Catullo e Lesbia

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CATULLO E LESBIA

La Roma in cui Gaio Valerio Catullo mise piede per la prima volta, nel 62 a.C., era una città invasa dall’oro dei colossali bottini strappati all’oriente mediterraneo, sempre più sorda alle rare voci che ancora citavano ad esempio le virtù dei maiores e sempre più cedevole alle lusinghe di un vivere molle e spregiudicato.

Sulla base della documentazione più attendibile, Catullo aveva all’epoca ventidue anni e fino ad allora aveva diviso il proprio tempo tra la domus di Verona, da secoli appartenente alla Gens Valeria, e una deliziosa villa in riva al Lago di Garda, proprio sulla punta di Sirmione. Probabilmente, nella mente dei suoi genitori, il viaggio nell’Urbe doveva essere propedeutico ad una rapida carriera politica o ad una brillante gloria forense, ma nell’animo di Catullo era sempre più acceso il desiderio di scalare il Monte Parnaso, sedendovi comodamente tra i cori osannanti delle Muse.

In realtà, l’attività a cui Catullo si dedicò una volta arrivato a Roma non fu propriamente “culturale: la metropoli brulicante e chiassosa, le feroci lotte forensi, il lusso smaccato dei quartieri aristocratici, la sordida e corrotta miseria dei vicoli malfamati della Suburra costituirono immediatamente per lui, avvezzo al quieto e sornione conformismo della provincia, novità troppo accattivanti per non gettarsi a capofitto alla scoperta delle stesse. I mezzi finanziari, d’altronde, non gli mancavano: acquistò quindi una piccola casa in centro e una piccola villa di campagna sui Colli Albani, gettandosi con tutta la curiosità e l’avventata baldanza della sua giovinezza, nell’esistenza irregolare della Città Eterna, tra facili amori mercenari e notti nelle taverne.

In questa sua capillare scoperta dei segreti dell’Urbe, Catullo scelse quasi subito di aggregarsi ad una compagnia di quei giovani intellettuali, seguaci della nuova estetica alessandrina, che i vecchi poeti e letterati definivano “neoteroi” e che Orazio dileggiava accanitamente nelle sue satire come arrivisti senza talento. Furono loro a presentare il nuovo arrivato in casa di Quinto Cecilio Metello Celere, personaggio politico di un certo rilievo talmente interessato alla res publica da trascurare le sue faccende private, e precipuamente sua moglie Clodia.

Quest’ultima, per consolarsi, iniziò a tenere una sorta di salotto letterario: tutti i suoi contemporanei la descrivevano come bellissima, colta, intelligente, raffinata, elegante, dotata di grande stile e di un seducente pizzico di snobismo. Attorno ad essa, nella sua domus sul Palatino o nella sua villa di Baia, durante la passeggiata al Foro o durante le abluzioni alle terme, si raccoglieva una folta schiera di giovani di brillanti speranze e di uomini più attempati ma con qualche gloria al loro attivo: Cornelio Nepote, Asinio Pollione, Elvio Cinna, Licinio Calvo, Manlio Torquato, tutti noti alla storia letteraria, si mostravano evidentemente sensibili al suo fascino, corteggiandola più o meno spudoratamente. Perfino Cicerone, con tutta la sua autorità di uomo pubblico, proclamato Pater Patriae appena un anno prima al tempo della congiura di Catilina, mostrava di ammirarla e lodarla con eccessivo calore, per lo meno a giudizio di Terenzia, la sua gelosissima consorte.

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Agli occhi di Catullo, però, quella splendida donna aristocratica, appartenente alla nobilissima Gens Claudia e discendente diretta di Appio Claudio il Cieco, sul cui conto correvano molti pettegolezzi circa la sua facilità ad avventure extra-coniugali e perfino circa alcuni suoi torbidi rapporti con il fratello Clodia, rappresentò subito qualcosa di molto più importante di un’avvenente donna da corteggiare e magari da conquistare: Clodia divenne ben presto ai suoi occhi la quintessenza della  femminilità, con tutte le sue attrattive, il suo mistero, la sua peccaminosità ed i suoi veleni.

Lesbia è bella perché è bellissima tutta: ha rubato ogni grazia a tutte le fanciulle”, scriverà poco dopo, regalandole quel nome carico di antiche e preziose memorie poetiche, sotto il quale per secoli resterà celata la sua identità vera.

Lei, di dieci anni più anziana e forte quindi di una certa esperienza, non tardò certo ad avvedersi dell’amore acceso in petto al giovane poeta. Mentre lui non osava parlare e traduceva odi di Saffo, cercandovi riflessi del suo stesso sentire, mentre già “ardeva come la rupe Trinacria e la Fonte Malia alle Termopoli, e i suoi mesti occhi non cessavano di struggersi in assiduo pianto”, lei doveva certamente seguire con compiacimento la sua crescente passione, già pregustando la piacevole avventura: quel poeta biondino, poco più che ventenne, appena giunto dalla provincia, ancora con tutto l’impaccio e la timidezza della severa educazione ricevuta, malgrado la spavalderia volutamente ostentata, le prometteva infatti qualcosa di nuovo e di vivo, ben diverso dai troppi amori superficiali e distratti a cui si era indirettamente abituata.  

Quando infine Clodia decise di concedersi all’appassionato spasimante, seppe perfettamente come comportarsi per fargli perdere la testa e non deludere quell’immagine di lei che il giovane Catullo aveva costruito nella propria mente, recitando mirabilmente la parte di “Lesbia”: assunse quindi con lui atteggiamenti ingenui e piuttosto infantili, fingendo scrupoli e timori per il giudizio della gente (Catullo la consolava scrivendo “Lascia mormorare i vecchi, le loro parole valgono non più di una moneta fuori corso”) e recitando puntualmente la parte della moglie per bene che, cedendo a una travolgente passione, doveva però salvare le apparenze. L’inesperto Catullo, che prendeva per buona tutta questa sceneggiata, se ne compiaceva con frasi del tipo “Quando tuo marito era presente, o amor mio, tu parlavi male di me. Ciò gli faceva tanto piacere. Ma che balordo!”.

Ad un certo punto, Catullo decise di rivolgersi anche ad un suo fidato amico, Allio, al fine di ottenere il nome di una compiacente signora disposta ad ospitare la coppia clandestina. Forse, di fronte alla sincerità del giovane, ad un tratto anche Clodia parve trovare per qualche momento un autentico trasporto, magari credendosi davvero innamorata, proprio mentre il giovane scambiava per incontenibile passione ciò che nella donna era probabilmente poco più di un gioco erotico. Catullo mostrava talvolta accenti di struggente tenerezza, chiedendole baci senza fine con l’insistenza di un gioco infantile: “Tu mi domandi, o Lesbia, quanti dei tuoi baci mi bastino e mi siano d’avanzo? Quanti sono i grani di sabbia della Libia, quante sono le stelle che, nella notte silenziosa, guardano i furtivi amori degli uomini. Tanti baci tu devi dare a questo pazzo di Catullo”.

La felicità del giovane poeta perse progressivamente ogni misura: sentiva infatti il bisogno di proclamare a gran voce il proprio amore, con gioia proterva e baldanzosa volgarità, evidenziando il proprio disprezzo per tutte le altre donne, considerate brutte, scialbe, tozze, grossolane e sgraziate a paragone della sua Lesbia.

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Tale felicità ebbe però breve durata, tanto da sbigottire lo stesso Catullo di fronte ai suoi tira e molla, lasciandolo incredulo di fronte a questa improvvisa volubilità, di cui non riusciva a tenere il tempo. Catullo non riusciva a capire che Clodia, dissoluta amatrice dal cuore piuttosto arido, non poteva certo restare a lungo fedele a un solo uomo, tanto meno se quest’ultimo fosse stato perdutamente innamorato in maniera totale e esclusiva; le dichiarazioni del giovane poeta avevano iniziato ad annoiarla, mentre la sua gelosia aveva iniziato a starle stretta.

Catullo, però, non riuscì a farsene immediatamente una ragione: troppo recente era il ricordo delle carezze e delle promesse di lei, perché potesse credere che tutto fosse finito. Il giovane poeta decise a questo punto di mostrarsi all’altezza della situazione, sfottendo ironicamente gli altri corteggiatori e fingendo una certa indifferenza: “Addio! Catullo è ormai ben deciso e resiste e non ti pregherà più. Ma sarai tu a pentirti quando non ti sentirai più pregata. Ahimè per te, ingrata! Che vita sarà la tua? Chi ti amerà come me? A chi sembrerai bella come sembri a me? A chi darai i tuoi baci, a chi morderai con i tuoi baci le labbra? A quel cafone di Celio, che può profumarsi finchè vuole ma puzza sempre? O a quell’immorale di Gellio, citato in giudizio per incesto?”.

L’ironia di Catullo, con un linguaggio talvolta sboccato, sfociò progressivamente in un riso amaro, contorto come una smorfia di dolore: il giovane poeta cominciava ormai a conoscere il vero fondo di quella società romana corrotta e superficiale, mettendo all’interno di questo maleodorante calderone anche la stessa Clodia, abbandonatasi all’onda della sensualità con una totale assenza di scrupoli, fra distratta leggerezza e frigida incapacità di affetto. Così quando lei, con la stessa svagata volubilità con cui l’aveva lasciato, tornò da lui, Catullo dopo la prima esplosione di gioia (“Lesbia, tu torni qui tra le mie braccia. Oh giorno luminoso! Che duri in eterno!”) non riuscì mai più a ritrovare la stessa fiducia provata in precedenza: “Che non sarà mai di nessun altro, dice la mia donna, soltanto mia, dovesse tentarla pure Giove. Dice: ma ciò che donna dice ad un amante, scrivilo nel vento o in acqua che va rapida”.

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Catullo giunse persino a comprendere che Clodia, peccatrice sfrenata ed impenitente mentitrice, le sarebbe rimasta per sempre nel cuore, a dispetto di tutto, e si forzò a scendere ad avvilenti compromessi: “La donna è desiderosa di cambiar compagnia. Vediamo quindi di ragionare, o Catullo: Lesbia non è mica tua. Lesbia appartiene a Metello. Lesbia ha poi tradito Metello per te, e ora tradisce te per altri. Ma ragioniamo con calma, o Catullo. Anche Giove, in fondo, tradiva Giunone. A questo, Lesbia, per tuo e per mio amore, mi sono ridotto, e perduto è il mio onore: non potrei più volerti bene, anche se tu diventassi una donna onesta, né potrei cessare di desiderarti, anche se diventassi più spudorata di quello che sei”.

Nel 59 a.C., però, accadde un evento in grado potenzialmente di modificare in modo radicale la situazione: morì infatti Cecilio Metello Celere, e per tutta Roma iniziò a circolare con insistenza la voce che fosse stata proprio Clodia a spedirlo nell’oltretomba grazie ad una corposa dose di veleno, per liberarsi dì quell’incomodo controllore delle sue sregolatezze. Vera o falsa che fosse questa notizia, quel che certamente si verificò fu che, dopo la morte del marito, essa non conobbe più freni: orge sempre più scatenate, tra ospiti di qualità sempre più dubbia, avevano ormai luogo ogni sera in casa sua, tra fiumi di vino Falerno.

“La mia Lesbia, quella famosa Lesbia, quella Lesbia che Catullo amava più di se stesso, più di tutto, ora per gli angiporti e i quadrivi scortica i magnanimi nipoti di Romolo”, piangeva il poeta, senza avere però la forza di rifiutare le briciole della sua lussuria che Clodia di tanto in tanto gli concede. “Figlia di una leonessa sei, hai un cuore di pietra, ma come sei bella!” sospirava furioso ma più innamorato che mai. “La odio e la amo. Se vuoi sapere perché, non lo so dire. È così, è un martirio”.

Tra tutti coloro che approfittarono di Clodia, il più celebre e denigrato fu senza dubbio Celio Rufo, tanto che la loro relazione finì addirittura in tribunale, durante un clamoroso processo in cui lei lo accusò di averle estorto danaro e di aver persino tentato di avvelenarla. Difensore di Rufo fu il celebre Cicerone: è stato proprio il famoso avvocato a lasciarci il ritratto più crudo e perverso di questa “matrona non solo nobile, ma largamente famosa, che lascia aperte le porte di casa sua, pronta a ricevere chiunque si presenti, e che all’aspetto, al linguaggio, agli sguardi, a tutto il comportamento, pare non una meretrice, ma una sfacciata meretrice. Parlerei con maggior veemenza di lei se non esistessero vecchie ruggini tra me e suo marito, scusate, volevo dire suo fratello, mi sbaglio sempre; il fratello che tanto l’ama e che, forse per timidezza, o per qualche paura notturna, da giovinetto, così spesso dormì con lei, sua sorella maggiore…”.

Una simile arringa fu troppo anche per Catullo, che si decise finalmente a rompere un rapporto che per lui da tempo significava solo sofferenza e degradazione: “Non c’è altra cura che estirpare dalle viscere questo amore, ma è difficile liberarsi di un male così invecchiato. Oh, buoni dei, ora non vi domando quello che vi domandavo un tempo, ossia che lei mi amasse, oppure quello che nemmeno voi potete fare, ossia che a lei venga in mente di essere una donna onesta. Vi chiedo solo di farmi guarire da questo orribile male. Liberatemi di lei, di questo male d’amore”.

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Il rimedio migliore fu quello di andarsene, mettendo mari e terre fra sé e le sue memorie, seguendo il Propretore Memmio in partenza per la Bitinia: questo viaggio, nelle sue previsioni, gli avrebbe anche permesso di ricostruire in parte il proprio patrimonio, in cui la sua vita disordinata e l’amore di Clodia avevano aperto falle preoccupanti. In realtà, in occasione del suo ritorno nel 55 a.C., le sue finanze non mostrarono alcun decisivo miglioramento, tanto che lo stesso Catullo scherzò parecchio con i propri amici circa la sua “borsa gonfia di ragnatele” e sul fatto di poter invitare a pranzo solo se essi si fossero portati cibi, bevande e perfino stoviglie. Tali versi ironici, però, mostravano con tutta evidenza come ad essere migliorate fossero le condizioni del suo cuore, dopo la forzata lontananza da Clodia.

Come nella più classica delle vicende amorose, sulla base del brocardo secondo cui in amore vincerebbe chiunque fugga, fu a questo punto proprio Clodia a rifarsi viva. Impossibile dire se si trattasse di un improvviso risveglio di fiamma o più probabilmente del risentimento di una donna incapace di sopportare di essere stata abbandonata. Catullo, però, non si lasciò più irretire dalle sue lusinghe: “Che si goda i suoi trecento amanti, dei quali nessuno ama, mentre a tutti schianta le reni”. L’unica cosa che egli avrebbe voluto riavere da lei era solo la piccola collezione di suoi manoscritti che lei ha trattenuto, e quando Clodia rifiutò di restituirglieli, forse come ultima sterile vendetta, allora Catullo l’insultò senza misura, chiamandola “sporca sgualdrina”, con una violenza ed un rancore in cui forse c’era ancora una traccia d’amore.

Catullo, però, volle autoconvincersi di non avere più alcun rimpianto: “La nostra Lesbia, da noi tanto amata, non è esistita. Non esiste. Oppure è morta, e la sua bara sta dentro il nostro cuore”.

Pochi mesi dopo, una vera bara accolse le spoglie del poeta ormai quasi trentenne. Ci restano di lui 116 Carmi, la memoria di una donna amata per un’intera (seppur breve) vita ed una leggendaria serie di dolorose passioni amorose, espresse in maniera vigorosa ed immediata, con grande modernità.

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