Breve storia del Vaticano

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BREVE STORIA DEL VATICANO

Pochi sanno che, agli inizi della sua storia, il Vaticano (da vaticinia, luogo di vaticini) fu un luogo di escursioni o di temporanee adunate, staccato dal corpo urbano più attivo dell’Urbe dalla presenza del fiume Tevere. La terra, tra l’altro, non era buona nemmeno per la viticoltura: Marziale, che lì ebbe una villa, diffamò le vigne lì presenti ammonendo che “se bevi vino del Vaticano, bevi veleno”.

Nei primi anni dell’Impero, il Vaticano fu un luogo residenziale di lusso per due grandi casate romane, I Domizi e i Claudii, che già possedevano gran parte dell’area che si estendeva a levante fino all’attuale Quartiere Prati. Ai piedi del Mons Vaticanus Caligola prima e Nerone poi costruirono il loro circo, che trasformò il Vaticano anche in un luogo di morte, un angolo appartato e silenzioso che accolse le spoglie dei primi pontefici della cristianità. San Pietro, crocifisso probabilmente nel 63 d.C., era stato sepolto qui, ai piedi del Gianicolo, di fronte al circo neroniano che aveva visto il suo martirio, e sulla sua tomba, qualche tempo dopo, per desiderio di Papa Anacleto, terzo vescovo di Roma, era sorta una cappella votiva destinata a divenire meta di sempre più numerosi e folti pellegrinaggi.

I grandi eventi storici dell’antico Vaticano si basavano sempre più sugli assidui e sempre crescenti pellegrinaggi dei fedeli di Cristo nel luogo che aveva visto la morte eroica dei loro protomartiri e dove riposavano, forse trasferite dalle odierne Catacombe di San Sebastiano, le ossa di Pietro. Era in queste occasioni che i Cristinai ritempravano la loro fede, accompagnati da un Episcopo che era per lo più romano (Clemente, Alessandro, Sisto, Zefirino, Callisto, Urbano) ma talvolta greco (Telesforo, Igino, Aniceto): vivevano quasi tutti nel suburbio di Roma, si raccoglievano spesso ad onorare i propri morti nelle catacombe e, all’inizio del IV secolo, poterono godere anche dei loro primi luoghi ufficiali di culto.

Fu infatti il primo imperatore cristiano dell’Antica Roma, ossia Costantino, ad innalzare una basilica in luogo del minuscolo oratorio che alla sua fede e alla sua riconoscenza appariva ormai troppo modesto. A dire la verità, su tale questione leggenda e storia si intersecarono in nodi inestricabili, tanto da far pensare che Costantino fosse guarito dalla lebbra pregando sulla tomba dell’Apostolo e che, proprio in virtù dii questo miracoloso risanamento, fosse stato spinto ad innalzare un ex-voto d’eccezione. Dotata di cinque navate, scintillante di marmi e splendente di mosaici, la nuova basilica giustificava appieno gli esclamativi dei fedeli allorché il 18 novembre 324 d.C., giorno della solenne consacrazione, si offrì al loro stupore in tutta la sua magnificenza. Cinque porte conducevano dall’atrio all’interno del tempio: la centrale era la Porta Regia, ossia la più importante, e la affiancavano la Romana, la Guidonea, la Ravenniana e la Porta del Giudizio, riservata ai defunti.

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Il Vaticano si elevava allora all’estremità di Roma, sulla riva destra del Tevere, ma i Papi risiedevano all’altro capo della città, al Laterano, dove sempre per ordine di Costantino era sorto il Patriarchio, intorno al quale gli alloggi, le dipendenze e i servizi si erano dilatati fino a formare quasi un quartiere. Tuttavia, poiché spesso i pontefici si recavano al Vaticano per la celebrazione di riti liturgici, si impose la necessità che accanto alla basilica dedicata a San Pietro sorgesse un luogo dove poter sostare, vestirsi, riposare e all’occorrenza pernottare, senza contare che anche i guardiani della tomba dell’Apostolo, i cosiddetti “cubicolari”, e i sempre più numerosi pellegrini avevano bisogno di un ricovero che li ospitasse decorosamente. Sorse così un semplice padiglione a sinistra della chiesa e due edifici più vasti a destra, che costituirono il primo nucleo del futuro Palazzo Apostolico.

Per Roma, però, erano ormai iniziati i tempi crepuscolari della fonda notte medioevale: l’Impero d’Occidente si stava ormai spegnendo, emettendo gli ultimi rantoli della sua lunga agonia, mentre scismi e gravi lotte teologiche sconvolgevano anche la Chiesa, come la dottrina degli iconoclasti e l’eresia di Eutichio, che accresceva sempre più le sottili dispute intorno alla natura di Cristo, trascinando i vescovi in ostinate contese. Su Roma intanto si riversavano ondate di barbari: gli Unni di Attila, i Vandali di Belisario, i Goti di Totila, i Longobardi di Agilulfo. Ovunque avvenivano massacri, incendi e devastazioni.

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Ciò nondimeno, anche negli anni più bui e desolati, ci fu sempre qualcuno pronto a ricostruire il Vaticano ogni volta che le spogliazioni lo lasciavano distrutto e vuoto di ciò che secoli di pietà e di offerte vi avevano devotamente accumulato. Papa Ilario l’arricchì di tre nuovi oratori, ricchi d’argento e di pietre preziose. Papa Damaso bonificò le sorgenti del cimitero vaticano che andarono ad alimentare il nuovo fonte battesimale. Papa Simmaco ampliò le scalinate del primo cortile aggiungendogli due portici laterali e fornì la piazza che si apriva dinanzi alla basilica di un pozzo che servì alla necessità del pubblico. Papa Simmaco organizzò inoltre il Vaticano in modo che all’occorrenza potesse accogliere anche per più tempo il Pontefice, la corte e i servizi pontificali, venendo da molti considerato il vero iniziatore di quel grande complesso architettonico che oggi il mondo conosce come la Città del Vaticano.

Nel corso dei primi secoli dalla sua fondazione, però, la zona venne colpita da eventi drammatici e luttuosi. Nel 443, durante il pontificato di Leone Magno, un violento terremoto scosse il Vaticano e la Basilica di San Pietro. Nel IX secolo poi la comparsa dei Saraceni, un nemico nuovo e più temibile di ogni altro, che arrivò a veleggiare con le sue navi veloci fin sotto le mura di Ostia, spinse Papa Leone IV, con l’aiuto dell’imperatore Lotario e i contributi dei fedeli, a cingere la Roma posta sulla riva destra del Tevere di una cerchia di mura possenti: costruite a strati di pietra di tufo e di mattone, alte quaranta piedi, rafforzate da ventiquattro torri di guardia, esse avevano tre porte possenti che permettevano l’ingresso in quella che subito viene chiamata col nome del papa ingegnere, ossia la Città Leonina. Le nuove mura vennero inaugurate il 27 giugno 852: tutti i vescovi, il clero, i monaci, oltra al Papa a piedi scalzi e con la testa cosparsa di cenere, si mossero salmodiando intorno al gran baluardo cospargendolo di acqua benedetta.

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Trascorso il famigerato Anno Mille, l’oscurità della Città Eterna si infittì. Roma divenne poco più di un borgo, circondato di paludi, con le pecore pascolanti tra le rovine, ridotta a poche migliaia di abitanti travagliati da una miseria grande e mal rassegnata. Le famiglie dei baroni se ne contendevano i quartieri a colpi di lotte, agguati e provocazioni che per oltre tre secoli formeranno i profili caratteristici della storia domestica di Roma.

L’aspro dissidio tra Chiesa e Impero, rinfocolando le discordie, offrì dal canto suo nuove occasioni di lotta. Federico Barbarossa, che aveva rifiutato di tenere le staffe al pontefice come invece voleva la tradizione, riversò su Roma il suo esercito. La Città Leonina resistette strenuamente, ma dopo otto giorni le porte vennero abbattute a colpi d’ascia: la mischia avanzò inesorabilmente fino in San Pietro, per concludersi solo sulla tomba dell’Apostolo. Qualche giorno dopo, nella basilica appena ripulita dal sangue, Barbarossa si fece incoronare imperatore dal suo antipapa Vittorio IV. Solo la peste riuscirà a snidarlo da Roma insieme ai suoi alemanni.

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Fortunatamente dopo questa bufera, nel 1198, salì sul trono di Pietro un pontefice di appena 38 anni, aspro, energico e di forte personalità: Papa Innocenzo III. Né le Crociate, né le eresie sempre fermentanti, né lo sforzo politico di portare il potere temporale alla sua più alta e poderosa affermazione riuscirono a distoglierlo dalle cure per la collina del Vaticano, che sotto di lui risorse dalle rovine, abbellendosi nei palazzi e fortificandosi nei bastioni. Anche i ricoveri per i pellegrini vennero ampliati, e tra essi spiccò sempre più l’Ospedale del Santo Spirito, magnifico per l’epoca, affidato a Guy de Montpellier, un maestro della medicina.

Anche Papa Niccolò III, non meno intraprendente del collega Innocenzo III, entrò nella storia come un Papa architetto (anche se Dante Alighieri lo soprannominò “il figliol dell’orsa” e lo relegò senza pietà all’inferno): durante il suo pontificato il Vaticano continuò ad espandersi, acquistando nuovi edifici e soprattutto costruendo il Passetto, il famoso “corridoio di sicurezza” che, unendo il Vaticano a Castel Sant’Angelo, nei secoli successivi più d’una volta offrirà la salvezza ai pontefici minacciati.

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A questo punto, la discrasia fra il Laterano, che era ancora la dimora ufficiale dei Papi, ed il Vaticano iniziava a divenire evidente. All’inizio del XIV secolo, infatti, il Vaticano aveva ormai perso ogni caratteristica di provvisorietà e con la sua Basilica, le sue cappelle, i suoi oratori, il Palazzo Apostolico, le sue torri, i suoi giardini ed i suoi ospizi per i pellegrini costituiva un complesso imponente.

I settant’anni della Cattività Avignonese, però, segnarono però una lunga battuta d’arresto nella sua evoluzione, con Roma abbandonata a se stessa: per ripartire bisognerà attendere il 1377, l’anno in cui Papa Gregorio XI, sensibile ai richiami di una terziaria dominicana, Santa Caterina, abbandonerà finalmente le sponde del Rodano per ristabilirsi su quelle del Tevere. Il Laterano però, devastato da un incendio e in stato di completo abbandono, si presentava inabitabile, sicché venne deciso di installarsi al Vaticano, meno danneggiato e così invitante nella sua calma fresca e ombrosa, nonché adiacente a quel Castel Sant’Angelo che avrebbe potuto rappresentare un’ancora di salvezza in caso di assalto. Fu dunque per una duplice sventura, l’incendio del Laterano e il pontificato di Avignone, a permettere al Vaticano di cessare di essere solo un poderoso santuario per diventare la sede permanente del capo della Chiesa ed il perno stesso della cristianità.

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Papa Gregorio XI, un francese per molti versi debole e indeciso, quando si trattava del Vaticano non conobbe incertezze: si mosse per i suoi domini sempre circondato da schiere di architetti, scultori e pittori i cui lavori tuttavia, sebbene preludessero a quelli mirabili dei Papi rinascimentali, erano ancora improntati all’assillo della difesa più che al gusto delle arti. Che tante precauzioni fossero giustificate lo si comprese in effetti da lì a poco, quando il conclave, il secondo nella storia del Vaticano, si riunì per dare un successore a Gregorio XI. “Romano lo volemo!” urlava la folla minacciosa riunita nelle strade e nelle piazze, e gli schiamazzi giunsero fin nelle celle dei cardinali, quasi tutti francesi.

Venne eletto un napoletano, ma questa concessione alla piazza non migliorò la situazione perché il nuovo Papa, Urbano VI, col suo zelo riformista e il suo carattere imperioso finì per irritare i cardinali i quali, riunitisi ad Anagni, lo proclamarono usurpatore (eletto cioè attraverso l’uso della pressione e della forza) e gli contrapposero un antipapa, ossia Roberto di Ginevra, che prese nome di Clemente VII.

A questo punto, si ebbe un doppio capo della Chiesa. Clemente VII tornò ad Avignone, riconosciuto dalla Francia, dalla spagna e dalla Scozia, mentre Urbano VI restò a Roma, in Vaticano, con l’ossequio degli altri Paesi. Ecco l’inizio del grande Scisma d’Occidente: per quasi mezzo secolo due Papi, reciprocamente scomunicati, uno a Roma, l’altro ad Avignone, si divisero la cristianità. Un tentativo di conciliazione, compiuto a Pisa nel 1409, non fece che aggravare le cose, portando ancor più confusione ed aumentando il numero dei Papi da due a tre.

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In questa triste parentesi storica e religiosa, era naturale che i Pontefici residenti a Roma si preoccupassero quasi esclusivamente di rafforzare le difese del Vaticano, senza dedicarsi in alcun modo all’aspetto decorativo. Eppure, a dispetto di tanta previdenza, nel 1414 ancora una volta la Città Leonina venne messa a ferro e fuoco, stavolta ad opera dell’esercito di Ladislao di Napoli, contrario al Papa di Roma. In San Pietro scalpitavano i cavalli, i soldati mercenari bivaccavano tra le colonne, il muro di cinta aveva ceduto in parecchi punti e di notte i lupi vagavano nei giardini del Vaticano, penetrando nel cimitero e raspando tra le ossa dei morti.

L’elezione di Papa Martino V coincise con la fine dello Scisma e l’inizio del Rinascimento romano: d’improvviso la città si riempì di artisti, pittori, scultori e cesellatori, e gli stessi Papi, incantati da questa rigogliosa primavera classica che faceva scricchiolare e gemere il vecchio albero del Medioevo, furono prodighi di danaro e consigli. Amministratore perfetto, Martino V riparò il Vaticano e ripulì la città sia in senso materiale che figurato: divenne finalmente possibile camminare per Roma senza affondare i piedi nell’immondizia e senza rischiare (troppe) coltellate.

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Se Martino V ripulì la Città Eterna, il suo successore Eugenio IV la abbellì. In pochi anni la Basilica di San Pietro venne straordinariamente arricchita di capolavori: il tabernacolo di Donatello, la cappella del Santo Sacramento affrescata dal Beato Angelico, le sculture di legno policrome di Antonio da Viterbo, nuovi portali di bronzo sui quali il Filarete mostrò tutta la sua impressionante abilità di cesellatore.

Il Pontefice che, assieme a Giulio II, potrebbe essere considerato oggi il padre del Vaticano moderno fu Niccolò V: sotto di lui si iniziò a percepire quella disposizione architettonica che ancor oggi sussiste. Niccolò V fu probabilmente uno dei primissimi Papi a concepire l’architettura come un coadiuvante indispensabile alla fede, comprendendo come la gran massa dei credenti avesse bisogno di corroborare ogni giorno la propria devozione con la visione di monumenti durevoli e testimonianze solenni. Niccolò V fu è il primo ad approfondire la visione del Vaticano come una “Città di Dio” sulla terra: una città materialmente forte per garantire la libertà del seggio apostolico, una città sapiente per assicurare la purezza della fede, una città grande e bella per sviluppare attraverso la magnificenza dei suoi monumenti la pietà del popolo fedele. L’apologetica della bellezza, della grandezza e della durata divennero con lui il fondamento di un vero e proprio sistema di governo. Eccolo dunque restaurare gli antichi monumenti, eccolo porre mano ad una serie di nuove costruzioni, con il Vaticano che avrebbe dovuto primeggiare su tutta Roma in quanto a magnificenza: Niccolò V si mise insomma alla testa dell’Umanesimo e del Rinascimento, favorendo gli studi e le arti e chiamando nell’Urbe artisti rinomati, come Piero della Francesca, il Beato Angelico, Benozzo Gozzoli e Andrea del Castagno.

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Tutto ciò che serviva al culto doveva essere bello e grandioso: ecco quindi i grandiosi piani architettonici di Leon Battista Alberti e Rossellino da Firenze, che completarono questa concezione imponente del pontificato romano. San Pietro doveva essere interamente ricostruita, sovrastata da una gran cupola, inquadrata da una piazza immensa, con una scalinata maestosa per accedere alla basilica e tre larghe strade che portavano alla piazza: ecco il sogno di Niccolò V, la cui idea di ricostruire San Pietro apparve al contempo rivoluzionaria e sacrilega. Era mai possibile pensare di far scomparire la vecchia basilica di Costantino, il più venerabile monumento della cristianità, tenuto in piedi da mille anni di cure amorose, tante volte risorto dalle distruzioni e dalle rovine? Bersagliato di proteste, Niccolò V ebbe qualche incertezza, ma poi si fece coraggio e diede il via ai picconi abbattendo arditamente, fra mille proteste, il muro dell’abside per costruire il nuovo coro.

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L’improvvisa morte del Papa arrestò i lavori, che vennero però ripresi ed ultimati nei secoli successivi. Alla morte di Niccolò V si comprese perfettamente quanto questo Papa, così indifferente alla grandezza personale, avesse servito quella della Chiesa. Prima ancora di salire alla cattedra di Pietro soleva dire “Se fossi papa spenderei tutti i miei danari in libri e monumenti”, e proprio a queste parole tenne fede, una volta eletto, divenendo un punto di riferimento per i pontefici successivi. Questi ultimi, benché assorbiti da gravi preoccupazioni politiche, dalla lotta contro i turchi, dalle discordie italiane e dalle guerre che quasi incessantemente funestavano l’Europa, seppero mantenere ed esaltare il clima rinascimentale con un mecenatismo che bene resse il confronto con quello delle più sontuose signorie italiane come i Medici di Firenze, gli Este di Ferrara ed i Gonzaga di Mantova.

La trionfale marcia della cultura rinascimentale continuò con Pio II, elegantissimo umanista, patito di una biblioteca per la quale acquistò a peso d’oro i documenti più antichi e pregevoli, e col veneziano Paolo II che abbandonò il Vaticano per il palazzo di San Marco trasformato dalla sua passione di collezionista in un museo incomparabile di bronzi, statue, cammei, medaglie e antichità: tutti tesori poi portati in Vaticano dove iniziarono la tradizione gloriosa delle pinacoteche, delle gallerie e dei musei.

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Il Papa d’eccezione della seconda metà del XV secolo fu però un frate francescano, talmente povero che era stato necessario procurargli un alloggio allorché venne fatto cardinale: si chiamava Francesco della Rovere, ed era conosciuto con un teologo di grande purezza d’animo. Fu solo quando venne eletto nel 1471, con il nome di Sisto IV, che egli si offrì a Roma nella sua metamorfosi, rivelando d’improvviso la sua natura di uomo d’azione, imperioso, portato ad affrontare i problemi più temporali del papato, come dimostrato dalle varie guerre intraprese non solo contro i turchi ma contro mezza Italia. Quel quieto bibliotecario conventuale divenne un Papa sfarzoso e pericolosamente nepotista, in grado di cambiare radicalmente la faccia di Roma che, proprio grazie ai suoi sforzi, si ritrovò pavimentata, abbellita di ponti (Ponte Sisto, per l’appunto), palazzi, fontane, mercati, chiese e strade.

Il Vaticano deve ancor oggi a questo vigoroso Pontefice due luoghi fondamentali: la Biblioteca e la Cappella Sistina. A dir la verità, la biblioteca esisteva già, ma fu sotto di lui che i 150 incunaboli raccolti da Niccolò V divennero 3650, sistemati in sale affrescate dal Ghirlandaio e da Melozzo da Forlì, ornate di vetri veneziani, di marmi e soffitti preziosi, aperte agli eruditi che vi trovano pulpiti e armadi intarsiati da Giovannino de’ Dolci. Fu proprio quest’ultimo, secondo gran parte degli studiosi, a ricoprire l’incarico di l’architetto della Cappella Sistina, alla quale diede linee sobrie e robuste essendo, oltre che architetto, anche ingegnere militare, specializzato in fortificazioni come quelle di Ronciglione e Civitavecchia. Toccò a quel punto ad un piccolo esercito di artisti il compito di dividersi la fatica di affrescare la Cappella: tra di essi c’erano i più celebri del tempo, come il Perugino, il Pinturicchio, Sandro Botticelli, il Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, tutti incalzati senza posa dalla foga del pontefice che aveva anche ideato i temi delle loro composizioni, dalle scene della vita di Mosè alle storie di Gesù Cristo, fino ad arrivare all’Assunzione della Vergine.

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A Papa Sisto IV successe un Pontefice più dolce e docile, Papa Innocenzo VIII, il quale legò il proprio nome alla costruzione del Belvedere, una palazzina a forma di torre che sorgeva al limite dei giardini vaticani e che gli serviva da rifugio durante la canicola estiva. Andrea Mantegna, incaricato di dipingervi le Virtù Teologali, essendo il papa parsimonioso e ritardatario nei pagamenti, decise di includervi una virtù nuova, nella speranza che il Pontefice afferrasse il doppio senso. “È l’economia”, spiegò, ricevendo come immediata risposta dal Papa, per nulla imbarazzato: “Se vuoi che ella sia in buona compagnia, mettila vicino alla Pazienza”.

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Se fu con Alessandro VI Borgia, Papa intelligente e sontuoso, che venne decorato il mirabile appartamento intriso di paganesimo voluttuoso negli affreschi del Pinturicchio, toccò a Papa Giulio II far tornare sul soglio pontificio un uomo violento e iracondo più dello stesso Sisto IV, al punto di meritarsi appieno il soprannome di “Papa Guerriero”. Voleva unire tutta l’Italia sotto lo scettro papale, ma al contempo desiderava per sé un mausoleo gigantesco, una tomba degna della Roma Antica, una vera montagna architettonica con più di quaranta statue di dimensioni colossali, il tutto da porsi sotto l’abside di San Pietro per la cui totale riedificazione egli mandò a chiamare senza remore il più celebre architetto del tempo, Donato Bramante. Senza neanche uno degli scrupoli che fecero tentennare Nicola V, Giulio diede ordine di smantellare la vecchia Basilica, demolendone la gloria antica in poche settimane, fino a posare, il 18 aprile 1506, la prima pietra della nuova chiesa. Il Bramante demoliva senza pietà, e a Roma lo si era soprannominato Mastro Ruinante per questa sua predilezione, soprannome in ogni caso ben meno disdicevole del più sgradevole Simia (scimmia) a causa del suo aspetto fisico.

Bramante e Giulio II sembravano nati apposta per intendersi e collaborare: ciò che al Pontefice piaceva particolarmente del suo architetto era soprattutto la ferma volontà di non servirsi dei piani degli architetti precedenti, come il Rossellino, che erano “piani di continuazione” e non già “di ricostruzione”. Il nuovo tempio doveva in realtà essere completamente diverso: immenso, a forma di croce greca, sormontato al centro da una gran cupola. Dinanzi alla basilica si sarebbe dovuto spianare una piazza di ampio respiro, simile ad un’aureola, mentre il Belvedere di Innocenzo VIII sarebbe dovuto essere collegato al Palazzo Apostolico e fuso in un unico complesso in cui si sarebbero spalancati cortili a vari livelli, con grotte, gallerie, scale e fontane, in un’atmosfera di unità e grandiosità.

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Alla morte del Bramante, il Papa si affidò ad un altro grande maestro dal temperamento appassionato, impetuoso, potente e per molti aspetti simile al suo: Michelangelo. Fu una collaborazione feconda ma al contempo irta di contrasti: è ad essa che dobbiamo gli affreschi sulla volta della Cappella Sistina, fatica dalla quale Michelangelo uscì al contempo glorioso e affranto. Era stato lui a concepire la grandiosa epopea dell’umanità dinanzi al Cristo, era stato lui a dipingerla con quel suo straordinario pennello di scultore trasformatosi pittore, ed era stato sempre lui, senza aiuti, a costruirsi l’impalcatura sulla quale visse per quattro anni, librato in aria, a parecchi metri dal suolo, dormendo poche ore per notte, lavorando con la testa rovesciata all’indietro, il collo teso, le vene gonfie dallo sforzo, la fronte e la barba macchiate dai colori sgocciolanti. Ogni tanto Giulio II, stanco della sua lentezza, andava a trovarlo e Michelangelo lo mandava via senza troppa cortesia, facendo infuriare il Pontefice che gridava e giurava di rimandarlo a Firenze, prima di tornare saggiamente a pazientare. Quella faticata pazienza gli diede una delle più forti gioie della sua vita e, quando finalmente poté ammirare l’opera compiuta, restò “trasecolato e mutolo” dall’emozione.

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Intanto, mentre Giulio II istituiva anche il corpo della Guardia Svizzera (la cui uniforme, secondo una tradizione priva di fondamento, sarebbe stata disegnata proprio dallo stesso Michelangelo), il grande rivale artistico di Michelangelo, Raffaello Sanzio, aveva cominciato ad affrescare le Stanze del Vaticano con un successo incomparabile. Aveva appena ventisei anni, e nel poco tempo che gli restava da vivere dipinse le Logge e la Villa Farnesina di Agostino Chigi, progettò Villa Madama, approntò i cartoni per gli arazzi destinati alla solennità della Cappella Sistina, dirigendo persino la costruzione di San Pietro e dominando il regno dell’arte attraverso la fondazione di una Scuola prestigiosissima.

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In questa voluttuosa euforia rinascimentale, del quale fu buon protagonista anche Papa Leone X, si inserì solo per un attimo la nordica austerità di Adriano VI, l’ultimo papa straniero della storia prima di Giovanni Paolo II. Olandese di Utrech, ex precettore dell’imperatore Carlo V, era un sant’uomo avaro e prudente: nei dieci mesi del suo pontificato non si spese un singolo ducato e non si organizzò una singola festa. A lui però successe Clemente VII, cugino di Leone X ed anch’egli membro dei Medici, e l’atmosfera gaudente riprese vigore, meravigliosa ed assai seducente.

Fu proprio lui, purtroppo, a dover vivere in prima persona l’incubo di un tempo funesto. Roma, ormai smemorata delle devastazioni che l’avevano annientata oltre mille anni prima, si risvegliò di colpo destata dal clamore dei Lanzichenecchi di Georg von Frundsberg, il terribile protestante che portava appesa al collo una collana di ferro con cui si proponeva di strangolare il Papa. Il sacco del 1527 fu il più terribile di tutti i sacchi della storia di Roma: uomini uccisi, donne violentate, bambini torturati, chiese profanate.

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Scemato il periodo di “lutto” e passata la buriana, venne eletto al soglio pontificio Paolo III, un Farnese di natura fastosa. I lavori ripresero di buona lena, e per la Cappella Sistina fu confermato l’ormai attempato Michelangelo, il quale affrescò sul muro di fondo il suo splendido Giudizio Universale. L’opera era di una inaudita audacia, con quasi tutti i personaggi presentati nella più assoluta nudità, dettaglio che scatenò la furia delle eminenze cardinalizie. Un giorno Biagio da Cesena, gran maestro delle cerimonie, disse al Papa che giudicava tutto questo molto sconveniente in un luogo tanto solenne: pareva, soggiunse, una pittura adatta a decorare una sala da bagno o un albergo. Allora Michelangelo fece a memoria il ritratto di Biagio non appena questi fu uscito e lo rappresentò nell’inferno, sotto le spoglie di Minosse, con un serpente arrotolato intorno alle gambe, fra una montagna di demoni.

Il cardinal Biagio non fu il solo, comunque, a trovare indecenti le pitture di Michelangelo: l’Italia stava diventando sempre più moralista e non era lontano il tempo in cui il Veronese sarebbe stato tradotto dinanzi all’Inquisizione per la scostumatezza della sua Cena in casa di Simone. Chi gridò più forte contro il Giudizio Universale fu Pietro l’Aretino, ma Michelangelo non si scompose: non disse nulla quando la sua opera fu giudicata “una porcheria luterana”, non disse nulla quando Papa Paolo IV dichiarò di voler distruggere l’affresco, e non potè dire nulla (era morto da poco più di un anno) quando per ordine papale Daniele da Volterra rivestì i suoi personaggi (meritandosi per tale operazione il nomignolo di “Braghettone”). A chi gli chiese il suo parere su tutte queste polemiche insorte per il suo Giudizio Universale, rispose senza collera: “Dite al Papa che questa è piccola faccenda e che facilmente si può acconciare: che acconci egli il mondo, ché le pitture si acconciano presto”.

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Occupato in tante opere, Michelangelo non ebbe più tempo di dedicarsi al famoso monumento funerario di Giulio II: del bel progetto iniziale infatti restava soltanto la statua del Mosè, che ne divenne il centro simbolico mentre probabilmente avrebbe dovuto esserne solo un particolare.

Terminati gli affreschi della Sistina, Michelangelo credette di avere finalmente diritto al riposo, ma l’insaziabile Paolo III volle che dipingesse anche la Cappella Paolina, e poi gli ordinò di dedicarsi alla Basilica di San Pietro, rifacendo completamente i pilastri e progettando la cupola gigantesca, la più maestosa di Roma: la morte colse Michelangelo senza averla potuta compiere, ma il Buonarroti lasciò però piani tanto precisi che gli architetti suoi successori non fecero fatica a portarla a termine.

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Si era giunti intanto alla fine del XVI secolo. Durante il suo breve pontificato, Papa Sisto V diede grande impulso alla razionale trasformazione edilizia di Roma, ma al contempo ci si rese conto di come l’epopea dei grandi artisti sembrava essersi offuscata con la morte di Michelangelo, volgendo ad una lenta ma inesorabile decadenza. Quantomeno, nella primavera del 1590, i romani poterono contemplare rapiti la cupola di cui un giorno Stendhal avrebbe detto che “fa battere il cuore quando la si vede di lontano”, mentre nella piazza svettava ormai il grande obelisco fatto erigere proprio dal tosto Papa marchigiano per mezzo del suo pupillo architetto, Domenico Fontana.

Il compito dei successori di Sisto V consistette soltanto nel rifinire e mettere a punto: Papa Clemente VIII sopraelevò il Palazzo Apostolico di un terzo piano e riordinò la biblioteca, mentre Papa Paolo V allungò la basilica, che cessò d’essere a croce greca per diventare a croce latina, e le diede una facciata gigantesca progettata dall’architetto Carlo Maderno. Ormai della vecchia chiesa di Costantino non restava più nulla, nemmeno un approssimativo ricordo.

Nel frattempo, a Roma cominciava ad imperversare il barocco. Bernini, aiutato dal suo grande rivale Borromini, installò nella grande navata un enorme baldacchino bronzeo sostenuto da colonne tortili, tra le cui spire giocano ancor oggi, putti paffuti, e nell’abside la celebre Cattedra, dove tra ondeggianti drappi di bronzo si agitano serafini e dottori della Chiesa.

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La piazza si arricchì poi del famoso colonnato, probabilmente la più alta espressione del genio architettonico berniniano, ideato non solo per dare un degno vestibolo al più gran tempio della cristianità ma anche per proteggere i pellegrini dalla pioggia e per completare la visione simbolica della Basilica che vedeva nella cupola la testa di Dio, nella facciata il corpo di Dio e nelle due ali del colonnato le braccia di Dio, pronte a stringere i fedeli accorsi al suo cospetto. ecco quindi sorgere un’immesa piazza ellittica, con 285 colonne e 88 colossali pilastri.

Nel XVIII secolo, il Vaticano continuò ad arricchirsi. Il Museo del Belvedere e quello Pio-Clementino si popolarono di inestimabili capolavori. Pio VII fondò la Pinacoteca, Gregorio XVI il Museo Etrusco. Poi però, in quel 20 settembre 1870, sopraggiunse la breccia di Porta Pia, che fece cambiare tutto, d’improvviso: alle 5.10 del mattino, i cannoni tempestarono le mura fra Porta Salaria e Porta Pia, aprendo una breccia di una ventina di metri, mentre le batterie pontificie furono ben presto costrette a cessare il fuoco. Alle 8.45 l’attacco si estese a porta del Popolo, a Trastevere, a Porta San Pancrazio e al Casino dei Quattro Venti. A quel punto, il Comitato di Difesa Pontificio diramò l’ordine di innalzare la bandiera bianca sulla cupola di San Pietro.

Incominciò allora una lunga e grigia fase stoirca, contrassegnata dalla definizione di Questione Romana, con la volontaria prigionia del Pontefice nei Palazzi Apostolici, con una risentita ostilità della Chiesa contro lo Stato italiano e con una periodica affermazione delle pretese pontificie su Roma. Nessuan delle due parti, in realtà, credeva alla possibilità di un ritorno allo “status quo ante”. La soluzione, in fondo desiderata da tutti, si trovò nei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, che posero fine (forzatamente) al disagio: alla Santa Sede venne lasciata la piena sovranità sulla Città del Vaticano, a cui si legava anche la residenza di Castel Gandolfo, neutrale ed inviolabile. 

A quel punto, il Vaticano si preoccupò soprattutto di restare al passo coi tempi: ed ecco il telegrafo, la radio, il telefono, una nuova tipografia, una stazione ferroviaria. Il Vaticano divenne nei decenni uno Stato universalmente riconosciuto, in grado di accreditare rappresentanti diplomatici, di ricevere visite di sovrani e governatori e soprattutto di far sentire con grande solennità la propria voce nel mondo, anche attraverso le parole del Santo Padre.

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Da questo sforzo nacque il Vaticano, un complesso unico al mondo ed inimitabile, fatto di aggiunte a volte minime e a volte colossali, ancor oggi evidenti testimonianze di un passato pervaso da una straordinaria e commovente volontà di vivere al servizio degli uomini e al tempo stesso sopra di essi.

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