Il Concilio di Trento (terza parte)

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IL CONCILIO DI TRENTO (TERZA PARTE)

Il presente articolo conclude la trattazione delle vicende inerenti il Concilio di Trento. La prima parte e la seconda parte dell’articolo possono essere consultate sempre sul Blog di Rome Guides.

Il trasferimento del Concilio a Bologna colse in contropiede l’Imperatore Carlo V il quale tuttavia, da vecchia volpe qual era, scelse di sfruttare a fondo l’incidente per assicurarsi il controllo sull’assemblea, ribadendo al gruppo dei tredici prelati dipendenti da lui, capeggiato dal cardinal Pacheco, il divieto di lasciare Trento.

Il conflitto tra Paolo III e l’Imperatore assunse improvvisamente proporzioni drammatiche. Ricevendo a Plauen il nunzio Verallo, il 14 aprile 1547, Carlo V diede in escandescenze contro il Pontefice: “Non pensa che a prolungarsi la vita, ad innalzare la sua stirpe, ad accumulare denaro. Lo conosciamo, è un vecchio ostinato, che lavora alla rovina della Chiesa. Quelli che volevano sottomettersi a un Concilio riunito a Trento adesso hanno un ottimo pretesto per rigettare un Concilio di Bologna. Ma noi sappiamo fin dove va la nostra autorità, e che ci spetta in qualità di Imperatore assicurare la libertà del Concilio, che lui lo voglia o no. Se è necessario manderemo i vescovi non solo a Bologna, ma persino a Roma, e ce li accompagneremo personalmente”.

L’Imperatore stava riprendendo in quei giorni la sua campagna contro i protestanti: la dichiarazione di Plauen aveva avuto luogo durante la marcia contro l’elettore di Sassonia, Giovanni Federico. Dieci giorni dopo, il 24 aprile, Carlo V piombò inatteso sul campo del nemico presso Muhlberg: più che una vittoria, fu un annientamento dell’avversario, con 2.500 morti fra i ribelli e solo 50 caduti imperiali.

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La notizia del clamoroso successo fece grande impressione a Roma, dove era in atto un vasto lavoro diplomatico per accrescere il numero dei partecipanti al Concilio. Infatti, alla IX sessione del 21 aprile 1547 a Bologna, si trovarono riuniti, oltre ai legati pontifici, solo 34 Vescovi, tanto da far concludere l’assemblea con un nulla di fatto, limitandosi a fissare la sessione seguente per il 2 giugno. Era chiaro che la scarsezza dei partecipanti avrebbe costituito un grave motivo d’incertezza al momento della definizione delle dottrine.

Per affrettare la soluzione della crisi, furono riprese le trattative con il nuovo rappresentante imperiale a Roma, Diego Iurtado de Mendoza. L’accordo fu raggiunto su due punti base: innanzitutto, l’assemblea sarebbe stata nuovamente trasferita a Trento (o in altra città vicina, sempre in territorio tedesco), a patto i che i prelati dissidenti facessero di atto di formale sottomissione, riunendosi ai colleghi di Bologna. In aggiunta a ciò, l’Imperatore si sarebbe impegnato a fare accettare agli stati germanici le decisioni del Concilio.

TRA MORTI E OMICIDI

Si decise di presentare questo progetto d’accomodamento a Carlo V in quale però, il 4 luglio a Bamberga, respinse tutte le proposte con un secco rifiuto, deciso altresì a sfruttare la propria posizione di vantaggio: il 1547 era difatti un anno particolarmente fortunato per lui, visto che aveva eliminato due pericolosi avversari come il re d’Inghilterra Enrico VIII e l’eterno nemico, Francesco I di Francia. Sul trono inglese sedeva ora un fanciullo di dieci anni, traviato da una banda di politicanti senza scrupoli, e su quello francese l’ambiguo ed irresoluto Enrico II.

L’Imperatore, deciso a sistemare una volta per tutte le questioni religiose secondo le proprie vedute, indisse per il settembre 1547 la Dieta dell’Impero ad Augusta. A quel punto iI Pontefice, per scongiurare la rottura, comandò ai Padri di Bologna di prorogare a tempo indeterminato la sessione indetta per il 14 settembre, in attesa dei risultati della Dieta. Ad Augusta i principi germanici si presentarono in numero imponente, con sette elettori e molti potentati laici ed ecclesiastici. A proposito del Concilio gli atteggiamenti furono discordi: nel migliore dei casi i luterani accettavano di riconoscerlo, a patto che ricominciasse da capo i suoi lavori e ne fosse garantita l’indipendenza dal Papa.

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Nel frattempo un nuovo gravissimo fatto sopraggiungeva a compromettere i rapporti fra Paolo III e gli Imperiali: il 10 settembre, infatti, il figlio diletto del Pontefice, Pier Luigi Farnese, che era stato insignito dal padre del ducato di Parma e Piacenza, cadeva assassinato a Piacenza, vittima di una congiura appoggiata dal governatore di Milano con il consenso dell’Imperatore. La città di Piacenza fu immediatamente occupata da forze spagnole, e per il vecchio Papa il colpo fu terribile.

Il conflitto fra il Pontefice e l’Imperatore si trascinò per i restanti due anni di vita di Paolo III, pregiudicando ogni possibilità di continuazione del Concilio. Le posizioni si erano ormai irrigidite: il gruppo dei prelati dissidenti rimaneva arroccato a Trento, i cardinali bolognesi rifiutavano di muoversi forti dell’appoggio del Papa e Carlo V, tramite il cardinale Madruzzo, reiterava le insistenze perché il contingente di Bologna tornasse a riunirsi con loro. Si dovette unicamente alla prudenza diplomatica dei Padri Conciliari e della Curia se fu evitata una rottura definitiva.

LA MORTE DEL PAPA E IL CONCLAVE

Si era ormai nel gennaio del 1548 e Carlo V, fallite le trattative con Roma, rivolse tutta la sua attenzione al dissidio religioso in Germania.

In seguito alla Dieta di Augusta, una commissione mista di teologi protestanti e cattolici si era messa al lavoro per elaborare una sorta di provvisorio accomodamento delle questioni pendenti, in attesa di una sistemazione definitiva che veniva rimandata al futuro. Il testo fu promulgato il 30 giugno 1548: constava di ventisei articoli, divisi in due parti. La prima era di carattere dogmatico e, senza tenere in alcun conto le recenti promulgazioni tridentine, tendeva a tranquillizzare i cattolici, accogliendo la dottrina concernente il Papa, i Sacramenti, i voti monastici e la gerarchia ecclesiastica. La seconda parte, di natura disciplinare, si rivolgeva precipuamente ai protestanti, consentendo fra le altre cose il matrimonio degli ecclesiastici.

Le discordie rimasero più vive che mai: il Papa protestò per l’ingerenza imperiale in questioni che esulavano dall’ambito della politica e, dopo lunghe consultazioni, si decise a decretare la sospensione del Concilio. Era il 13 settembre 1549: meno di due mesi più tardi, Paolo III moriva.

Seguì un Conclave tra i più laboriosi che la storia ricordi: Le sedute furono 71, dal 29 novembre 1549 al 7 febbraio 1550. Sulle prime parve che l’eletto dovesse essere l’inglese Reginald Pole, terzo legato pontificio al Concilio di Trento, ma la sua candidatura tramontò per il forte contrasto dei cardinali italiani, contrari alla elezione di un Papa forestiero. Dopo esasperanti incertezze fu eletto il cardinale Giovanni Maria Del Monte, che assunse il nome di Papa Giulio III.

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Del Monte, cardinale-vescovo, era stato, come Reginald Pole, legato al Concilio, e si era fatto notare per la fede viva, la brillante intelligenza e la sterminata erudizione di canonista. Aveva tuttavia maniere piuttosto volgari (riportò in vigore gli sguaiati giochi carnevaleschi di Roma, a cui egli stesso assisteva volentieri), un appetito insaziabile (con una certa predilezione per l’aglio e le cipolle) ed un atteggiamento sfacciatamente nepotista, tanto da mettersi immediatamente a dispensare fra i parenti dignità e cariche vaticane.

Subito dopo l’elezione, tuttavia, la sua cura principale fu rivolta alla continuazione del Concilio. Una commissione di sette cardinali, nominata per esaminare le questioni connesse con la riapertura, votò perché il Sinodo fosse ripreso a Trento. Subito si avviarono trattative diplomatiche con le potenze d’Europa. Carlo V, questa volta, rispose favorevolmente, mentre il Re di Francia Enrico II si dichiarò contrario alla ripresa del Concilio in generale e alla scelta della città di Trento in particolare. Nonostante questo diniego, che faceva prevedere una totale astensione dei vescovi francesi, il Pontefice, mediante la bolla “Cum ad tollendam” ordinò la ripresa dei lavori del Concilio a Trento, in data 1 maggio 1551. L’ufficio di legato papale fu assegnato al cardinale Marcello Crescenzi, mentre Angelo Massarelli fu riconfermato nella sua carica di segretario.

Il 20 aprile i legati entrarono solennemente in Trento.

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LA RIPRESA DEI LAVORI DEL CONCILIO

Le sedute ripresero il giorno designato. Era l’undicesima sessione: l’ottava (svoltasi a Trento, nella primavera del 1547) si era limitata ad annunciare il trasferimento, mentre la nona e la decima, a Bologna, avevano registrato le due successive proroghe. Nel frattempo, infuriavano le polemiche pro e contro il mutamento di sede, al punto da indurre Angelo Massarelli, maestro di diplomazia, a definire la sessione di riapertura come “prima sessione del Concilio di Trento sotto Papa Giulio III”, formula che fosse in grado di aggirare elegantemente l’ostacolo.

A differenza della prima, questa seconda fase del Concilio si svolse all’insegna di una stretta collaborazione tra il Papa e l’Imperatore. L’episodio più saliente di questo periodo doveva essere la comparsa, in seno all’Assise ecumenica, dei rappresentanti delle correnti luterane: dopo Muhlberg, infatti, i luterani avevano ricevuto infatti da Carlo V un invito formale a partecipare al Concilio.

I cattolici tedeschi arrivarono al Concilio nel settembre del 1551 con i procuratori dei vescovi di Magonza, Treviri e Colonia. Giunsero poi vari procuratori di principi e città protestanti, primi quelli dell’Elettore Gioacchino III di Brandeburgo, seguiti dagli inviati del duca Cristoforo di Wurtemberg e dallo storico della Riforma, Johann Sleidan, il quale rappresentava le città di Strasburgo, Reutlingen, Ravensburg, Biberach e Lindau. Queste ambascerie Iuterane, pur non prendendo contatto con i presidenti del Concilio per non riconoscerli come rappresentanti del Papa, ebbero frequenti colloqui con gli agenti imperiali i quali, secondo le consegne avute da Carlo V, si mostrarono estremamente accomodanti.

Le speranze di un’intesa apparvero tuttavia ben presto prive di fondamento. I luterani sbandierarono immediatamente la propria intransigenza, sostenendo che il Concilio era tutto da rifare: si doveva ricominciare da capo, annullando le decisioni già prese e proclamando anzitutto l’assoluta indipendenza dell’assemblea dal Pontefice Romano o la sua superiorità su di lui. I membri dovevano essere svincolati dal giuramento d’obbedienza al Papa, e solo a quel punto si sarebbe potuto procedere alla riunione di un sinodo “veramente libero, cristiano, generale”. Era la vecchia tesi di Lutero che tornava a galla.

LE RICHIESTE DEI LUTERANI

Mentre queste richieste e lagnanze venivano presentate ai legati di Carlo V, ignorando di proposito Concilio e cardinali, il 24 gennaio 1552 l’ambasceria di Wurtenberg annunciò l’arrivo dei teologi e depositò una specie di Cahier de Doléances insieme a una professione di fede, che era stata redatta dal Brenz, antico camerata di Lutero. Il Concilio, in risposta, nominò un’apposita commissione per trattare con loro. Le stesse dispute ebbero luogo con i delegati dell’Elettore di Sassonia, i quali presentarono un’ulteriore professione di fede, redatta da Filippo Melantone, che i Padri Conciliari fecero allegare agli atti della Segreteria. Inoltre i rappresentanti sassoni chiesero con insistenza la riorganizzazione della Chiesa, e sottolinearono la necessità di ridiscutere tutti i decreti già emanati, sostenendo che occorreva rifare tutto dall’inizio, in un’assemblea di diverse nazioni cristiane, con un più ampio salvacondotto offerto ai dissidenti.

Affioravano così le vere ed insanabili antitesi: i luterani erano irremovibili nel non volere accettare altra base alle discussioni che non fosse la Sacra Scrittura, con le rimanenti fonti d’autorità ritenute da essi prive di peso specifico. Volevano inoltre che i loro teologi avessero un voto decisivo, alla pari coi cattolici. Ritiratisi gli agenti sassoni, l’assemblea tenne seduta alla presenza dei legati imperiali, i quali insistettero perché, mettendo da parte le questioni teologiche, ci si dedicasse anzitutto alla riforma contro gli abusi: era il vecchio ed ormai eterno punto di vista di Carlo V, il quale sperava di offrire in tal modo una soddisfazione ai protestanti e di alleggerire in tal modo la complessa situazione germanica.

Il gruppo ispano-imperiale, naturalmente, sostenne tale richiesta a spada tratta, ma il primo legato papale, il cardinale Crescenzi, vide chiaramente il pericolo e, a prezzo di vive discussioni, mantenne l’ordine prestabilito dei lavori.

UNA NUOVA GUERRA

La XV sessione del Concilio, tenutasi il 25 gennaio 1552 alla presenza di 74 Padri, 4 ambasciatori, 61 teologi e 10 baroni, aggiornò al 19 marzo la promulgazione del decreto riguardante la Messa e il sacramento dell’Ordine, decidendo nel contempo di emanare un più vasto salvacondotto per i teologi protestanti e di preparare il materiale relativo al sacramento del Matrimonio.

Frattanto, dalla Germania arrivavano cattive notizie, con la Lega di Smalcalda a rinserrare le sue fila. Fin dai primi di marzo, allarmati dalle voci di guerra, avevano lasciato Trento gli elettori di Treviri, Magonza e Colonia, seguiti da altri vescovi, mentre i sassoni preparavano la loro offensiva contro Carlo V. Maurizio di Sassonia era un principe di stampo machiavellico: alleato dell’Imperatore contro i protestanti ai tempi di Muhlberg, ora, per aumentare la sua autorità in Germania, stava mettendosi a capo di una lega antiasburgica, che il re di Francia Enrico II appoggiava con tutte le sue forze. In fatto d’alleanze, Enrico II si rivelò ancor più spregiudicato di suo padre: da una parte faceva causa comune con i Turchi, dall’altra legava con i Protestanti, ma nel frattempo continuava a definirsi “Re Cristianissimo”.

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Nonostante lo stato di generale tensione, i preannunciati teologi protestanti arrivarono a Trento il 18 marzo. Il loro soggiorno si prolungò fino all’8 aprile, ma i risultati furono deludenti: non c’era più alcuna possibilità d’intesa. Venti giorni dopo la loro partenza, nella XVI sessione, veniva decretata una nuova sospensione del Concilio, per la durata di un biennio, mentre la parola passò nuovamente alle armi. Il presidente, cardinal Crescenzi, che tanto si era adoperato in questa seconda fase conciliare per difendere l’ortodossia cattolica e la supremazia pontificia, ammalato dal 25 marzo, fu trasportato in lettiga a Verona, e qui si spense il 28 maggio seguente.

Le vicende della guerra, intanto, si mettevano male per Carlo V. Il 18 maggio le truppe imperiali furono sconfitte a Reutte dall’esercito di Maurizio di Sassonia, e lo stesso Imperatore sarebbe caduto prigioniero dei sudditi ribelli se al momento critico un reggimento sassone non si fosse ammutinato, rendendo possibile la sua fuga. Malato di gotta e sfinito dai tormenti fisici, Carlo V passò il Brennero in lettiga, la sera del 10 maggio; i tempi della vittoria di Muhlberg erano ormai perdutamente lontani.

DA GIULIO III A PAOLO IV

Il biennio previsto per la sospensione del Concilio, in realtà, si dilatò a oltranza.

Il 23 marzo 1555 morì Papa Giulio III. In questo frattempo, i lavori della commissione cardinalizia incaricata di elaborare le linee della riforma ecclesiastica erano proseguiti, ma tale programma era ben Iungi dall’incontrare il consenso generale, come si potè facilmente comprendere nel successivo Conclave.

Un gruppo di cardinali avversi alle riforme cercò infatti di fare eleggere Ippolito d’Este, antico protettore dell’Ariosto, uomo gaudente e creatore della mirabile Villa d’Este in quel di Tivoli. Il decano del Sacro Collegio, l’austero cardinal Carafa, si oppose con tutte le proprie forze, e la scelta cadde così sul cardinale Marcello Cervini, già legato papale nella prima fase del Concilio di Trento, uomo insigne per pietà e dottrina, il quale prese il nome di Marcello II, non volendo mutare il suo appellativo battesimale.

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Il Papato di Marcello II fu tragicamente breve. Benché ancor giovane (era nato infatti nel 1501) regnò una ventina di giorni in tutto, dal 10 aprile al 1° maggio, quando lo abbatté un attacco di apoplessia.

Due settimane più tardi, i Cardinali si ritrovarono di nuovo riuniti in Conclave. Probabilmente sarebbe di nuovo venuta a galla la candidatura di Reginald Pole, se questi non fosse stato trattenuto in Inghilterra: Pole era infatti potuto tornare in Patria in seguito all’ascesa al trono di Maria la Cattolica, sua cugina, che con il suo appoggio pensava di poter restaurare in Inghilterra l’antica religione e obbedienza al Pontefice.

Escluso Pole, l’eletto fu il cardinale Gian Pietro Carafa, un napoletano di grande famiglia, già molto avanti negli anni, ascetico di spirito ed esuberante di temperamento. Il Carafa non poteva soffrire la casa imperiale d’Asburgo, e l’occasione per manifestare il proprio scontento nei confronti degli Imperiali gli si presentò su un piatto d’argento. Dopo tante vicissitudini, infatti, un ormai stanco Carlo V giunse a un definitivo accomodamento con i suoi sudditi protestanti. Fin dal 1552, d’altronde, i seguaci della Confessione Augustana avevano ottenuto la libertà di conformarsi alle proprie credenze, in attesa delle decisioni della prossima Dieta: questa ebbe luogo ad Augusta nel 1559 e fu, da parte dell’Imperatore, una vera e propria capitolazione.

Vecchio e ormai deciso a deporre la corona (come infatti fece subito dopo), Carlo V non poteva ormai che accettare la divisione religiosa esistente in Germania. La Pace di Augusta concedeva libertà ai luterani, secondo il notissimo principio del Cuius Regio Eius Religio: in altre parole, da allora in poi, i sudditi dovevano conformarsi alla religione dichiarata ufficiale nel loro Stato, mentre ai dissidenti sarebbe stata concessa la facoltà di emigrare. Gli articoli della pace augustana inoltre lasciavano ai luterani il possesso dei beni tolti ai cattolici, ed elargivano un’amnistia generale alle persone incarcerate per motivi religiosi.

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Salito al Soglio col nome di Paolo IV, il Carafa si mise subito in urto con gli Asburgo, disapprovando fieramente il compromesso come lesivo dei diritti della Chiesa. Temperamento schiettamente autoritario, Paolo IV non aveva fiducia in una ripresa del Concilio: preferì mettersi personalmente alla testa del movimento di riforma della Chiesa, incominciando a restaurare il decoro del culto e la moralità pubblica, lottando a fondo contro gli abusi che si manifestavano nella Curia e richiamando i religiosi dei conventi all’osservanza delle loro regole. Ai Vescovi non aventi cariche in Roma fu poi ordinato di tornare alle loro sedi e di rimanervi: proprio la questione dell’obbligo di residenza dei vescovi rappresentò in effetti uno dei punti più accesi di controversia nella terza fase conciliare.

L’ELEZIONE DI PIO IV

Paolo IV morì il 18 agosto 1559. Sarebbe anche potuto essere un vigoroso riformatore, se i suoi propositi di richiamare la Chiesa alla purezza originaria non fossero apparsi in contrasto stridente col suo appassionato nepotismo, non inferiore a quello di Papa Farnese. II conclave che seguì la sua morte, apertosi il 5 settembre, andò avanti per tre mesi e ventun giorni: finalmente uscì eletto il cardinale milanese Giovanni Angelo Medici, che nonostante l’identità del cognome, non aveva praticamente alcun legame di parentela diretto con i Signori di Firenze. Scelse per sé il nome di Pio IV.

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Era un uomo di circa sessanta anni, mite e conciliante, ma al tempo stesso inesorabile nel reprimere gli abusi. Due furono gli ideali del suo pontificato: la ripresa del Concilio e la riforma. Fin dalle lettere di partecipazione dell’avvenuta elezione, dirette secondo tradizione ai regnanti di tutta Europa, il Papa affermava la sua volontà di riattivare gli interrotti lavori del Concilio Tridentino.

La ripresa in realtà non si proponeva come un’impresa facile, date anche le contrastanti volontà dei sovrani, che solo in linea di massima si dicevano favorevoli all’idea, mentre in realtà sollevavano mille pregiudiziali riguardo ai compiti dell’assemblea. Nell’intenso lavorio diplomatico che preludeva alla ripresa, Pio IV fu coadiuvato dall’opera instancabile ed illuminata di suo nipote Carlo Borromeo, che ricopriva la carica di Segretario di Stato.

Fu obiettivamente merito di entrambi se, nel Concistoro del 29 novembre 1560, poté essere amanata la bolla “Ad Ecclesiae Regimen” che indiceva la nuova riunione del Concilio a Trento, fissandone la data d’apertura alla Pasqua dell’anno seguente (6 aprile 1561). Di proposito, il documento eludeva qualunque termine che si riferisse apertamente a una continuazione del Tridentino, in modo che i fautori di un nuovo concilio non avessero motivo di risentirsi. Nonostante ciò, il re di Francia Francesco II e l’Imperatore Ferdinando d’Asburgo protestarono perché nemmeno l’auspicata “novità” era proclamata chiaramente, mentre dal canto suo Filippo II di Spagna si risentiva esattamente per la motivazione opposta, ossia per la mancata dichiarazione della ripresa. Quanto ai protestanti, invitati a prender parte all’assemblea, rifiutarono.

Senza perder tempo, il Papa intanto nominò i suoi legati, con il cardinale Ercole Gonzaga quale primo presidente, ma la data stabilita dovette subire un rinvio a seguito delle difficoltà sorte nei rapporti con i vari sovrani europei. Il primo a fare un passo avanti fu Filippo II, che decise di dare il via alla partenza dei suoi vescovi quando un breve apostolico lo rassicurò sulla effettiva continuazione del Concilio e sulla validità dei decreti già emessi.

La seduta inaugurale fu fissata per il 18 gennaio 1562, e durante essa venne elaborato il decreto d’apertura, evitando con la massima diligenza che vi apparissero le parole “indizione” o “continuazione”. La cerimonia inaugurale si svolse alla presenza di ben 114 Padri, una cifra eccezionale se confrontata con le precedenti fasi conciliari.

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LA FASE CONCLUSIVA DEL CONCILIO DI TRENTO

Questa fase conclusiva del Concilio si protrasse per circa due anni (dal gennaio 1562 al dicembre 1563) e si rivelò come la più feconda, tanto nel campo delle definizioni dottrinali quanto in quello della riforma disciplinare e istituzionale.

In questa fase della Riforma, le ingerenze dei Principi furono pesanti. Il 6 giugno Ferdinando I fece presentare dai suoi ambasciatori un progetto di riforma che recava la sua firma e che aveva fatto elaborare da esperti di sua fiducia: vi si caldeggiava, ad esempio, la concessione della Comunione col calice ai laici e l’abolizione del celibato ecclesiastico. Dal canto loro i Francesi si allinearono agli Imperiali, mentre il cardinal Lorena in persona si recava a Innsbruck da Ferdinando I, per concordare un programma comune. Era chiaro che si stava per formare una sorta di coalizione tra le potenze cattoliche, intese a dominare il Concilio e ad imporre la loro volontà a proposito della riforma anche in campo dogmatico, specialmente a proposito dell’origine del potere di governo affidato ai vescovi e circa il “diritto divino” dell’obbligo di residenza.

La morte nel marzo 1563 di due legati papali, il cardinale Gonzaga e Gerolamo Seripando, aggravò la situazione, facendo temere ancora una volta il prossimo naufragio del Concilio. Se questo non avvenne, si dovette alla prudenza e all’avvedutezza del Papa, sostenuto e consigliato da Carlo Borromeo, e al tatto diplomatico dei nuovi legati, i cardinali Morone e Navagero. Morone, recatosi appositamente a Innsbruck, riuscì a gettare le basi di una rinnovata collaborazione tra il Papa e l’Imperatore, sostenendo che senza la loro azione concorde sarebbe stato inutile qualsiasi piano di riforma della Chiesa.

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Contemporaneamente il Pontefice si assicurò, cedendo su alcuni punti marginali e di prestigio, l’appoggio di Filippo II, ed in tal modo il Concilio, disincagliatosi dalle secche in cui si trovava, potè procedere all’esame delle questioni rimaste pendenti. I legati insistevano per una rapida conclusione entro quello stesso anno 1563, e tale sembrava essere anche il desiderio della maggior parte dei convenuti, ma ciò non impedì che anche nella sua ultima parte il Concilio conservasse quel carattere tempestoso che l’aveva contrassegnato fin dalla sua apertura.

Uragani di proteste sorsero infatti da parte degli ambasciatori, quando la maggioranza dei Vescovi fece sua la proposta papale di abbinare alla riforma auspicata per gli ecclesiastici una riforma dei Principi. I francesi, alla sola idea di un simile progetto applicato al Re Cristianissimo, parlarono immediatamente di lesa maestà. Di fronte ad una tale insurrezione, il progetto di riforma dei Principi fu accantonato: fu lo stesso Arcivescovo di Praga a domandare, a nome dell’Imperatore, che fosse messo da parte.

Il Concilio tuttavia continuò con vigore nel suo programma di riforma generale e di definizione delle questioni teologiche ancora irrisolte. Gli ultimi mesi furono caratterizzati da un’attività letteralmente febbrile, quasi si volesse riguadagnare di colpo il tempo perduto durante gli indugi di tanti anni. In realtà, in quell’autunno del 1563, molti dei prelati che avevano aperto il Concilio non erano più sulla terra: erano morti il cardinale Del Monte (ossia Papa Giulio III), il cardinal Cervini (ossia Papa Marcello II), ed anche il terzo legato del 1545, Reginald Pole, si era spento in Inghilterra lo stesso giorno della morte di sua cugina, Maria la Cattolica, dopo aver visto il tragico fallimento delle loro speranze. Sopravvivevano invece, quasi a sottolineare l’idea della continuità del Concilio, due figure caratteristiche della prima fase: il cardinale Madruzzo di Trento ed il segretario Angelo Massarelli, che all’epoca dell’apertura era un semplice laico e che adesso era Vescovo di Telese.

LA FINE DEL CONCILIO DI TRENTO

A fine novembre una lettera di Carlo Borromeo, che annunciava che il Papa era gravemente ammalato, mise in allarme i legati: in caso di morte di Pio IV, infatti, bisognava assolutamente evitare il pericolo che si accendesse una controversia fra i cardinali rimasti a Roma ed i Padri Conciliari sul diritto di eleggerne il successore.

I lavori furono accelerati al massimo: il 3 dicembre la XXV ed ultima sessione conciliare ebbe inizio, con l’approvazione di due decreti dottrinali (sul Purgatorio e sulla venerazione dovuta ai Santi), mentre il giorno seguente vennero promulgati altri sette decreti, l’ultimo dei quali riguardava la chiusura stessa del Concilio. Ai Padri venne in tal senso rivolta la domanda se fosse loro desiderio porre termine all’assise ecumenica e chiedere al Pontefice la ratifica degli atti: tutti risposero con il rituale “Placet” tranne il vescovo di Granada, che ritenne superflua la domanda di conferma da rivolgersi al Papa. Un dissidente, d’altronde, doveva esserci fino all’ultimo.

Finalmente il cardinale di Lorena, levatosi in piedi, mentre tutta l’assemblea seguiva il suo esempio in un’atmosfera di grande e spontanea commozione, rivolse espressioni d’omaggio al Papa, all’Imperatore E a tutti coloro che avessero promosso e sostenuto il Concilio. A quel punto il legato pontificio, cardinal Morone, presidente dell’assemblea, intonò il Te Deum, impartendo ai Padri la benedizione finale e congedandoli con la formula: “Andate in pace”.

A diciotto anni dalla sua convocazione, il Concilio di Trento era terminato.

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La desiderata restaurazione della concordia fra i Cristiani non era stata raggiunta, ma la Chiesa cattolica riaffermava, in mezzo ai dissidi delle varie correnti del Protestantesimo (travagliato fin dall’inizio da contrastanti ideologie), la granitica unità e la coerenza della propria dottrina.

Ai Protestanti il Concilio di Trento diede una duplice risposta: negativa, confutando e condannando le loro tesi là dove contenevano errori e pericoli, e positiva, precisando attraverso laboriose discussioni e con esemplare chiarezza i capisaldi contestati della fede cristiana. Inoltre, sul piano morale, contrappose alla riforma attuata dai protestanti una riforma cattolica, che doveva rinnovare tanto le gerarchie ecclesiastiche core i fedeli.

L’opera dottrinale del Concilio Tridentino è contenuta in un complesso di tredici decreti e di centoventisei canoni. Essa si differenzia da quella dei precedenti Concili, in quanto non si limita a denunciare gli errori, ma altresì chiarisce e fissa i punti essenziali della fede. I suoi decreti riguardano problemi fondamentali del Cristianesimo, quali il valore da attribuirsi alla Sacra Scrittura e alla Tradizione, la questione del peccato originale e quella della giustificazione (il punto su cui appariva in forma più drammatica il contrasto con i Protestanti), le tesi relative alla grazia, e, come logico sviluppo, la vasta e ricchissima dottrina dei Sacramenti, ed infine la dottrina riguardante il Purgatorio, l’invocazione dei santi, la venerazione delle reliquie e delle immagini e il potere delle indulgenze. Quest’ultimo fu discusso nella sessione conclusiva, e il fatto ebbe un aspetto simbolico: il Concilio terminava sull’argomento che aveva fornito il primo spunto alla polemica di Lutero, nel lontano 1517.

Sotto l’aspetto disciplinare, il piano di riforma elaborato dal Concilio di Trento rivolse la massima attenzione ai compiti della Chiesa e li precisò secondo un indirizzo eminentemente pastorale. L’opera di rinnovamento si accentrò sui vescovi, di cui il Concilio Tridentino tese a rafforzare la posizione indicandone i doveri e i diritti, e sui sacerdoti parrocchiali. Fu sancita l’istituzione di seminari per la formazione delle nuove leve del clero, il ripristino degli annuali sinodi diocesani e delle visite pastorali, la repressione degli abusi.

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Speciali norme fissarono gli austeri modelli di vita a cui da allora in poi i sacerdoti avrebbero dovuto conformarsi, rarefacendo in via di principio l’archetipo di certi prelati rinascimentali mondani, dissoluti e gaudenti. Anche le ripercussioni pratiche della riforma delle congregazioni religiose non tardarono a manifestarsi.

Ristabilita nella sua triplice unità di fede, di governo e di culto, animata da un anelito di autentica riforma, la Chiesa della seconda metà del XVI secolo manifestò una vigorosa capacità di ripresa e un nuovo spirito di conquista. Ciò si tradusse, da una parte, in una caratteristica spinta missionaria, rivolta verso l’Asia e le terre di recente scoperta, quasi a compensare le perdite registrate in Europa per la scissione protestante; dall’altra parte, in una fioritura di nuove congregazioni religiose, che fecero proprie le istanze più vive della loro epoca, dedicandosi all’istruzione dei giovani, alla cura degli infermi ed al soccorso degli indigenti.

Accanto ai nuovi Ordini, gli Ordini che già avevano secoli di vita avvertirono la necessità di rinnovarsi: sorsero così, sul vecchio tronco francescano, i Cappuccini e, sulle orme di Santa Teresa e San Giovanni della Croce, i Carmelitani Riformati.

Così, dopo il dramma della ribellione protestante, la rinvigorita coscienza religiosa pose le basi di quel vasto rinnovamento spirituale che segnò un indirizzo decisivo per la Chiesa dell’età moderna.

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