LE OTTOBRATE ROMANE
Le ottobrate romane, per dirla con parole semplici ed in modo sin troppo sommario, erano la festa del vino, una sorta di parenti moderne degli antichissimi Baccanalia, i misteri dionisiaci celebrati tra balli e canti a ottobre (mese consacrato alla vendemmia) in onore di Bacco. Si trattava di celebrazioni dal carattere vagamente selvaggio, con le Baccanti ricoperte da pelli di pantera o lupo e i capelli sciolti adorni di pampini e edera, che spesso sfociavano in riti orgiastici.
Queste cerimonie pagane si trasformarono progressivamente, nella Roma cristiana e pontificia, in spensierate feste popolari tra le vigne suburbane e le osterie fuori porta: si organizzavano tendenzialmente alla domenica, partendo dai diversi rioni della città a piedi o sulle carettelle, le carrozze tirate da due focosi cavalli bardati di tutto punto e tintinnanti di sonagliere.
Era un’occasione perfetta, per ragazze e donne ancora nubili, per mettersi in mostra. Le popolane si pavoneggiavano sulle sgargianti carettelle, in gruppi variabili fra le 7 e le 9 passeggere, come mostrato dalle incisioni di Bartolomeo Pinelli: alcune si posizionavano troneggianti sul mantice, quattro o cinque nella parte centrale della vettura e una, solitamente la più bella, accanto al vetturino.
Le ragazze poste sul mantice avevano il fondamentale compito di intonare gli stornelli accompagnandosi al suono di un grande tamburello, e le altre quello di ripeterlo a gran voce. Di solito il tema della canzone era un fiore, con esempi del tipo “Fiore de lino / è la più bella accanto ar vitturino!” oppure “Fior de mortella / l’occhio ve’ brilla, la Appia ve’ parla, / er sole fa co’ voi ’ni cornarella!”, cantavano lungo la strada gli uomini, anche loro vestiti a festa sulle carrozze affiancate alle carettelle. Giuseppe Baracconi, nel suo testo Rioni di Roma, scrive: “Fanno l’impressione di ceste di fiori, tanti ne portano uomini e donne sui cappelli, sul petto, e i cavalli sulle testiere e pei finimenti. Colpisce ne’ sopravvegnenti la maschia bellezza del tipo; arie di visi statuariamente serene; pose da museo: un piglio risoluto, e tutt’assieme un fare da gran signori, cui danno credito i broccati, i velluti, i monili dell’abbigliamento”.
Durante le ottobrate romane, donne e uomini ostentavano uno sfarzo singolare: le donne portavano un cappello di feltro da uomo a forma di bombetta, coronato di fiori e piume erette come su un cimiero, da sotto il quale uscivano vezzosi boccoli. L’abito di seta era variamente colorato, con un’ampia gonna di seta che arrivava fino al collo del piede e un giacchino di velluto chiuso intorno al collo da due borchie d’argento, che lasciava vedere dai lembi aperti sul petto il busto colorato. Il tutto era spesso accompagnato da un grande scialle che scendeva dalle spalle lungo il collo ricoperto di catene d’oro massiccio e cadenti sul seno, facendo pendant ai lunghi orecchini carichi di grandi perle.
Anche gli uomini non erano da meno: dal cappello a cono, con la tesa sinistra rialzata con fiori e penne di cappone, alla giacca di velluto, dal panciotto di seta corto con bottoni d’oro ai calzoni di velluto fino al ginocchio. Ovviamente, ognuno di loro impugnava gli strumenti necessari per i canti ed i balli, ossia i mandolini e i calascioni.
Un ritrovo classico delle ottobrate era Testaccio, che sulle mappe dell’epoca era evidenziato con il nomignolo “prati del popolo romano”. A tale riguardo, si esprime con chiarezza Giggi Zanazzo: “Siccome Testaccio sta vicino a Roma, l’ottobbere ce s’annava volontieri, in carozza e a piedi. Arivati là se magnava, se beveva quer vino che usciva da le grotte che zampillava, poi s’annava a ballà er sartarello o sur prato, oppuramente su lo stazzo dell’osteria der Capannone o se cantava da poveti o se giocava a mora”. Da tale breve cronaca, pare ancor oggi evidente che il vino scorresse a fiumi, per annaffiare zuppe di trippa di vitella, stufati di manzo, cosce d’abbacchio e pizze con aglio pepe e alici.
I giochi delle ottobrate romane erano quelli abituali d’osteria, ma un po’ per il fatto di essere all’aria aperta ed un po’ per l’allegria causata dal consumo alcolico, quello che scatenava maggiormente la comitiva era il ballo, in particolare il saltarello, accompagnato dal suono di mandolini, calascioni e tamburelli. Il saltarello è stato definito dal alcuni scrittori romaneschi come “una mimica di dichiarazione d’amore: saltando e girando l’uno attorno all’altro, i ballerini esprimono in successione la passione che fingono di avere, il desiderio di piacere, la gioia o la tristezza, la gelosia o la disperazione. Infine l’uomo mette un ginocchio a terra per implorare la sua cara, che si accosta a lui sempre ballando; quando lei s’inchina con un sorriso, come per invocare un bacio, lui si rialza contento, e dopo qualche altro passo vivo e leggero il ballo ha termine”.
Il ritorno in città era ancor più movimentato e chiassoso della partenza, quale logica conseguenza del vino ingerito. Scrive ancora Giggi Zanazzo: “La sera s’aritornava a Roma ar sono de le tamburelle, de le gnacchere e de li canti. E tanto se faceva a curre tra carozze e carettelle che succedevano sempre disgrazzie”. Insomma, qualche volta a fine scampagnata rischiava di scapparci anche qualche morto.
In un dipinto ad olio del 1839, conservato nel Museo Thorvaldsen di Copenaghen, intitolato “La festa delle ottobrate”, il danese Wilhelm Marstrand rappresenta perfettamente la comitiva di uomini e donne che tornano a piedi dalla scampagnata: c’è chi seguita a ballare il saltarello, chi suona, chi fa luce con la torcia nel crepuscolo. In fondo si vedono i colli Albani, ma il gruppo è già presso le mura e, in secondo piano, c’è un’osteria. Il chiasso si farà ancor più indiavolato entro le mura, e tra i vicoli oscuri sarà assai probabile un improperio di troppo, con seguente scoppio di una rissa e fuoriuscita dei coltelli.
In occasione delle ottobrate romane, le famiglie dovevano mettere in preventivo un corposo aumento delle spese, considerato che non partecipare alla scampagnata poteva rivelarsi una ignominiosa vergogna per la famiglia stessa, che sarebbe stata oggetto di chiacchiere e sberleffi fino a fare una vera figuraccia. Così spesso le famiglie erano costrette a ricorrere ai “gobbi”, ovvero agli addetti del Monte dei Pegni, per realizzare il denaro necessario.
Chi non aveva niente da impegnarsi, e comunque non aveva soldi per pagare l’osteria fuori porta, festeggiava l’ottobrata in città, magari improvvisando il saltarello nello slargo davanti casa. Tutti ovviamente vivevano queste giornate con la segreta speranza che la famiglia Borghese aprisse al pubblico la propria villa, “con immensa soddisfazione del popolo che aveva modo di sollazzarsi, senza spesa, e senza abbandonarsi a bagordi. Quivi nella piazza di Siena si davano feste popolari a spese del proprietario della villa. Quelle radunate numerose di popolazione tutta disposta sulle gradinate e sul piano inclinato intorno al circo, ricordavano le feste dell’Ippodromo di Bisanzio o del Circo Massimo di Roma antica. Poi sul lago, che sta nella parte riservata della villa, scorrevano graziose barche con musiche e cori, e si vedeva cacciare anitre, o far giuochi di altre specie”. Naturalmente anche qui alla fine sbucavano mandolini, calascioni e tamburelli per il saltarello, anch’esso più casto e meno sfrenato: l’ospitalità imponeva infatti precise regole di perbenismo ai poveri popolani, facendo capire come la vera ottobrata romana fosse altrove.
Le celebrazioni vagamente profane delle ottobrate romane si trasformarono, col passare dei decenni, in celebrazioni dal carattere vagamente più sacro, come ad esempio le processioni all’ Annunziatella la prima domenica di maggio o al Divino Amore il giorno successivo alla Pentecoste. Per usare un modo di dire particolarmente adatto alla situazione, “amore di vino e divino amore”.
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