L’ANTICA UNIVERSITÀ DI ROMA
Si racconta che San Domenico, aggirandosi un giorno per le sale di Palazzo Savelli, residenza di Papa Onorio III, si imbattè in un folto gruppo di persone, sedute qua e là e occupate in chiacchiere e in futili passatempi. Subito chiese chi fossero, e gli fu risposto che si trattava di familiari e dipendenti del Papa e dei cardinali. Acceso di sacro zelo, il santo si rivolse allora ad Onorio, cui era unito da vincoli di stima e di amicizia, facendogli notare quanto fosse disdicevole che tante persone, in prevalenza ecclesiastici, trascorressero il tempo nell’ozio, dediti alle chiacchiere e al pettegolezzo, attività notoriamente nocive alla salute dell’anima.
Il Santo a quel punto propose: “Perché non facciamo in modo che costoro occupino meglio il loro tempo, magari studiando le Sacre Scritture?”. L’idea piacque a Papa Onorio III, che affidò quindi a San Domenico l’incarico di leggere e spiegare le Epistole di San Paolo: fu così che nel 1218 sorsero le Scuole Palatine, il primo istituto romano di studi superiori, le quali però (a dispetto di alcune passate tesi storiche, ormai ritenute prive di fondamento) non hanno nulla a che vedere con l’Università di Roma. Le Scuole Palatine entrano tuttavia, quantomeno indirettamente, nella storia dell’Università di Roma perché quest’ultima sorse proprio per sopperire ai limiti delle prime.
Nelle Scuole Palatine si insegnò dapprima solo teologia, e fu solo nel 1243 che Papa Innocenzo IV istituì le cattedre di diritto canonico e di diritto civile. In apparenza le Scuole avevano le caratteristiche delle altre Università: erano aperte a tutti, ecclesiastici e laici, romani e non romani, senza alcuna limitazione: i Papi si erano infatti preoccupati che i giovani che convenivano numerosi a Roma trovassero un istituto dove studiare e prendere la laurea. Le Scuole Palatine presentavano però un inconveniente: essendo lo Studium Curiae, cioè l’Università della Curia, seguivano il Pontefice dovunque egli si stabilisse, anche solo provvisoriamente. Nel XIII secolo, a causa delle lotte con l’Impero e per la turbolenza delle fazioni romane, i Pontefici furono costretti più volte a trovare rifugio a Viterbo o a Napoli, ed i cittadini romani si ritrovarono così senza Università, costretti a sospendere gli studi intrapresi.
Fu allora che Papa Bonifacio VIII, riconosciute legittime le lamentele degli studenti, decise di fondare l’Università di Roma, con una bolla costitutiva datata 20 aprile 1303. Erano tempi decisamente burrascosi per Papa Bonifacio: la rottura con Filippo il Bello era ormai completa, anche perché sette giorni prima il Pontefice aveva fatto notificare al re di Francia la scomunica per aver impedito agli ecclesiastici francesi di partecipare al Sinodo romano. Si addensavano sul capo del Pontefice le nuvole della tempesta che sfocerà in uno degli episodi più amari della storia del Papato: lo schiaffo di Anagni.
Papa Bonifacio VIII (nonostante la cattiva opinione ch’ebbero di lui svariati personaggi illustri, fra cui lo stesso Dante Alighieri) era un uomo di grande animo, espertissimo di diritto canonico e fautore della diffusione della cultura. Non c’è da stupirsi quindi che fu proprio lui a fondare l’Università di Roma. L’intenzione di Bonifacio era di creare un istituto sotto l’alto patronato del Pontefice, ma indipendente dalla Curia; egli sembrava indatti consapevole del fatto che solo l’autonomia potesse consentire il pieno sviluppo dell’Università.
Nell’atto di fondazione Bonifacio accordò agli studenti tutti i privilegi acquisiti nelle altre Università, compreso il privilegium fori, cioè la facoltà degli scolari di essere giudicati, nelle cause civili con terzi, dal loro professore o dal Vicario Pontificio. Stabilì inoltre che il Rettore venisse eletto da studenti e professori congiuntamente e che a lui spettasse la giurisdizione nelle liti civili e nei delitti leggeri avvenuti nell’ambito universitario. Affidò infine la scelta dei docenti alla Fraternità Romana, un collegio di elevate personalità ecclesiastiche del clero non palatino, con il concorso del parere degli studenti. Dopo pochi anni, in realtà, la scelta dei docenti venne affidata al Senato romano, accentuando così la presenza del Comune, che era poi quello che manteneva, attraverso il dazio sul vino, l’intera Università. L’alto patronato del Pontefice veniva esercitato da un camerlengo, con funzioni di pura rappresentanza.
L’Università di Roma nacque quindi non per moto spontaneo di studenti e maestri, ma per atto d’imperio: in tal senso, gli studenti e i professori romani non conosceranno mai il fervore dell’iniziativa autonoma, ma subiranno passivamente fino al XIX secolo le decisioni provenienti dall’alto. Per questa ragione, la vita dello Studium sarà sempre caratterizzata da una certa precarietà, poiché legata agli umori ed alle inclinazioni dei Pontefici, i quali potevano far fiorire o deperire l’Università a seconda delle proprie preferenze e inclinazioni.
L’inizio sembrò assai felice. Il 23 giugno 1303 lo Studio entrò in funzione in un edificio acquistato presso la chiesa di S. Eustachio: le lezioni si tenevano di mattina e di sera, e nel programma erano compresi tutti gli insegnamenti tradizionali de Medioevo, dalla retorica al diritto canonico, dal diritto civile alla medicina. C’era però una grave lacuna: lo Studium non aveva infatti la facoltà di conferire lauree, poiché Bonifacio VIII, per garantire la superiorità delle Scuole Palatine, non aveva concesso all’istituto tale privilegio.
Quando i Pontefici posero la propria residenza ad Avignone, lo Studium decadde inesorabilmente, tanto che nel XIV secolo venne chiuso e riaperto più volte, provocando progressivamente il diradarsi degli studenti e l’allontanamento dei docenti migliori. Studenti e insegnanti preferirono sedi più tranquille come Bologna o Padova, dove tra l’altro i professori venivano pagati regolarmente. A Roma nessuno infatti si prendeva la briga di interessarsi dell’Università, con le rendite del dazio sul vino venivano spesso devolute ad altri scopi. In tal senso, non servì a nulla la decisione di Giovanni XXII di concedere all’Ateneo romano la facoltà di conferire lauree: nel 1370 lo Studium, “propter defectum Doctorum iam collapsum” (ossia per mancanza di insegnanti) venne sciolto e l’edificio venduto.
A dispetto della riapertura, nella zona di Trastevere, da parte di Papa Gregorio XI nel 1377, l’altalena continuò incessante. Nel 1406 Innocenzo VII riaprì lo Studium ed istituì la cattedra di greco, affidandola a Emanuele Crisolora, che diffuse in Roma la conoscenza della lingua e della letteratura greche, ma alla morte del Pontefice lo Studium, come per un gioco di prestigio, scomparve.
Dovettero trascorrere 25 anni prima che esso fosse riaperto da Papa Eugenio IV, che ne affidò l’amministrazione al cardinale camerlengo, il quale aveva il compito di stabilire il numero delle cattedre e di scegliere i docenti, sia pure con la collaborazione di quattro cittadini romani nominati dal Senato, che presero il nome di Riformatori.
Lo Studio, riportato presso la chiesa di Sant’Eustachio, iniziò a funzionare regolarmente. L’anno scolastico andava dal 18 ottobre al 29 giugno, con le lezioni ordinarie che si tenevano tutti i giorni lavorativi e con quelle straordinarie che si svolgevano nei festivi. I corsi, della durata di cinque o sei anni secondo la facoltà, si concludevano solennemente con l’esame di laurea. La prerogativa di conferire i gradi dottorali, affidata dapprima a un Vicario, fu concessa alla fine del XV secolo al Collegio degli Avvocati Concistoriali (un corpo formato da professori ed ex professori universitari di diritto) per le materie giuridiche e al collegio dei Medici per la medicina. La cerimonia della laurea, assai fastosa, si mantenne uguale fino all’800: nei primi secoli veniva celebrata nella chiesa di Sant’Eustachio, mentre più tardi nell’Aula Magna della Biblioteca Alessandrina, illuminata dalla luce delle candele. Il laureando si presentava in abito talare, ferraiolo e berretta a quattro pizzi, scortato da due bidelli in grande uniforme e mazza. La commissione dei professori era presieduta dal camerlengo (che si trovava spesso imbarazzato, nel dare il voto, non conoscendo affatto la materia trattata dal laureando). Al termine dell’esame avveniva la votazione con palle bianche e nere. La cerimonia si concludeva con la proclamazione del neodottore, che doveva giurare di osservare gli Statuti dello Studio e di essere fedele al Pontefice e alla Chiesa.
Con Papa Eugenio IV ebbe inizio, per lo Studium romano, il periodo del massimo splendore. L’Università beneficiò del grande sviluppo di cui il movimento umanistico godette in Roma, sotto gli auspici del Pontefice: se da un lato la cultura classica ritrovò nella Città Eterna la sua antica grandezza, dall’altro la caduta di Costantinopoli (1453) favorì l’esodo dei greci che vennero ad arricchire la già folta schiera di letterati ed eruditi raccolti nella corte pontificia.
Sulle cattedre dell’Ateneo si successero i maggiori rappresentanti dell’umanesimo italiano: Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Flavio Biondo, Francesco Filelfo, Pomponio Leto e Lorenzo Valla, solo per citarne alcuni. Anche le materie non letterarie ebbero docenti illustri: dal filosofo Giovanni Argiropulo di Costantinopoli, che diffuse la conoscenza di Aristotele, ai medici Filippo della Valle e Gabriele Zerbi, quest’ultimo seviziato e ucciso dai turchi perché impossibilitato a guarire un loro principe. Secondo alcuni documenti redatti dal suo discepolo Gioacchino Retico, avrebbe insegnato a Roma persino Nicolò Copernico: lo scienziato avrebbe insegnato matematica, facendo anche osservazioni astronomiche, e le sue lezioni erano frequentate da molti studenti e dagli uomini più dotti della Curia.
In breve tempo un gran numero di scolari accorse all’Università romana. Le lezioni di Pomponio Leto erano così seguite che bisognava far la fila prima dell’alba per trovar posto, tanto che lo stesso Pomponio Leto sì lamentò più volte delia scarsa capienza delle aule, finché Alessandro VI decise di accontentarlo. Il 17 dicembre 1497 il Papa Borgia ordinò quindi la costruzione di una sede degna dell’Università di Roma, sebbene occorrerà oltre un secolo e mezzo prima di vederla ultimata.
A dispetto di tutta questa esaltazione, neppure la seconda metà del XV secolo, periodo singolarmente felice nella storia dell’Università di Roma, fu immune da inconvenienti. Il più grave fu la tendenza dei professori a trascurare l’insegnamento pubblico per quello privato, con lo Studium che subì da ciò danni gravissimi. A voler essere neutrali, non si può dire che tutta la colpa ricadesse sugli insegnanti: spesso infatti, come già accennato, i Papi si dimenticavano di loro e destinavano ad altri scopi le rendite del dazio sul vino, tanto che nel 1458 i professori iniziarono addirittura una specie di sciopero.
Verso la fine del secolo, poi, l’autonomia dell’Università subì un altro colpo, con il Rettore che non venne più eletto da scolari e maestri, ma nominato dal Papa. Questo mutamento avvenne non con un atto formale, ma quasi alla chetichella: si giustificò l’intervento papale adducendo il fatto che spesso l’elezione del Rettore era seguita da contestazioni, ma si trattava evidentemente di un pretesto. Proprio in quegli anni l’Università aveva infatti assorbito le Scuole Palatine ed era rimasta l’unico istituto di studi superiori in Roma: è in tal senso comprensibile la volontà dei Pontefici di controllare e di agire direttamente sullo Studium.
I Romani non se ne lamentarono più di tanto, anche perché per l’Università cittadina stava per aprirsi quella che Erasmo definì “l’età dell’oro”.
Nel 1513 salì infatti al soglio pontificio Papa Leone X, membro della famiglia Medici, discepolo di Poliziano e del Bibbiena: il Pontefice manifestò immediatamente, nei confronti dell’Università, quell’amore per le lettere che lo aveva reso celebre tra i contemporanei e i posteri, non risparmiando energie e danaro per ridare fama e decoro allo Studium. Al momento dell’elezione di Leone X, l’Ateneo attraversava uno dei suoi frequenti periodi di depressione, con il numero degli scolari addirittura inferiore a quello dei docenti. Leone X aveva però programmi ambiziosi: come Roma era la prima città del mondo, così anche la sua Università avrebbe dovuto superare tutte le altre per la qualità dei docenti e per numero di scolari.
Egli individuò in due punti le cause del decadimento dello Studio: l’inosservanza dei privilegi concessi da Bonifacio VIII agli studenti e la negligenza dei professori che si dedicavano agli affari privati trascurando l’insegnamento. Leone X ribadì i privilegi degli studenti e minacciò di scomunica chiunque li avesse violati; in aggiunta a ciò, aumentò ed assicurò gli stipendi ai professori, stabilendo che tre insigni docenti (rispettivamente di diritto canonico, di diritto civile e di medicina) restassero a disposizione degli studenti al termine delle lezioni. Il Papa chiamò docenti illustri da ogni parte d’Italia: il filosofo Agostino Nifo, grande avversario del Pomponazzi; lo storico e letterato Paolo Giovio che diceva di scrivere con due penne, una per coloro che lo pagavano, l’altra per sé; il teologo Tommaso de Vio. Nel 1514, il Papa fondò nello Studium la prima cattedra di botanica istituita in Italia.
Leone X stabilì, quale contraltare, una rigida sorveglianza sui professori: il Rettore e i Riformatori devono ispezionare lo Studio almeno una volta al mese, mentre i bidelli avevano il compito di controllare la puntualità degli insegnanti e la buona condotta degli scolari.
Purtroppo, l’opera di Leone X fu un fuoco di paglia. La politica e le guerre distrassero dall’Università i suoi successori, con il Sacco di Roma del 1527 a portare la rovina nell’intera città. Molti docenti vennero trucidati dai Lanzichenecchi, e gli scolari trovarono rifugio in altre città. Le continue guerre, la riforma protestante, la perdita del prestigio del Papato aumentavano di giorno in giorno i problemi e le difficoltà dei Pontefici, che si videro costretti a governare con maggior rigore e a salvaguardare senza debolezze i principi della Chiesa. La nuova concezione rigidamente autoritaria investì ovviamente anche l’Università, che perse di colpo tutta la propria autonomia: inutilmente il Senato e il popolo di Roma rivendicheranno nei confronti della Curia la loro supremazia sull’Università, poiché l’unico risultato che otterranno sarà quello di ritrovarsi completamente estromessi dalla vita dello Studium.
Il nuovo atteggiamento del Papato si manifestò con chiarezza nel 1550, quando Papa Giulio III impose più direttamente la sua presenza nell’Università, attraverso la creazione di una commissione di cardinali che avevano il compito di curare il governo dello Studium e prepararne la riforma. La commissione (che diventerà successivamente una Congregazione Permanente) si trovò di fronte ai problemi ormai consueti: insegnanti che non insegnavano, scolari che non frequentavano ed ottenevano la laurea senza esami, disordine nell’amministrazione delle rendite destinate all’Università. I provvedimenti presi dalla Congregazione lasciarono assai perplessi: i cardinali infatti non trovarono niente di meglio da fare che aumentare il numero dei controllori istituendo l’Archibidello, una specie di bidello con i galloni del caporale, che doveva regolare l’orologio, suonare la campana ed accompagnare i professori alle aule. Questo austero personaggio doveva incutere un certo rispetto a studenti e professori, ed in effetti si rivelò una vera disgrazia per i docenti; forte dei suoi poteri, inviava infatti continue relazioni ai cardinali criticando il comportamento dei professori con frasi spesso irriguardose.
In tutto questo trambusto organizzativo, l’Università continuava a deperire; in particolare le facoltà letterarie erano in piena decadenza, per mancanza di insegnanti di valore. L’obbligo, imposto da Papa Pio IV ai professori, di giurare pubblicamente ogni anno “osservanza alla fede Tridentina”, teneva lontani dalle cattedre gli spiriti più vivaci e inquieti. Nel campo del diritto, un maestro spiccò su tutti: Marcantonio Mureto. Egli portò una ventata di aria nuova nell’insegnamento, da anni legato alla tradizione, illustrando il diritto con l’ausilio della storia e di altre discipline ed ottenendo un seguito clamoroso tra gli studenti. I colleghi del Mureto però, mossi da invidia, si appellarono al Papa, minacciando di dimettersi subito se non fosse cessato quello scandalo: di fronte a questa levata di scudi, al Mureto non restò che abbandonare il diritto e prendere la cattedra di eloquenza.
Grande sviluppo ebbe invece la medicina, con un gran fiorire di studi di storia naturale, dì botanica e di anatomia. Pio V autorizzò la sezione dei cadaveri di ebrei e di altri infedeli giustiziati. La scuola medica romana venne affidata a un grande scienziato: Bartolomeo Eustachio, considerato uno dei massimi riformatori dell’anatomia.
Se Pio IV fu assai rigido, Papa Sisto V distrusse ogni residuo di autonomia dell’Università. Con la costituzione del 23 agosto 1587, Sisto V decise che la carica di Rettore dovesse incorporata al collegio degli Avvocati Concistoriali. Il Collegio degli Avvocati Concistoriali assunse così un ruolo di importanza primaria nella vita universitaria, ma questo causò un clamoroso aumento di confusione organizzativa, perché in ambito universitario si intersecarono tre differenti organismi in grado di regolare la vita dello Studium: il cardinale camerlengo, la Congregazione dei cardinali, il collegio degli Avvocati Concistoriali. Il risultato fu che nessuno di questi organismi riuscì a mettere ordine nella vita universitaria, ma anzi si ritrovarono spesso a dover dirimere dei conflitti di competenza.
Il XVII secolo fu il periodo di massima decadenza dello Studium: il disordine e la corruzione vi regnavano sovrani, con i professori che abbandonavano le cattedre senza ricevere gli stipendi. Nel 1620 presso la facoltà di lettere, che era stata la più celebre in Roma, era rimasto un solo oscuro professore. Nel 1637 risultava vacante la cattedra di medicina: Papa Urbano VIII ne nominò titolare il proprio medico Taddeo Callicola, concedendogli però la facoltà di insegnare quando gli facesse comodo, senza che nessuno potesse costringervelo. L’esempio di Urbano VIII trovò subito seguito: l’amicizia del Papa e dei cardinali diventa il titolo principale per ottenere una cattedra, e gli stipendi venivano elargiti senza alcuna considerazione dei meriti o dell’anzianità.
L’Università divenne una sorta di istituto di beneficenza: i professori non si presentavano neppure, preferendo dedicarsi alle più remunerative lezioni private, e le aule erano spesso deserte. Altro sintomo della crisi dell’Università fu la scomparsa della Congregazione dei Cardinali, che cessò di esistere silenziosamente, quasi “per consunzione”: da anni, infatti, i cardinali non si riunivano e non si interessano dello Studio.
Mentre l’Università si dibatteva in una grave crisi, il 16 novembre 1660 venne inaugurata la nuova sede, la Sapienza. Pochi giorni prima uno straripamento del Tevere aveva turbato la città, ma quando all’alba le campane suonarono a festa, una gran folla accorse alla chiesa dell’Università, dedicata a Sant’Ivo. Le autorità accademiche, gli avvocati concistoriali, i cardinali, i più cospicui ordini della prelatura assistettero alla messa, celebrata dallo stesso Pontefice Alessandro VII, che salì poi nel grande salone ornato di tappezzerie e di fregi. La cerimonia fu assai lunga: ben nove professori lessero la loro orazione celebrativa, ed il Papa li premiò regalando venti ducati d’oro a ciascuno.
Le speranze di una rinascita dell’Università si rinnovarono: la Sapienza, costruita un po’ per volta nel giro di più di un secolo e mezzo, secondo le disponibilità finanziarie, era frutto del contributo di molteplici Pontefici, che vi avevano lasciato a ricordo il loro stemma, ma fu frutto specialmente dell’estro e dell’ispirazione di Francesco Borromini che, nominato architetto nel 1620, portò a compimento l’opera. Spettano in particolare a Borromini gli ultimi due piani dell’edificio e soprattutto la Chiesa di Sant’Ivo, straordinario capolavoro barocco.
Papa Alessandro VII istituì poi nei locali della Sapienza la biblioteca, dal suo nome detta Alessandrina, che mise a disposizione degli studenti dotandola di numerosi volumi; Papa Innocenzo XI costruisce quindi il teatro anatomico dove, nel periodo del Carnevale, venivano fatte dimostrazioni pubbliche.
Sembrava che la strada tracciata potesse essere finalmente fulgida, ma ancora una volta tuttavia le speranze vennero deluse. Alla fine del XVII secolo l’Università era, incredibile a dirsi, in uno stato tale di abbandono che i bidelli si servivano delle aule della Sapienza come botteghe artigianali e stalle, finché Papa Innocenzo XII decise di cedere l’edificio agli Scolopi perché vi insegnassero ai bambini a leggere e scrivere. Di fronte all’insorgere della cittadinanza indignata, il Pontefice ritornò sui propri passi e si dedicò con fervore al riordinamento dell’Università, affidandone il compito, il 10 febbraio 1700, al camerlengo Giovan Battista Spinola. L’opera dell’energico camerlengo dovette avere successo, se in una memoria dell’epoca si legge che lo Studio “nel breve spazio di cinque anni erasi rimesso in pregio, veggendosi le centinaja e centinaja di scolari non solo delle Città circonvicine, ma ancora degli Studj più rinomati d’Italia, e di fuori, frequentarlo giornalmente”.
Si trattò, come al solito, di un fuoco di paglia. Dopo la morte di Innocenzo XII, lo Studium precipitò infatti nella sua crisi cronica. Nel 1740, però, si presentò all’Ateneo Romano la grande occasione per riportarsi all’altezza delle maggiori università italiane: salì infatti al soglio pontificio Papa Benedetto XIV, uomo dotto e profondo conoscitore dei problemi universitari, essendo stato membro del collegio degli Avvocati Concistoriali e Rettore dello Studio romano dal 1716 al 1719. Il suo primo provvedimento fu di conferire al collegio degli Avvocati la supremazia nel governo dell’Università, a tutto scapito del camerlengo. Nel 1744 stabilì inoltre che l’assegnazione delle cattedre avvenisse per concorso: il provvedimento metteva ordine in una materia assai confusa e propizia alla corruzione e al nepotismo, poiché in precedenza le cattedre erano infatti assegnate dai camerlenghi e dai Pontefici a persone di loro gradimento.
Nel 1748 Papa Benedetto XIV operò una ancor più importante riforma: decise infatti che tutte le lezioni ordinarie diventassero quotidiane, ridusse il numero dei professori e ne equiparò gli stipendi in modo che “dall’anzianità del servizio, e non più dalla diversa qualità e denominazione delle Cattedre e Letture dipenda in avvenire il conseguimento del maggiore o minor Salario”. Proibì il passaggio da una cattedra all’altra, pratica molto frequente per i professori che volevano migliorare lo stipendio, e stabilì infine che i docenti continuassero a insegnare in latino e con la berretta e la zimarra nera “per doverosa decenza di abito e secondo l’uso inveterato dell’Università”. I professori protestarono vivamente, abituati com’erano ad anni di “insegnamento allegro”, ma dovettero accettare le nuove regole.
In realtà, la Rivoluzione Francese e gli avvenimenti che ad essa seguirono non permisero di verificare i reali effetti della riforma di Papa Benedetto XIV. Quando, dopo la parentesi francese, lo Studium riaprì, si percepì distintamente uno spirito più reazionario impregnare il governo dell’Università, mentre una certa irrequietezza agitava la popolazione scolastica. Uno spirito nuovo sembrava animare gli studenti romani, che manifestavano di continuo la loro insofferenza verso il regime politico e verso gli innumerevoli impacci che la restaurazione aveva imposto agli studi universitari.
Saranno proprio gli studenti romani, d’altronde, a partecipare attivamente alle lotte del Risorgimento, formando un battaglione universitario che si distinguerà nelle campagne del 1848. La cronaca dell’Università di Roma dell’800 fu quindi la cronaca dei continui episodi di ribellione degli studenti contro l’atmosfera grigia di intolleranza che dominava ormai lo Studium. In queste condizioni, ogni idea di migliorare il livello dell’Università decadde di fronte alla necessità di tenere a bada studenti e professori: i pochi miglioramenti apportati, come l’aumento delle cattedre scientifiche e dei laboratori, non diedero alcun frutto.
Un tentativo di dare una sistemazione organica all’Università venne compiuto da Papa Leone XII nel 1824, ma la riforma (pur presentando alcuni aspetti positivi, come la maggiore dotazione alle cattedre e ai gabinetti scientifici) era dominata dallo spirito reazionario: la massima preoccupazione del Pontefice era il controllo dei professori e degli studenti, con i primi costretti a declamare ogni anno la professione di fede prescritta da Pio IV e ad attenersi scrupolosamente nell’insegnamento ai testi approvati dalla Congregazione dei Cardinali, “insegnando le sane dottrine e procurare, con la voce e con l’esempio, di instillare nei giovani le massime della religione e del buon costume”. Gli studenti, dal canto loro, dovevano tenere una condotta irreprensibile, assistere la domenica alla messa e partecipare agli esercizi spirituali: non si trattava di una facoltà, ma di un obbligo, poiché in assenza dell’attestato di frequenza a tali esercizi non si poteva ottenere l’ammissione alla laurea.
Tutte queste prescrizioni, però, non ebbero effetto: nel 1831 Papa Gregorio XVI fece chiudere le Università dello Stato Pontificio, definendole “i centri più infetti di idee sovvertitrici”, e dispose persino che gli studenti non romani studiassero nelle loro città e si recassero a Roma solo per l’esame di laurea.
Nulla poteva però arrestare il moto delle forze più vive della cultura romana verso la libertà e l’indipendenza: a partire dal 1870, l’Università di Roma prese il posto di primo piano nella vita scolastica e culturale dell’Italia unita, venendo poi profondamente riorganizzata in epoca fascista nell’attuale Polo Universitario La Sapienza.
Questa, però, è tutta un’altra storia…
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