con il quale l’imperatore Caracalla concesse la cittadinanza romana ed i diritti ad essa connessi a tutti i sudditi dell’Impero. Ovviamente, la stessa linea di trasformazione investì anche l’esercito, che passò da italico a provinciale fino ad essere considerato esso stesso quasi barbarico, causando svariati problemi al comparto militare.

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Il problema maggiore, però, era anche e soprattutto di carattere economico. Augusto aveva stabilito una linea di confine difesa da 25 legioni, prevedendo di non dover affrontare in un unico punto una pressione più forte che altrove. La paga e la liquidazione dei soldati (circa 300.000 uomini, comprese le truppe ausiliarie) e tutte le altre spese inerenti alla difesa assorbivano gran parte delle risorse dello stato. Le eventuali guerre, diversamente che in età repubblicana, non erano redditizie (tra le poche eccezioni va annoverata la conquista traianea della Dacia, ricca di miniere d’oro e metalli preziosi).

Il sistema militare corrispondeva quasi perfettamente a quanto le risorse dell’Impero potevano tollerare, e ciò costituiva un limite all’espansione, tanto che la conquista già intrapresa della Germania dovette essere abbandonata insieme con tutti i territori già occupati tra Reno ed Elba. Allo stesso tempo, Roma dovette tollerare l’esistenza, alla frontiera Siriaca, di un confinante organizzato e bellicoso come l’impero dei Parti.

Il sistema politico imperiale si reggeva quindi su un complicato equilibrio tra ambienti civile e militare. I piatti della bilancia si disequilibrarono quando, sotto Marco Aurelio, iniziarono le prime invasioni dei barbari le quali, seppure prontamente respinte, determinarono la prevalenza immediata degli ambienti e delle caste militari. In tal senso, secondo alcuni storici, Marco Aurelio potrebbe aver abbandonato l’antico e collaudato sistema dell’adozione proprio per compiacere l’esercito e per creare più stretti legami tra le truppe e la “dinastia”, commettendo lo sconcertante errore di mettere l’Impero Romano nelle inadatte mani di Commodo.

Da quel momento in poi, i numerosi imperatori che seguirono, ad intervalli sempre più serrati e segnati da tragici avvenimenti, furono sempre più espressione degli umori dell’esercito.

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LA CRISI DELL’IMPERO ROMANO

Dal III secolo d.C. i ribaltamenti militari furono all’ordine del giorno. L’anarchia militare distrusse gran parte della florida vita civile dell’Impero ma seppe anche opporsi con una sorprendente vitalità alle continue ondate di barbari che, prima a piccoli gruppi e poi sempre più numerosi e frequenti, aggredirono quell’immensa preda che ai loro occhi era l’Impero Romano.

Fu una crisi profonda, che dal comparto militare passò alla popolazione civile, spezzando l’esistenza stessa dell’Impero: essa può essere idealmente collocata fra la fine del regno dei Severi (193-238 d.C.) e l’avvento di Diocleziano (284 d.C.), sebbene riassumere in poche parole la complessità di aspetti della trasformazione in atto nella società romana imperiale sia ovviamente un’impresa impossibile.

A grandi linee, è possibile suddividere le ragioni della crisi in cause “interne” e cause “esterne”. Se le cause esterne sono facilmente individuabili nel rinvigorimento dello stato partico (226 d.C.), con la conseguente minaccia al confine orientale, e nell’inizio delle invasioni barbariche sotto Marco Aurelio, le cause interne sono decisamente più complesse da analizzare. 

Gran parte delle cause “interne” dipesero, in realtà, da una generale incapacità politica di afferrare il senso, i nessi e le tendenze della succitata trasformazione politica e sociale da parte degli Imperatori posteriori ad Augusto, che si limitarono ad interpretare il suo sistema anziché innovarlo sulla base delle nuove tendenze. Fatte salve sporadiche eccezioni, anche i migliori Imperatori romani possono al massimo essere definiti eccellenti amministratori, incapaci però di recepire il respiro nuovo che andava crescendo intorno a loro: ecco perché, leggendo gli scritti di Marco Aurelio, si percepisce ancor oggi un senso di irreparabile e impotente tristezza, che andò poi a sfociare nell’irrequietezza tendente alla nevrosi di suo figlio Commodo.

Altrettanto fondamentali da analizzare sono la crisi economica e la crisi morale.

L’Impero era stato un’area di scambio improntata a principi liberistici. La regola dei primi imperatori era basata sul principio del “laissez faire”: lo Stato non aveva una politica economica, ma solo una politica fiscale, e si limitava ad intervenire di tanto in tanto apportando qualche correttivo che poteva sembrare opportuno in difesa di interessi regionali o settoriali. A dispetto delle manifestazioni di benessere e prosperità dei primi due secoli, che sono innegabili dal punto di vista storico, l’economia romana era decisamente sbilanciata. La tassazione era ingiusta, in quanto privilegiava i ricchi a scapito dei meno ricchi, i sistemi di sfruttamento della terra erano antiquati e non esisteva inoltre un’industria degna di questo nome che fungesse da macchina di redistribuzione della ricchezza.

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Ben presto lo Stato, sollecitato dal benessere economico dei sudditi, si sforzò di intervenire, promuovendo con un’opera grandiosa lo sviluppo e la diffusione delle città, che erano centri di irraggiamento della cultura. Ma per far questo si dovette inasprire la pressione fiscale, dapprima sui ceti meno abbienti e poi anche sulla borghesia cittadina, due classi sociali che potevano identificarsi in un certo senso con la civiltà stessa dell’Impero. Lo Stato quindi incamerava e drenava ricchezze, ridistribuendole in opere sociali e pubbliche, che avevano un effetto limitato: il problema era che, quanto più lo Stato chiedeva, tanto meno i cittadini erano in grado di dare, perché crescevano i debiti e diminuiva la produzione.

L’opera di Augusto e dei suoi successori, iniziata con una rivitalizzazione dei ceti medi che raggiunse il suo culmine nel Il secolo, naufragò nuovamente alla fine del secolo, di fronte all’incapacità di controllare un sistema che portava di nuovo alla radicalizzazione delle disparità economiche e sociali. L’intervento dello Stato, sempre più massiccio, risultò quindi rovinoso per le stesse classi medie che si volevano salvare.

Fu normale, indipendentemente dai fattori esterni, che in questo quadro esplodesse lo strapotere della burocrazia e delle gerarchie militari.

LA CRISI DELLA POLITICA MONETARIA

La politica monetaria, poi, diede il colpo di grazia alla fiducia che le classi medie potevano nutrire nei confronti della capacità di intervento dello Stato. Il sistema monetario dell’Impero Romano era un sistema bimetallico (oro e argento, più una moneta divisionale di rame), che già palesava alcune difficoltà nel mantenimento di un rapporto fisso tra oro e argento per via delle fluttuazioni del mercato.

Con Nerone, progressivamente ma inesorabilmente, si abbandonò il sistema bimetallico e la moneta d’argento venne ancorata all’oro, che assunse quindi la funzione di moneta guida. In questo modo si pensava di poter risparmiare riducendo il fino dell’argento, cosa che venne praticata e accettata dal pubblico fin quando lo stato diede l’impressione di poter garantire la convertibilità aurea. Le difficoltà economiche, tuttavia, aumentarono, perché l’Impero aveva una bilancia commerciale passiva con l’Oriente, e si assistette quindi a un continuo deflusso di moneta pregiata, al quale la produttività delle miniere non riusciva a porre rimedio.

La sfiducia si tradusse nella scomparsa della moneta “buona” dal mercato e nel tentativo da parte dello stato di pompare l’economia aumentando il volume del circolante: fu un grosso errore, poiché ciò scatenò l’inflazione, e quando se ne accorsero le autorità monetarie strinsero i cordoni della borsa provocando come conseguenze la stasi economica e una serie di fallimenti a catena.

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La vera tragedia, però, avvenne quando Caracalla (211-217 d.C.) diminuì il peso della moneta d’oro. Ciò provocò una spaventosa inflazione, accompagnata da un parziale ritorno allo scambio in natura e da un peggioramento costante della moneta d’argento.

In sostanza, nel III secolo si manifestò l’incapacità da parte dello stato di mantenere un sistema fiduciario e quindi di difendere le classi medie, nonché l’enorme massa di dipendenti salariati, che erano pagati, possedevano e lavoravano soprattutto con la moneta d’argento e divisionale.

Il sistema monetario di Costantino, dopo il fallimento dell’ultimo tentativo conservatore dioclezianeo, segnò il ritorno alla moneta come merce e all’oro come unico valore: ciò rappresentò l’abbandono delle classi medie al proprio destino e l’accettazione di un mondo di privilegiati contrapposto a un universo di derelitti. Nella nuova società che si creò, infatti, solo i detentori di oro potevano controllare la propria vita e determinate in parte quella dello Stato: agli altri, ossia ai contadini e ai piccoli proprietari, non restò che rifugiarsi sotto il patrocinio delle grandi signorie fondiarie, cosa che rappresentò, ben prima del Medioevo, l’inizio del sistema economico del vassallaggio.

IL CRISTIANESIMO

II declino dell’Impero ebbe una sua tragica grandezza che si manifestò nella lacerazione delle coscienze individuali. Già alla fine del Il secolo iniziò a svilupparsi fra il popolo il concetto di ecclesia cristiana. Questo trapasso avvenne durante il III secolo d.C. facendo precipitare Roma in un cinquantennio di anarchia militare durante il quale l’impero pagano celebrò i suoi ultimi riti millenari.

Le cause dell’affermazione del cristianesimo vanno ricercate soprattutto nel naturale esaurimento e svuotamento di una cultura che non riusciva più a parlare agli individui, sebbene il trionfo della nuova religione, impostasi nei decenni ai vertici dello Stato, non portò di base a nessuna rilevante novità da un punto di vista sociale né giuridico. La fine della civiltà romana venne avvertita dagli scrittori antichi come una sorte di cancrena che divorava un corpo putrefatto, con i cristiani che attribuivano questa malattia all’empietà e alla lussuria dei pagani, vedendo in essa la giusta pena divina per una grande colpa collettiva.

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La Chiesa cristiana si contrappose all’Impero nell’affermare il proprio dominio su quella spiritualità più profonda che l’Impero Romano aveva ormai lasciato fuori della propria considerazione. La conseguenza fu un enorme spostamento di energie spirituali dall’ambito dello Stato all’ambito della Chiesa, cosicché lentamente accanto ad una nuova struttura spirituale prese forma una nuova struttura sociale. Lo Stato tentò di reagire, dapprima contrapponendo un monoteismo pagano al monoteismo cristiano, quindi affermando la propria neutralità religiosa, infine abbracciando il cristianesimo e da ultimo lasciandosi convincere dai cristiani ad attuare una politica persecutoria e discriminatrice contro i pagani.

Tutto ciò modificava secoli di politica religiosa e culturale dell’Impero. L’Impero Romano aveva dei culti ufficiali, connessi alle radici sacrali del concetto di autorità e di sovranità dei romani (imperium). Non si trattava però di una “religione di Stato” in senso stretto: tutte le religioni e tutte le culture venivano tollerate ed accettate. L’impedimento a determinati culti religiosi si verificò solo quando si ebbe la sensazione che essi fossero al limite dell’attentato alla vita dello Stato stesso.

In questo senso si cercò di impedire il drudismo, l’ebraismo ed il cristianesimo, solo per citare i culti più diffusi. Tuttavia, verso il cristianesimo e l’ebraismo lo Stato romano si mostrò sempre estremamente tollerante, richiedendo al massimo il riconoscimento della maestà dell’Imperatore. La logica dello Stato, però, non era quella dei cristiani, molti dei quali piuttosto che piegarsi ad un atto esteriore e formale preferivano affrontare la persecuzione e la morte, testimoniando in questo modo una forza ed una coerenza interiori di fronte alla quale i pagani restavano allibiti. A quel punto giunsero persecuzioni decisamente violente, come quelle di Decio e Diocleziano, che però permisero al Cristianesimo di affacciarsi vittorioso (ed in un certo senso assetato di vendetta) al IV secolo.

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LE CONCLUSIONI

L’Impero Romano del IV e del V secolo è qualcosa di profondamente diverso da quello dei Flavi, degli Antonini e dei Severi. Un ciclo della storia umana si era concluso negli sconvolgimenti del cinquantennio di anarchia militare, ed ormai i germi di un mondo nuovo prendevano vita in una struttura giuridica ed organizzativa ancora largamente dominata dalla tradizione della civiltà classica.

La cultura pagana sferrò gli ultimi colpi di coda con le grandi opere di Giuliano l’Apostata e di Ammiano Marcellino, sullo scorcio del IV secolo, ma poi arrivò la fine, in una vera agonia caratterizzata da invasioni e saccheggi, di fronte ai quali sembrarono avverarsi le profezie di chi, avvertendo l’intima violenza di un mondo profondamente materialistico, ne aveva fin da principio invocato la fine.

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Basti in tal senso rileggere le parole di San Giacomo, che sembrano provenire da un preveggente oracolo: “o ricchi, piangete urlando sulle vostre miserie, che stanno per sopraggiungere. La vostra ricchezza è imputridita e le vostre vesti corrose. Arrugginito è il vostro oro e argento. Accumulaste tesori nei giorni della fine. Ecco, oggi l’urlo dei mietitori è arrivato alle orecchie del Signore degli eserciti”.

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