La Cattività Avignonese

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La Cattività Avignonese

Nei libri di storia, il periodo di circa settant’anni in cui i Papi, abbandonata la sede romana, dimorarono stabilmente ad Avignone, viene designato con un latinismo: la captivitas avignonese, ossia la prigionia avignonese, con un evidente riferimento ad un’altra famosa cattività storica, quella degli Ebrei a Babilonia, narrata nella Bibbia. Ad ogni modo, il termine riassume bene quello che fu il giudizio unanime di tutta la cristianità, eccettuata ovviamente la Chiesa francese, su quel periodo della storia del Papato, bollato come un’epoca di soggezione al re di Francia.

Oggi gli studiosi hanno parzialmente rivisto questo giudizio. La soggezione in effetti fu forte, ma non totale: lo stesso Papa Clemente V, che decise il trasferimento, oppose più volte al sovrano francese una sorta di resistenza passiva. Tuttavia, quella della cattività avignonese fu un’epoca in cui le due prerogative più gelosamente difese dal Papato nel corso dei secoli, ossia l’indipendenza della Chiesa dai potenti della Terra ed il suo carattere sovranazionale e universale, apparvero gravemente compromesse, tanto che qualcuno si permise di alludere al Pontefice come “cappellano di corte del re di Francia”.

È probabile che inizialmente la maggioranza dei contemporanei interpretasse il soggiorno in Francia del Pontefice come una misura eccezionale e transitoria, imposta dalle difficoltà del momento. D’altronde, non si poteva dire che Clemente V avesse disertato di proposito la sede romana, poiché semplicemente non si era mai deciso ad andarci: la nomina del Conclave, che tra l’altro si era tenuto a Perugia, lo raggiunse a Bordeaux, dove egli era arcivescovo, e il neo eletto Papa, anziché mettersi in viaggio per Roma, invitò i cardinali a presentarsi da lui. L’incoronazione ebbe luogo a Lione, nella chiesa di San Giusto, presente il Re di Francia Filippo IV, i principi reali e il duca di Bretagna. Praticamente, la cattività avignonese era iniziata senza che nessuno se ne fosse reso conto.

LE PREMESSE

Per comprendere la decisione di non abbandonare il territorio francese, è necessario esaminare nel dettaglio le premesse che la determinarono.

Durante il governo degli immediati predecessori di Clemente V, la tensione fra la Chiesa e il Re di Francia, Filippo il Bello, aveva raggiunto punte drammatiche. Contemporaneamente, le guerre fra le più potenti famiglie aristocratiche di Roma (Colonna, Orsini, Caetani, Frangipani, Annibaldi, Savelli) infuriavano con una ferocia degna dei secoli più bui del Medio Evo: ogni casata possedeva piazzeforti in città e castelli in campagna, e le bande armate ai loro ordini scatenavano massacri e colpi di mano. Intimoriti dall’atmosfera che si respirava all’epoca nell’Urbe, nell’ultima parte del XIII secolo, i Papi avevano ampliato e fortificato il palazzo vaticano, arricchendolo non solo di giardini, ma anche di solide mura e di torri, preferendolo alla loro dimora più antica, il Laterano, ritenuto indifendibile in caso di aggressione.

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Alla fine del secolo, poi, il dissidio fra Bonifacio VIII e il re di Francia Filippo il Bello si era incattivito intorno alla questione delle tasse, con cui il sovrano bersagliava i beni ecclesiastici, senza curarsi di ottenere l’autorizzazione papale e senza permettere il consueto inoltro delle “decime” a Roma. La lotta passò poi dal terreno economico a quello politico quando il Pontefice, dopo vari tentativi di compromesso, scelse di affermare la propria supremazia sulle autorità civili e si dispose a pubblicare l’interdetto contro la Francia e la scomunica del re: un tale provvedimento, a parte il suo peso morale, aveva anche un peso politico non indifferente, poiché la scomunica scioglieva automaticamente i sudditi dal dovere d’ubbidienza al sovrano.

LO SCHIAFFO DI ANAGNI

È esattamente in questa fase che si inserisce nella storia uno dei più noti e clamorosi episodi del Medioevo italiano, ossia il cosiddetto “schiaffo d’Anagni”. Una banda di armigeri, capitanati dall’emissario di Filippo il Bello, Guglielmo da Nogaret, e sostenuti da Giacomo Sciarra Colonna, sorprese Bonifacio VIII nel Palazzo di Anagni e lo tenne prigioniero per tre giorni, senza risparmiargli i peggiori insulti: Sciarra Colonna, secondo la tradizione, giunse a schiaffeggiarlo sul viso con la mano ricoperta dal guanto di ferro, sebbene secondo molti studiosi tale atto sia stato nulla più che uno “schiaffo morale”, inteso come umiliazione nei confronti del Pontefice.

Il piano degli assalitori era di prendere prigioniero il Papa e trascinarlo in Francia, dove un concilio di vescovi locali lo avrebbe proclamato decaduto dal suo ufficio. Il quarto giorno, però, una sollevazione popolare, fomentata dal cardinale Fieschi e dagli Orsini, riuscì a liberare Bonifacio VIII. Quattrocento cavalieri a lui fedeli gli fecero scorta durante il ritorno nella capitale, ma l’oltraggio l’aveva fiaccato nel corpo e nello spirito: il Papa sopravvisse appena un mese, e il 12 ottobre 1303 si spense nel palazzo vaticano.

Gli succedette il cardinale Niccolò Boccasini, veneto di Treviso, descritto dallo storico fiorentino Giovanni Villani con le seguenti parole: “buono uomo, e onesto e giusto, e dì santa e religiosa vita, che avea voglia di fare ogni bene”. Ne fece poco tuttavia perché, dopo soli nove mesi di governo, morì improvvisamente a Perugia, dove si era recato disperando di riportare l’ordine politico e sociale nella città di Roma. La sua scomparsa diede origine a voci sinistre: si disse che era stato avvelenato con un piatto di fichi, in una trama ordita da gruppi di potere senza scrupoli, guidata nell’ombra proprio dal Re di Francia, compreso nella bolla di scomunica che il Papa, ai primi di giugno del 1304, aveva scagliata contro gli autori dell’oltraggioso “schiaffo”.

L’ELEZIONE DI CLEMENTE V

Tutti questi eventi rappresentavano altrettanti segni dell’insicurezza in cui si trovava ormai il Papato in Italia, con il futuro che si presentava pieno di incognite. Ad ogni modo, il Re di Francia stavolta era deciso a non lasciarsi prendere in contropiede da un altro “conclave lampo”, come quello che aveva posto sul trono Benedetto XI, a dieci giorni esatti dalla morte del predecessore. L’ostruzionismo del partito filofrancese si manifestò subito e divise il Sacro Collegio in due gruppi: da un lato quello dei “patrioti italiani”, dall’altro quello più favorevole alle mire di Filippo il Bello.

Le sedute si aprirono a Perugia il 10 luglio 1304, ma dieci mesi più tardi esse si trascinavano ancora senza una soluzione, lasciando l’interdetta cristianità senza un Papa. Alla fine, si giunse ad un compromesso: il “partito italiano” avrebbe sottoposto ai colleghi di Oltralpe una terna di candidati stranieri, fra i quali questi ultimi avrebbero approvato la loro scelta entro quaranta giorni. Tra i papabili figurava il guascone Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, che in passato aveva dato prove di fedeltà alla sede romana e mantenuto una certa indipendenza nei confronti di Filippo, tanto più che la sua sede vescovile, Bordeaux, nel 1303 era stata assoggettata dal Re d’Inghilterra.

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I grandi elettori del partito d’Oltralpe decisero di puntare su di lui, avvertendo nel frattempo in gran segreto Filippo il Bello: il sovrano francese, a quel punto, convocò l’arcivescovo nel suo palazzo, prese accordi con lui e, dopo essersene assicurato l’appoggio, diede disposizioni perché fosse eletto. Sebbene non ci siano prove di tale incontro, accennato comunque anche da Dante Alighieri, è certo che le successive compiacenze del nuovo Papa verso il re di Francia, negli anni che seguirono, furono tali da dar credito alle voci di un accordo anteriore all’elezione.

Bertrand de Got prese il nome di Clemente V. La sua decisione di differire l’entrata in Roma stupì i cardinali italiani, ma un auspicio ancor peggiore si verificò a Lione il giorno della sua incoronazione (14 novembre 1305): il Papa infatti, cavalcando alla testa del corteo, fu investito dal crollo improvviso di un muro e sbalzato di sella, mentre la sua tiara rotolò nella polvere e perdette una delle più belle gemme che la adornavano. L’incidente causò tra il seguito una dozzina di vittime, tra le quali il duca di Bretagna, che morì qualche tempo dopo in conseguenza delle lesioni ricevute.

Ben presto apparve chiaro a tutti che il nuovo Pontefice non avesse la minima intenzione di recarsi a Roma. Come già ai suoi predecessori, i Romani gli avevano offerto la potestà senatoria a vita, con facoltà di farsi rappresentare da un vicario: per l’appunto, Papa Clemente V inviò nell’Urbe il suo vicario, la cui autorità rimase puramente nominale, con il Pontefice che si guardò bene dal metter piede nella Città Eterna, ormai in preda all’anarchia conseguente alla guerra fra le fazioni nobiliari.

LA SCELTA DI AVIGNONE

Il Papa si stabilì dapprima nella sua nativa Guascogna e quindi in Linguadoca; finalmente, dal 1309 in poi, prese dimora ad Avignone, per meglio sorvegliare il Contado Venassino, un territorio che la Chiesa aveva ricevuto da Raimondo di Tolosa al tempo della Crociata contro gli Albigesi. Avignone in realtà non faceva parte del contado, ma il suo territorio confinava con esso: la città apparteneva ai conti di Provenza, un ramo della casa d’Angiò, recentemente insediato sul trono di Napoli ufficialmente il Papa si ritrovò ad essere un vero e proprio ospite del re di Napoli.

Clemente V, in mancanza di una sede adatta, prese alloggio al convento dei Domenicani, dettaglio che diede l’impressione che la sistemazione ad Avignone fosse provvisoria e che quindi non scatenò eccessivo scalpore. Per valutare l’atteggiamento dei contemporanei, occorre tener presente che i Papi del Medioevo e del Rinascimento viaggiavano molto di più di quanto accaduto nell’ultimo secolo, e che anche le corti dei sovrani medioevali si spostavano con frequenza da una città all’altra; molti Paesi non avevano neppure una capitale fissa. Queste abitudini dovettero rendere tollerabile l’idea di una corte papale installata “pro tempore” fuori Roma.

Quando però, morto Clemente V, gli succedette Giovanni XXII (al secolo Jacques Duèse), anche lui francese e precedentemente vescovo d’Avignone, e questi mise mano all’organizzazione definitiva della Curia nella nuova sede, l’allarme cominciò a diffondersi in Italia e le voci sulla “servitù del papato” presero consistenza.

LA QUESTIONE DEI TEMPLARI

In effetti, la politica ricattatoria di Filippo il Bello aveva condizionato tutti i nove anni di governo di Papa Clemente V. Il re teneva continuamente sospesa sulla testa del Papa, quasi fosse una spada di Damocle, la minaccia di riaprire il processo contro il defunto Bonifacio VIII, facendolo condannare come eretico dai vescovi a lui fedeli: tutto ciò avrebbe ovviamente provocato un clamoroso scandalo nella Chiesa cristiana. Mentre ancora Bonifacio VIII era vivo, infatti, Filippo era riuscito a far bruciare pubblicamente le sue bolle sul sagrato di Notre-Dame a Parigi, un fatto senza precedenti nel Medioevo.

Con questo ricatto, il re francese ottenne da Papa Clemente V l’abrogazione dei provvedimenti presi dal suo predecessore, ottenendo campo libero nella gestione della vicenda dei Templari. L’ordine dei monaci cavalieri Templari era ormai parecchio decaduto, ben lontano dalla primitiva austerità, e l’opinione pubblica li accusava di apostasia e di ogni sorta di delitti. Ancora oggi, gli atti di accusa galleggiano in una sorta di oblio denso di incertezza, anche perché gran parte degli atti processuali andarono perduti e, come spesso accadeva all’epoca, di certo molte ammissioni di colpa vennero strappate a colpi di tortura. Ad ogni modo, il re di Francia era indifferente alla moralità dei Templari, ma non lo era altrettanto ai tesori che l’Ordine aveva ammassato in circa due secoli di vita. Ottenuta quindi da Papa Clemente V la soppressione della comunità, Filippo il Bello procedette alle esecuzioni e alle confische con selvaggia ferocia: in un solo giorno, a Parigi, ben 54 Templari vennero bruciati vivi.

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BENEDETTO XII E IL PALAZZO VECCHIO

Re e Papa morirono a pochi mesi di distanza, entrambi nel 1314. In ogni caso, anche se la pressione da parte della monarchia francese sulla Santa Sede non tornò mai più ad essere quella del tempo di Filippo il Bello, l’atteggiamento del nuovo Pontefice dimostrò ben presto come le speranze di un ritorno a Roma fossero premature: ben sette Papi dovettero infatti succedersi sul trono avignonese, da Clemente V a Gregorio XI, prima che la sede del Vicario di Cristo fosse definitivamente ristabilita accanto alla tomba del Principe degli Apostoli. Per settant’anni la cristianità dovette assistere all’assurdo di un Vescovo di Roma perpetuamente lontano dalla sua diocesi e di una Chiesa apostolica e romana facente capo ad Avignone, dove nessun apostolo si era mai recato né tantomeno aveva subito il martirio.

Ogni tanto i Papi avignonesi, benché francesi ed attaccatissimi alla loro terra, avvertivano il disagio di una simile situazione. Ancora nel 1332 Papa Giovanni XXII, ormai quasi novantenne, parlava di tornare in Italia, alludendo alla possibilità di una sistemazione in quel di Bologna, considerati i continui disordini “anarchici” di Roma. Il suo successore, Papa Benedetto XII, dinanzi all’ennesima ambasceria proveniente da Roma, ammise lealmente il buon diritto dei Romani nel reclamare il suo ritorno e si impegnò ad esaudirne le preghiere, ma non appena il re di Francia conobbe le intenzioni del Pontefice, si intromise ad impedire che andassero ad effetto, a dimostrare come lo stato di soggezione perdurasse ancora.

Rassegnatosi, Benedetto XII iniziò a metter mano alle grandi costruzioni che dovevano assicurare al Papato una degna sede in Avignone: è infatti opera sua il cosiddetto Palazzo Vecchio, la parte più antica della dimora pontificia, che nelle sue linee sobrie e severe, che si adattavano assai meglio a quelle di una fortezza o di un monastero che del palazzo papale, rifletteva lo spirito austero del Pontefice educato in gioventù come monaco, ben lontano dalle pompe mondane.

La notizia di questi lavori diffuse in Roma la costernazione. Invano i Romani avevano offerto a Benedetto XII, oltre alla solita potestà senatoria, anche la signoria a vita: nonostante il suo interesse per la città, maggiore di quello dei predecessori, il Papa non si mosse da Avignone.

CLEMENTE VI E IL PALAZZO NUOVO

Il suo successore, all’anagrafe Pierre de Beaufort, salito al trono con il nome di Clemente VI, fece un passo ancor più netto sulla via della definitiva sistemazione: con un atto datato 9 giugno 1348, comperò la città di Avignone dalla regina Giovanna di Napoli, che ne aveva la sovranità feudale, per la somma di 80.000 fiorini. Giovanna, che era stata cacciata dal suo trono napoletano per opera di Luigi I d’Ungheria e si era rifugiata in Provenza, effettuò la vendita spinta dalla necessità di denaro, che le serviva ai fini della riconquista di Napoli.

Da quel momento in poi, i Papi divennero “proprietari del territorio”: Clemente VI, che aveva gusti artistici ben più raffinati del suo predecessore, essendo stato allevato in una ricca casa nobiliare, aggiunse all’austero Palazzo Vecchio costruito da Benedetto XII il Palazzo Nuovo, più elegante ed accogliente, immagine fedele del suo spirito che per certi versi anticipava gli atteggiamenti dei Papi mecenati del Rinascimento.

LA CRESCITA DI AVIGNONE

Avignone visse, in questo periodo, un’epoca di splendore senza precedenti: da mediocre borgata di provincia all’inizio del XIV secolo, relegata in secondo piano da Arles e Marsiglia, si trovò di colpo promossa al rango di capitale della cristianità. Al prestigio seguì la prosperità, in tutte le forme: il moltiplicarsi dei traffici commerciali, l’inesorabile incremento della popolazione, il boom edilizio ed il conseguente diffondersi del benessere. Non meno di quattromila persone gravitavano attorno alla Corte papale.

Gli italiani d’Avignone, fra cui era particolarmente numerosa la colonia fiorentina, occupavano un intero quartiere, raccolto intorno alla parrocchia di San Pietro e avente giurisdizione sua propria. Qui si parlava italiano, mentre la lingua prevalente nel resto della città era il provenzale. Le grandi banche italiane (fiorentine e senesi) non avevano perso tempo nell’impiantare le loro filiali in città: esse erano così rinomate che il re di Francia Carlo V, avendo necessità di un prestito di centomila fiorini, ricorse ai banchieri italiani di Avignone e fu subito accontentato.

Sebbene Avignone fosse ovviamente ben protetta all’interno del Regno di Francia, i Papi provvidero comunque ad elevare una nuova cinta di bastioni. Il risultato finale non fu molto brillante, probabilmente perché i committenti, poco esperti di arte militare, si affidarono ad architetti civili, che non erano al corrente delle più recenti tecniche di difesa; fu in tal senso una fortuna che il sistema di fortificazioni da essi creato non dovesse essere messo a seria prova, considerato che i più gravi rischi che la capitale pontificia dovette affrontare furono rappresentati dalle periodiche incursioni dei routiers, semplici briganti di strada che rappresentavano uno dei flagelli del Medioevo. Queste bande armate, in genere, erano costituite da mercenari delle compagnie di ventura, che, scaduto il termine d’ingaggio, vivevano di rapine, spargendo il terrore fra la povera gente dei campi. Quando una di queste bande veniva segnalata nei dintorni di Avignone, i Papi solevano pagare somme di denaro ai briganti affinché se ne andassero senza far danni: la cosa curiosa è che spesso, prima di allontanarsi, i banditi reclamavano la benedizione papale.

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Avignone era quindi una città di contrasti. Da un lato le schiere dei briganti, dall’altro le variopinte compagnie dei penitenti, con uniformi di vario colore, che proponevano ideali umanitari e di mutuo soccorso. Sovente, sotto quei poveri e pittoreschi abiti incappucciati, si nascondevano famosi rappresentanti della nobiltà locale, che un bisogno di penitenza e di mortificazione spingeva a indossare la casacca di una confraternita e magari a flagellarsi sulla pubblica via. In tal modo, vizio e virtù convivevano a fianco a fianco nella capitale pontificia.

Avignone divenne il rifugio favorito di ogni sorta di avventurieri: alchimisti, ricettatori, falsari di moneta, contrabbandieri, tenutari di case di piacere. Il poeta Francesco Petrarca la biasimò con parole inequivocabili: “È una fogna, in cui vengono a confluire tutte le immondizie dell’universo. Vi si disprezza Dio, vi si adora il danaro, vi si calpestano le leggi divine ed umane, vi si respira la menzogna: nell’aria, nella terra e soprattutto nelle camere da letto”

Era una vera e propria corsa all’oro. Le rendite della Corte pontificia erano cospicue, e la tradizionale rapacità dei funzionari francesi le aveva ancora aumentate. Non per altro, uno dei più importanti dignitari della cerchia avignonese era il Camerlengo, ossia il ministro delle finanze, seguito dal Tesoriere. Principi e sovrani erano ricevuti con gli onori dovuti al loro grado e mantenuti con tutto il seguito durante la permanenza ad Avignone: gli alloggi di questi nobili ospiti, in un’ala del palazzo pontificio, comunicavano direttamente con gli appartamenti papali. Oltre a ciò, una vasta porzione di rendite era assorbita dalla folla di funzionari e impiegati, nonché di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, vivevano ai margini della Corte papale e reclamavano la propria parte di benessere.

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UNA SECONDA ROMA

Tuttavia le invettive del Petrarca devono essere valutate all’interno del quadro dell’appassionata battaglia da lui combattuta per riportare il Papa a Roma, che divenne ancor più serrata ed accanita dopo la metà del secolo, quando cioè la realtà del trasferimento assunse caratteri definitivi.

Avignone era ormai una seconda Roma. Tutti gli organi principali della Curia vi erano stati trasportati: il palazzo era ormai perfettamente attrezzato per ospitare il Tribunale Pontificio, il Concistoro ed il Conclave. Il Papa impartiva la sua benedizione ai fedeli dalla loggia antistante la Cappella Clementina, attraverso la cosiddetta “finestra dell’Indulgenza”, così come un tempo i suoi predecessori solevano darla dal Vaticano o dal Laterano.

Roma era ormai una città lontanissima dai Papi. Nel corso del XIV secolo, erano giunti nella Città Eterna uomini che avevano fatto la storia, come gli imperatori Ludovico il Bavaro e Carlo di Boemia, il tribuno Cola di Rienzo e persino l’Antipapa Niccolò V, al tempo del dissidio fra Ludovico il Bavaro e la Santa Sede, ma il Pontefice rimaneva un’immagine lontana, un’ombra all’orizzonte.

Non era però solo Petrarca ad insistere con veemenza perché il Pontefice ritornasse a Roma: da tutto il mondo cattolico giungevano infatti esortazioni e preghiere in questo senso. Un anno prima di morire, nel 1361, Papa Innocenzo VI aveva progettato una visita nell’Urbe, con lo stesso Imperatore Carlo IV ad offrirsi di accompagnarlo, ma poi la vecchiaia e gli acciacchi avevano costretto il Pontefice a rimandare il viaggio, che non fu più effettuato.

IL RITORNO DI PAPA URBANO V

Il suo successore, Guglielmo di Grisac, che prese il nome di Urbano V, parve sin dall’inizio del suo governo piuttosto propenso a considerare l’eventualità di un suo ritorno. Egli era stato nunzio alla corte di Napoli e pertanto, conoscendo già l’Italia, non era soggetto alle prevenzioni tipiche degli altri cardinali francesi, ostinati a considerare la penisola come un covo di banditi dalle condizioni di vita pessime ed incerte.

Come aveva fatto già con i Papi precedenti, Petrarca scrisse anche a Urbano V, reiterando le esortazioni al ritorno. In tal senso, la sua lettera è un documento di grande interesse per conoscere i retroscena della disputa pro e contro Roma. Una notevole parte di essa tratta, con la massima serietà, dei vantaggi dei vini italiani: a quanto pare, infatti, uno dei più tenaci argomenti dei cardinali francesi era costituito dal timore di trovarsi privi dei prediletti vini di Borgogna. Petrarca cerca di tirare acqua al proprio mulino: “Nessuno ve ne vuole privare. Se proprio non vorrete adattarvi ai vini italiani, rammentate che il Tevere è navigabile e potrete far venire per quella via, con tutta facilità, le vostre botti di vino borgognone”.

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Su Urbano V, però, spirito serio e acutamente coscienzioso, più che le argomentazioni in favore del vino avevano potere altri motivi, più profondi: uno di questi era dato dagli accorati appelli della principessa Brigida di Svezia, la grande fondatrice di monasteri, che reclamava in nome di tutta la Cristianità il rientro del supremo Pastore nella sede degli apostoli.

Tuttavia Urbano V trovò attorno a sé un sordo ostruzionismo. Gli unici personaggi favorevoli al progetto di ritorno erano, oltre ai tre cardinali italiani della Curia, il fratello del Papa ed il prelato francese Philippe de Cabassole, grande amico del Petrarca. Quando le intenzioni del Pontefice trapelarono a corte, il re di Francia si precipitò ad inviare ambascerie e suppliche, ma i suoi sforzi si rivelarono vani.

Il 20 maggio 1367 Urbano V e il suo seguito salparono da Marsiglia con sessanta galere, fornite dalle città marinare italiane. La flotta toccò Genova e Pisa, in mezzo a festività d’ogni genere, e infine prese terra a Corneto, in Maremma. Di là, con un trionfale pellegrinaggio attraverso il Centro Italia, il Papa raggiunse Viterbo. L’entrata in Roma fu differita fino all’autunno, per timore delle febbri che infestavano la città nei mesi estivi, e quando finalmente avvenne, sabato 16 ottobre 1367, ebbe una solennità indimenticabile.

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Insieme all’imperatore Carlo IV, venuto appositamente per l’occasione, furono i più grandi signori italiani a scortare il Papa: tra gli altri, spiccavano il marchese d’Este, il conte Amedeo VI di Savoia e la delegazione dei Malatesta di Romagna. Il popolo romano gli andò incontro in massa, con palme, fiori e stendardi, preceduto dai magistrati e dal clero. Il Pontefice cavalcava un cavallo bianco, sul cui capo si distingueva il vessillo della Chiesa.

La processione giunse così a San Pietro, dove Papa Urbano V si inginocchiò in preghiera sulla tomba dell’Apostolo. Quindi, rialzatosi, prese posto sulla cattedra dove, da 63 anni, non si era più seduto nessun Papa. Fu l’apoteosi.

DALLA GIOIA ALLO SCONFORTO

Gli echi dell’entrata trionfale a Roma non si erano ancona spenti, che già i mormorii dei prelati francesi si sollevavano da ogni parte. Anche il vino italiano dovette dare davvero cattiva prova di sé, se già dopo pochi mesi Urbano V ordinava di far venire dalla Francia decine di litri di vino borgognone. In realtà, i francesi si lamentavano letteralmente di tutto: a detta loro, ad esempio, gli italiani non sapevano cantare in chiesa, limitandosi semplicemente a “belare alla maniera delle capre”.

Continui e sprezzanti erano i paragoni con le cose di Francia, e particolarmente il richiamo alla Sorbona, descritta come “l’onnipotente università di Parigi, donde escono tanti dottori, baccellieri, laureati, e per la quale essi credono d’illuminare il mondo e la fede cattolica, a guisa d’un sole”. Un anonimo francese dell’epoca, ribattendo una per una le argomentazioni del Petrarca in favore di Roma, ricapitolava il punto di vista dei suoi connazionali, invocando a sostegno di Avignone la sua posizione centrale, utilissima per l’azione religiosa del Papa nei confronti dell’Europa e per il pronto inoltro delle cause al tribunale pontificio, ed esaltandone per l’appunto la relativa vicinanza alla facoltà teologica della Sorbona, lume di tutta la cristianità.

Ad un certo punto, Urbano V non seppe più resistere a questi continui mormorii. A Roma non si sentiva d’altronde particolarmente sicuro, ed era inoltre appena morto Egidio d’Albornoz, il “braccio armato” dei Pontefici, l’unico capace di fronteggiare la complessa situazione politica in Italia. I cardinali francesi esortavano continuamente il Papa a tornare ad Avignone, con l’intento giustificativo di fare da paciere tra la Francia e l’Inghilterra, ed alla fine il Pontefice si convinse a seguirli, seppur con un pizzico di amarezza.

Il 24 settembre 1370 il Papa Urbano V si ritrovava di nuovo nelle stanze del suo palazzo di Avignone.  DI lì a poco, rispettando in pieno la predizione ricevuta da Brigida di Svezia, lo colse la morte.

CATERINA DA SIENA

Al suo posto fu eletto Guillaume de Beaufort, con il nome di Gregorio XI. La situazione sembrò tornata indietro di anni, e la delusione del Petrarca fu amarissima: egli aveva tentato con tutte le risorse della sua dialettica di dissuadere Urbano V dall’abbandonare Roma e forse, se avesse potuto raggiungerlo nell’Urbe per parlarci faccia a faccia, la malaugurata partenza non sarebbe avvenuta. Il poeta era però ormai vecchio e sofferente, tanto da morire nel 1374, quando il definitivo ritorno del Papato nella capitale sembrava più che mai problematico.

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In realtà, questa visione così negativa non era destinata a realizzarsi, grazie anche agli sforzi di un’altra grande anima italiana: Caterina da Siena. La santa, popolarissima tanto presso gli umili quanto presso i potenti, era divenuta di fatto la continuatrice dell’opera di Brigida di Svezia, e non cessava di reclamare, a voce e nelle lettere, il ritorno del Papa a Roma.

Fu proprio Caterina a parlare davanti al Papa francese Gregorio XI ed alla sua corte, parlando in volgare toscano e lasciando che il suo confessore, Frate Raimondo, traducesse frase per frase in latino. “Babbo mio, io vi dico: Venite, venite, venite, e non aspettate il tempo, ché il tempo non aspetta Voi”, ripeteva al Santo Padre. La potenza carismatica di Santa Caterina doveva essere davvero poderosa, considerato che ella chiamava “demoni incarnati” tutti coloro che si opponevano al manifesto volere di Dio, ossia al ritorno del Papa nella Città Eterna.  

Oggi gli storici francesi tendono a sostenere che non fu l’ambasciata di Caterina il motivo determinante che spinse Papa Gregorio XI ad abbandonare Avignone, e che la sua decisione in tal senso stesse già maturando da tempo. Indipendentemente da quale sia la realtà storica, evidentemente concretizzatasi sulla base di un intreccio di eventi, la coincidenza delle date ha tuttavia una nota di suggestione: il 18 giugno 1376 Caterina giunse ad Avignone e meno di tre mesi dopo, il 13 settembre del medesimo anno, Gregorio XI si mise in viaggio alla volta di Roma.

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IL RITORNO DEL PAPA A ROMA

La sua uscita dal palazzo avignonese fu drammatica: in un estremo e teatrale tentativo di trattenerlo, il vecchio padre del Pontefice si distese sulla soglia, ma il Papa, mormorando le parole di un salmo, scavalcò il corpo del vecchio genitore.

L’entrata trionfale a Roma avvenne il 17 gennaio 1377, come illustrato da Giorgio Vasari in uno splendido affresco, dopo una serie di traversie e ripensamenti.

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Due soli mesi più tardi, però, il Papa morì, dando speranze di rivincita al partito avignonese; il popolo romano, tuttavia, fiutando il vento infido, rumoreggiava alla soglia dei sacri palazzi gridando “Romano o italiano lo volemo!”. L’appello ottenne il risultato desiderato, poiché venne eletto l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che assunse il nome di Urbano VI. Fu proprio sotto il suo pontificato, anche e soprattutto per opera del partito francese, ostinato a non volersi arrendere al fatto compiuto, che si determinò quella dolorosa frattura nella Chiesa nota come lo Scisma d’Occidente, che avrebbe spaccato la Cristianità in due campi avversi, l’uno fedele al Papa di Roma, l’altro all’Antipapa di Avignone.

In ogni caso, nel bel mezzo della lotta intestina che travagliava il mondo cristiano, c’era un’unica nota certa: la grande epoca di Avignone quale sede papale era definitivamente tramontata.

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