Annibale e la Battaglia del Trasimeno

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ANNIBALE E LA BATTAGLIA DEL TRASIMENO

Proprio sotto Tuoro, dove nel tempo il Trasimeno si è ritirato un poco dietro un verde di campi e di vigneti, vien quasi voglia, istintivamente, di gridare a Gaio Flaminio di stare attento. Gli Dei, però, hanno deciso ormai quale sarà il suo fato: per quanta voce si possa mettere in quelle urla, lo sventurato Gaio Flaminio non fermerà le sue legioni.

Annibale, che al Ticino e alla Trebbia ha già massacrato due consoli di Roma, spazzandoli dalla Gallia Cisalpina, è a poche miglia, in marcia sulla strada di Perugia. In quel giorno di giugno del 217 a.C., il cielo dell’Etruria è segnato dal fumo nero degli incendi. È l’alba, e la nebbia stagna ancora sulle rive del lago, celando quasi le colline. I Romani, che hanno appena levato il campo, marciano abbastanza tranquilli, mentre la rugiada sull’erba bagna le gambe; l’esercito di Annibale, però, quel mattino non è in marcia sulla strada di Perugia, ma è lì fermo ad aspettare, dalla sera prima, acquattato nei boschi delle colline attorno, con gli uomini già piegati sui cavalli e le armi sguainate, e sta ascoltando con feroce impazienza i rumori della lunga colonna che si inoltra lentamente e senza sospetti nella trappola di nebbia.

Ad un gesto di Annibale, la valanga scatenata rotola urlando giù dalle colline: Cartaginesi, Iberici, Numidi, Celti, Balearici, Liguri, Galli, Libi, fomentati da tutto l’odio mediterraneo seminato da Roma. I Romani, sorpresi a quel modo nel disordine della strada, soffocati tra le colline e il lago e ciechi di nebbia, non possono far fronte, ma soltanto morire.

È la battaglia del Trasimeno, o per meglio dire il massacro del Trasimeno. Quindicimila Romani restano per l’eternità sotto le colline di Tuoro.

IL RUOLO DI GAIO FLAMINIO

Oggi gli storici moderni, pur riconoscendo le pesanti responsabilità di Flaminio, ne respingono la condanna semplice e brutale, così come tramandato dalla tradizione romana.

Secondo Polibio e Tito Livio, ossia le due fonti principali alle quali si attinge per raccontare la battaglia del Trasimeno, il disastro sarebbe accaduto soprattutto per la smodata ambizione di Flaminio che, “non tenendo conto né degli uomini né degli dei”, voleva dare battaglia a tutti i costi prima che arrivassero da Rimini le legioni del collega Servilio, così da non dividere la vittoria con nessuno. Il linciaggio morale di Flaminio aveva un fine molto preciso: con un uomo che disprezzava il Senato e gli Dei, in quale altro modo si sarebbe potuta concludere la giornata del Trasimeno?

Ad avvalorare la tesi che un simile generale non potesse che portare alla catastrofe, ecco poi tutta una serie di prodigi che il povero Flaminio si tira dietro nella sua carriera politica e militare. Quando fu eletto console per la prima volta, durante la guerra per la Gallia cisalpina, non si sentì forse sino in Italia il terremoto che fece crollare il colosso di Rodi? E non fu il cielo forse illuminato contemporaneamente da tre diverse lune? E il bove che salì a Roma fino al terzo piano di una casa, quando Flaminio, dopo la disfatta della Trebbia, fu eletto console per la seconda volta? E poi ci furono statue di Marte che sudavano, galli che diventavano galline, e altre cose del genere. La mattina stessa del Trasimeno, le insegne rifiutarono a lungo di lasciarsi svellere dal terreno, e il console fu disarcionato dal suo cavallo!

Ora, secondo gli autori antichi, dato che gli Dei erano ovviamente dalla parte di Roma, era chiaro che essi stavano ripetendo da tempo ai Romani che Flaminio non era l’uomo adatto. Gaio Flaminio, però, non credeva affatto a questi prodigi: quando vennero a dirgli che non si riusciva a svellere le insegne, ironicamente consigliò i suoi ufficiali di metter mano alle zappe, e quando cadde da cavallo, si limitò probabilmente a bestemmiare.

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In realtà, Gaio Flaminio Nepote, l’uomo che ha regalato ai posteri la Via Flaminia, non era inviso tanto agli Dei, quanto al Senato e all’aristocrazia: espressione del partito popolare, e dotato indubbiamente di un carattere difficile e ribelle, Flaminio irritò i potenti di Roma con la sua continua e coraggiosa lotta in difesa dei diritti della plebe. Ancora tribuno, per dirne una, avanzò la proposta di distribuire ai coloni numerosi latifondi situati nei dintorni di Rimini, i cui proprietari ovviamente sedevano in Senato. Quando poi divenne senatore, fu l’unico a sostenere a spada tratta il progetto di legge, presentato da un tribuno, che tendeva a vietare ai senatori l’esercizio del commercio via mare. Ovvio che, per questa e cento altre ragioni, i senatori abbiano poi cercato di vendicarsi di questo console, che già vedevano come il fumo negli occhi perché imposto dalla plebe.

Ci fu chi affermò che fosse stato proprio il Senato a ritardare di proposito la marcia delle legioni di Servilio da Rimini, per dare modo a Flaminio di scavarsi tranquillamente la fossa. Tale affermazione è tecnicamente poco verosimile: Roma era troppo in pericolo perché anche la più cinica politica di parte potesse permettersi di giocare una simile carta, ed il Senato Romano (seppur con qualche eccezione…) era composto da individui caratterizzati da un profondo attaccamento alla res publica.

È invece perfettamente credibile che Senato e aristocrazia abbiano fatto di tutto per svilire Flaminio, da vivo e da morto, affinchè potesse essere ben chiaro a tutti, soprattutto alla plebe, che solo gli uomini espressi dai padri della Patria erano, non soltanto i migliori, ma anche i prediletti degli Dei.

Indubbiamente Gaio Flaminio non fu un buon generale: la giornata del Trasimeno è lì a dimostrarlo. Fu però di certo anche un generale sfortunato, perché non poteva esservi a quel tempo, per un generale mediocre, sfortuna maggiore che incontrare Annibale per la propria strada. Se fosse stato però un console del Senato anziché della plebe, si può star certo che gli storici avrebbero trovato il modo per caricare su altri la responsabilità della disfatta sul Trasimeno, magari proprio su quel Servilio arrivato in ritardo.

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IL RUOLO DI ANNIBALE

Con la stessa costanza con cui venne denigrato Gaio Flaminio, gli storici antichi sono invece concordi e obiettivi sulla figura e sul genio di Annibale. Se può essere leggenda il giuramento di eterno odio a Roma che Amilcare fece prestare al figlio ad appena nove anni, è fuor di dubbio che l’intera famiglia Barca, sfruttando la sua lunga influenza a Cartagine, visse e operò soltanto in funzione di quell’odio. Se per Amilcare poteva però anche essere uno strascico della campagna di Sicilia, quando i Romani lo avevano costretto a sloggiare dall’isola, per Annibale fu invece la logica conseguenza della chiara e precisa convinzione politica che Roma e Cartagine non potessero convivere.

In tal senso, è bene evidenziare come la Seconda Guerra Punica non fu una guerra di conquista o di prestigio (sebbene evidenziò il protagonismo di Annibale), ma fu una vera e propria guerra preventiva con la quale Annibale tentò di salvare Cartagine, prima che al Senato romano risuonasse il “Carthago delenda est” di Catone. Annibale, quindi, non si svegliò un bel mattino con lo sghiribizzo di invadere l’Italia, ma si convinse del fatto che fosse stata Roma a trascinarvelo per i capelli.

Quando, a venticinque anni, Annibale si ritrovò a capo dell’esercito di Spagna, la campagna d’Italia era già nella sua mente da tempo, anche se sarebbero dovuti passare ancora tre anni prima di far girare gli ingranaggi della guerra.

Come tutti i grandi capitani, anche Annibale esercitava un fascino particolare sui suoi uomini, tale da poterli condurre in capo al mondo: se i soldati romani combattevano per la Repubblica, i soldati di Annibale combattevano per il proprio generale e si sarebbero gettati nel fuoco per lui. Si pensi all’esercito che egli guidò nella grande avventura d’Italia: nel leggerne le componenti, potrebbe apparire come un esercito mercenario, composto da elementi eterogenei che della guerra avevano fatto un mestiere, come i leggendari frombolieri delle Baleari, che secondo le malelingue non venivano pagati in oro o argento, ma in donne. In realtà, invece, si trattava invece di un esercito personale che la statura militare di Annibale riuscì a rendere un formidabile strumento di guerra.

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LA STRATEGIA DI ANNIBALE

Quando, messi a punto i suoi piani, Annibale fece scoccare la scintilla di Sagunto che provocò la guerra e imboccò le strade che conducevano ai varchi dei Pirenei, egli conteggiò i propri uomini e si rese conto che essi non superavano le sessantamila unità. Sapeva inoltre, come ben accadde, che molti sarebbero rimasti per la strada, stravolti dagli stenti o dai nemici.

A quel tempo Roma aveva un potenziale di 750 mila uomini (Fabio Pittore, consultando i registri, giunse alla stima precisissima di 748.300), e non è certamente pensabile che Annibale si illudesse di poterla battere soltanto con le armi. Il suo piano, infatti, era prevalentemente politico, e l’esercito rappresentava soltanto il mezzo più idoneo per metterlo in movimento, anche se in realtà, per un complesso di circostanze, fu invece proprio grazie al suo esercito che riuscì quasi a piegare Roma. Portando la guerra in Italia, Annibale si proponeva di scardinare il mondo politico romano, alienando alla città nemica gli alleati: sarebbero stati poi questi, strada facendo, ad alimentare in continuazione i suoi effettivi. Non disponendo di una forza militare adeguata allo scopo finale, il disegno era giusto. Se c’era una strada per abbattere Roma, la strategia da seguire doveva essere una sola: isolare la città.

Annibale fallì, passando da una vittoria all’altra, essenzialmente perché gli alleati italiani, salvo poche eccezioni famose (Capua, i Lucani, i Bruzi) non abbandonarono Roma. Quando Maarbale, comandante di cavalleria dell’esercito cartaginese, dopo la giornata di Canne rimproverò ad Annibale, che non marciava su Roma, di “saper vincere ma di non saper usare la vittoria”, parlava essenzialmente un linguaggio da caserma che teneva conto soltanto dei morti e delle spade. Annibale invece conteggiava anche il numero delle città italiane che gli avevano chiuso le porte in faccia, a dispetto del suo atteggiamento da “liberatore”. Dopo ogni battaglia, infatti, i Romani caduti prigionieri venivano incatenati e sottoposti a riscatto, mentre gli alleati venivano invece lasciati liberi, con una pacca sulle spalle.

Annibale era convinto che questa fosse l’unica strategia per vincere la guerra, ma (con sua sorpresa) il sistema romano, pur scricchiolando sotto spallate formidabili, non crollò. Al di là dei grandi meriti di Scipione, il merito di maggiore rilevanza dovrebbe essere attribuito a quegli alleati che sopportarono per fedeltà assedi e terre bruciate per rinsanguare quelle legioni che, fatte a pezzi alla Trebbia, al Trasimeno e a Canne, risorsero sempre come un’araba fenice, in attesa di andarsi a schierare nella pianura di Zama.

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L’ATTRAVERSAMENTO DELLE ALPI

Chi era Annibale, fu subito chiaro. Scoppiata la guerra, e appreso che l’esercito cartaginese, forte tra l’altro di trentasette elefanti, aveva varcato l’Ebro diretto verso la Gallia Transalpina, Publio Cornelio Scipione (il padre dell’Africano e il primo degli Scipioni in ordine di tempo ad affrontare Annibale) fu inviato in gran fretta via mare verso la Spagna, per tagliare la strada al Cartaginese.

A Pisa, però, il console romano fu raggiunto dalla notizia che il nemico, valicati i Pirenei, stava già procedendo a marce forzate, sia pure tra notevoli difficoltà, verso la valle del Rodano, con obiettivo presumibile Marsiglia. Scipione dirottò allora le legioni verso la Gallia Transalpina ma, troppo in ritardo su Annibale, a Tarascona poté soltanto vedere le ultime frange della retroguardia cartaginese che si allontanavano verso le montagne.

Fu soltanto allora che Scipione, sbalordito, si rese conto che la vera intenzione di Annibale era di invadere l’Italia passando per le Alpi. La reazione del romano fu comunque immediata: dimezzate le legioni, le reimbarcò, parte dirette in Spagna ad inchiodare Asdrubale e a tagliare ad Annibale i rifornimenti via terra, e parte dirette in Italia ad aspettare il nemico all’uscita delle montagne.

Per quanto le Alpi fossero già state attraversate da tribù di Galli, era la prima volta, e addirittura alle soglie dell’inverno, che un esercito vero e proprio tentava l’impresa: Annibale, però, aveva studiato a dovere quelle montagne, e sapeva bene per quali sentieri passare. Gli storici antichi, ossia Livio e Polibio, non avevano invece alcuna idea di quali fossero questi misteriosi passaggi, ed anche gli storici moderni hanno fornito ipotesi variegate, indicando di volta in volta il valico del Moncenisio, il Piccolo e il Gran San Bernardo, il Monginevro e il colle dell’Argentera.

La traversata di Annibale durò quindici giorni, e le perdite furono pesanti. Secondo Polibio, che avrebbe rilevato tale dato da un’iscrizione di mano dello stesso Annibale, sappiamo che in Italia arrivarono circa 26.000 uomini. Sui sentieri erti e ghiacciati, nelle trappole di neve fresca e sotto le valanghe, perirono anche molti cavalli e quasi tutti gli elefanti. Sul valico, anticipando di venti secoli il gesto di Napoleone, Annibale rincuorò i suoi uomini indicando loro, oltre le cortine azzurrognole del cielo, i tesori e le glorie dell’orizzonte italiano. I superstiti uscirono alla pianura esausti, sfigurati dalle fatiche, dal freddo e dalla fame, ma quasi subito i Galli cisalpini si schierarono al loro fianco, e il sipario si alzò sopra gli anni più bui della Roma Repubblicana.

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LE PRIME BATTAGLIE

Il primo scontro avvenne al Ticino, dove i Romani furono subito battuti dalla cavalleria di Annibale e lo stesso console ferito; secondo Livio, egli fu salvato dal figlio, che incontrava così per la prima volta il suo grande antagonista. La battaglia vera e propria fu invece alla Trebbia, presso Piacenza, dove l’altro console, Sempronio Longo, accorso dalla Sicilia, accettò la sfida in campo aperto, contro il parere e il consiglio di Scipione immobilizzato dalle ferite, e andò a gettarsi a capofitto tra le ali dell’esercito di Annibale, che subito si chiusero frantumandolo.

Attirate le legioni stanche, intirizzite e digiune, nelle acque gelide del fiume, contro soldati riposati e ben rifocillati, caldi di fuoco ed unti d’olio, Annibale le circondò con manovre magistralmente imboscate la notte precedente, e le legioni finirono a pezzi. Per lunghe ore il fiume trascinò cadaveri romani. Scardinate così, con estrema facilità, le porte d’Italia, l’esercito cartaginese andò a svernare nelle terre grasse e ospitali di Bologna, mentre la ribellione dei Galli cisalpini si allargava a macchia d’olio frangendosi minacciosa contro i primi contrafforti degli Appennini.

È da questo momento che a nessuno fu più consentito, e men che meno a un generale romano, di trascurare o sottovalutare il genio e l’astuzia di Annibale. Furiosamente, Roma si buttò a far leva di soldati, e due eserciti furono inviati con i nuovi consoli a montare la guardia alle possibili strade di invasione: Gneo Servilio a Rimini con quattro legioni rafforzate, e Gaio Flaminio ad Arezzo con circa trentamila uomini.

A primavera, studiata accuratamente la situazione, Annibale scartò l’esercito minore e la strada più agevole, e attraverso monti e paludi puntò su Flaminio. Secondo alcuni studiosi, la scelta di Annibale fu anche “psicologica”: ora, che Annibale abbia tenuto conto del carattere diverso dei due consoli (Servilio ligio alle regole a gli ordini del Senato, Flaminio più impetuoso e indipendente) è possibile, e rientrava anzi nelle sue abitudini, perché non era certo uomo da affidare al caso le sue battaglie. Non vanno escluse però considerazioni strategiche che possono non esser giunte sino a noi: va sempre tenuto presente, parlando di Annibale, che ci si trova di fronte ad uno dei più esperti, sagaci e valorosi generali della Storia. La marcia da Bologna a Fiesole, infatti, è anch’essa una mossa “illogica” che, così come la traversata delle Alpi, costituì quell’effetto sorpresa che era proprio tipico del genio di Annibale e che tendeva sempre a disorientare l’avversario.

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LA BATTAGLIA DEL TRASIMENO

Quando, uscito dalle paludi, Annibale sfilò davanti al campo romano di Arezzo, diretto apparentemente alla volta di Roma, Livio lo descrisse “sicuro che Flaminio lo avrebbe seguito ovunque, desideroso com’era di riportare la vittoria da solo”. In effetti, come previsto, Flaminio lo seguì, facendo il gioco del Cartaginese. Probabilmente, quantomeno all’inizio, Gaio Flaminio aveva intenzione di aspettare le legioni di Servilio da Rimini prima di dare battaglia.

Fu a questo punto però, per una circostanza di luogo sfruttata fulmineamente da Annibale, che si mise in movimento il meccanismo perfetto della battaglia del Trasimeno: meccanismo però assai fragile, dove se anche solo un dettaglio non avesse funzionato a dovere, tutto sarebbe finito a scatafascio. Per fortuna di Annibale (e sfortuna di Flaminio) tutto funzionò invece senza il minimo intralcio, e i pezzi del gioco andarono a uno a uno al loro posto.

Il piano di battaglia fu indubbiamente studiato nei minimi particolari dallo stato maggiore cartaginese. Giunto all’altezza del Trasimeno, dalle parti di Terontola, e appresa da informazioni e da ricognizioni tattiche l’esistenza di una posizione particolarmente favorevole, l’esercito cartaginese, quasi a dare l’impressione di aver cambiato meta, da Roma a Perugia, scartò bruscamente a sinistra introducendosi nel cosiddetto vallone di Tuoro, dove la strada correva verso oriente tra le colline e il lago.

Il Trasimeno, a quel tempo, si spingeva maggiormente sotto le montagne, sfiorando il colle di Tuoro che chiudeva quindi il vallone all’altra estremità. Era il posto ideale per un’imboscata. Costeggiando il lago, l’esercito cartaginese si portò dal Malpasso all’altra estremità della cavea, e cioè al colle di Tuoro, e qui, bene in vista sulle pendici, posizionò il campo.

A questo punto Annibale, attestati i Libi, i Balearici e gli Iberi a sostegno, sgranò il resto dell’esercito, ossia i Celti e la cavalleria, su tutto l’arco delle colline attorno, in posizioni defilate. A quel punto fece accendere i fuochi da campo, con la palese intenzione che funzionassero da richiamo, e “si mise tranquillo ad aspettare” che il console romano abboccasse all’amo.  

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Flaminio, che distava circa quattro ore di marcia, quando si accorse dello scarto compiuto dall’esercito nemico, fermò le legioni accampandole nella piana di Borghetto, e soltanto all’alba del giorno dopo riprese l’inseguimento, entrando a sua volta nel vallone di Tuoro. Purtroppo, e fu certamente questo il suo errore più clamoroso, vi entrò letteralmente ad occhi chiusi, mettendo al bando la necessaria prudenza che dovrebbe sempre essere mostrata in simili situazioni. Forse egli riteneva Annibale già lontano molte ore, diretto verso Perugia, ma tale scelta fu comunque una follia.

La prima reazione del Cartaginese deve esser stata addirittura di incredulità, alla notizia che i Romani avevano cominciato a sfilare, del tutto tranquilli e in colonna, dal Malpasso. Polibio scrive che la giornata era anche particolarmente nebbiosa, dettaglio che per molti storici aggravava ancor di più la responsabilità di Gaio Flaminio. Annibale, che pur poteva aver previsto il fenomeno della nebbia, sapeva bene che i fuochi del campo sarebbero stati comunque abbastanza visibili per giocare il loro ruolo di richiamo. E possiamo bene immaginare la sorpresa e lo sconcerto di Flaminio, quando li vide brillare sul fondo, davanti alle sue legioni.

A questo punto egli prese certamente delle misure di sicurezza, cercando nel contempo un posto dove attestarsi, ma ormai era troppo tardi: Annibale diede il segnale della battaglia, e la trappola si chiuse.

Assalite sul fronte, sul fianco e alle spalle, chiuse dal lago e confuse dalla nebbia, le legioni si trovarono subito a mal partito. Rotolando giù dall’intero arco delle colline, gli uomini di Annibale ebbero facile gioco, come scrisse lo stesso Polibio: “Accadde così che la maggior parte dei soldati fosse fatta a pezzi nello stesso ordine di marcia, senza poter far nulla per salvarsi, quasi tradita dall’incoscienza del suo comandante”.

La carneficina durò tre ore, in una confusione indescrivibile. Flaminio, che si era rivelato un pessimo generale ma che fu certamente un ottimo soldato, fece il possibile per arginare quella marea di lance e di cavalli, buttandosi coraggiosamente dove più feroce divampava la mischia, ossia sul lato sinistro dove combattevano i Celti, finché un colpo di lancia non lo uccise in battaglia. A quel punto, i Romani sbandarono dandosi alla fuga, e il massacro diventò ancora più facile. Si salvarono soltanto seimila uomini dell’avanguardia che, riusciti in qualche modo a bucare indenni lo schieramento nemico, trovarono rifugio in un villaggio poco distante, solo per cadere il giorno successivo sotto i colpi della cavalleria di Maarbale. Tre giorni dopo, cadevano anche i quattromila cavalieri mandati avanti in aiuto da Servilio.

Questa è la cronaca della Battaglia del Trasimeno, frutto tanto dell’astuzia e del genio di Annibale, quanto dell’incoscienza e della mediocrità di Flaminio. Mai esercito romano era stato distrutto in modo così completo: Roma si paralizzò letteralmente alla notizia del disastro, ma immediatamente e senza perdere tempo gettò sulla bilancia altre legioni, comandate dalla spada prudente di Quinto Fabio Massimo, successivamente soprannominato “il temporeggiatore”.

Nel frattempo, carico di prede e sempre più forte, Annibale prese la strada delle Puglie: era la strada che portava a Canne ed alla sfida con Scipione, ma fu anche la strada che portò, fatalmente, alla fine del suo sogno.

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11 pensieri su “Annibale e la Battaglia del Trasimeno

  1. Claudio Bartolucci dice:

    Come sempre, caro Vincenzo, eccellente articolo. Vorrei agguungere, se posso, due considerazioni che potrebbero aiutare la lettura. A mio avviso Anni bale nella sua puntata su Fiesole cercò di dividere I due consoli x batterli separatamente, come farà Napoleone a Charleroi nel 1815 con Inglesi e Prussiani, puntando alla sollevazione di quel Piceno sempre problematico per Roma.

  2. Oreste dice:

    Niente male. Un articolo fedele alla storia,preciso,puntuale. Se è possibile avere maggiori dettagli sul passaggio delle Alpi.

  3. Achille dice:

    Bellissima , puntuale e precisa descrizione della realtà storica , arricchita altresì da ipotesi perfettamente compatibili con i la realtà dei personaggi .

  4. Nardo dice:

    Ottimo approccio. Una considerazione sulla prima parte espositiva: provate a sostituire il nome Annibale con il nome Putin e …il nome Roma con America..,.il concetto di guerra preventiva per la sopravvivenza….interessante e da circostanziare.

  5. Vincenzo dice:

    Interessante….non sono esperto di queste cose, ma sarebbe curioso conoscere di questa memoria cosa ne pensano G.Brizzi, L.Canfora, Spinosa, Mommsen….

  6. Armando dice:

    Molto interessante ,ma esaltata troppo la bravura di Annibale (pur grande condottiero)e non dato il giusto risalto al Grande Geberale romano Scipione l’Africano ,che lo anniento’ in strategia e tattica militare e politica …

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