La Battaglia di Lepanto

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LA BATTAGLIA DI LEPANTO

L‘alba del 7 ottobre 1571 annunciava sul Mar Ionio una serena giornata di primo autunno, con una lieve brezza da oriente ad increspare appena la superficie del mare. Manovrando controvento, al largo delle isole Curzolari, un minuscolo arcipelago greco, avanzava a forza di remi la più imponente flotta di galee che la cristianità fosse mai riuscita a raccogliere per dar battaglia ai Turchi. Divise in tre squadre, più di duecento galee della Lega organizzata da Papa Pio V sono in caccia della flotta turca alla fonda nel golfo greco di Lepanto.

È stato nella tarda notte del 6 ottobre che i tre capitani cristiani, lo spagnolo Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, il veneziano Sebastiano Venier e il pontificio Marcantonio Colonna, hanno deciso di non frapporre indugi e di lasciare il porto di Cefalonia per andare incontro ai Turchi e costringerli alla battaglia. Nella decisione ha pesato, più di ogni altra tattica, l’ardore del settantacinquenne Venier, preoccupato per la sua Venezia, ogni giorno più dissanguata dalla pressione ottomana nel Mediterraneo Orientale e nel Mar Egeo.

Contro le argomentazioni del Venier, Don Giovanni d’Austria, capo supremo della flotta a soli ventitré anni, è stato quasi obbligato a lasciare da parte ogni esitazione: questa è la prima e l’ultima occasione che si presenterà infatti alla Lega, prima dell’arrivo del brutto tempo che impedirà le manovre navali e farà rimandare il nuovo raduno delle forze cristiana nella primavera seguente.

LA PRESA DI CONTATTO

Pertanto, tolti gli ormeggi in piena notte, le galee cristiane hanno fatto rotta per il Golfo di Patrasso, sulla cui riva settentrionale si apre il piccolo Golfo di Lepanto. Ora, all’alba del 7 ottobre, i Cristiani sono ormai giunti alle Curzolari, ed è proprio quando il sole comincia a spuntare all’orizzonte che le avanguardie danno il segnale di navi che avanzano in senso opposto. Il nemico è avvistato.

Si tratta della flotta ottomana al comando di Alì Pascià che, lasciata Lepanto, sta avanzando in forze, con tutte le sue 280 imbarcazioni.

Assolto il loro compito di avvistamento, le galee leggere tornano a unirsi al grosso della flotta. Ora le decisioni spettano ai capi: Don Giovanni d’Austria, benché parzialmente impreparato ad una così improvvisa presa di contatto col nemico, comprende che non può rifiutare il combattimento, e ordina che si dia il segnale d’attacco, sparando un colpo a salve ed issando uno stendardo verde sull’albero di trinchetto della sua galea, la Reale.

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Immediatamente, nello schieramento cristiano, ognuno cerca di prendere al più presto la propria posizione nello schieramento: le galee cominciano quindi a dispiegarsi in una lunga linea frontale, secondo i dettami della strategia nautica dell’epoca. L’ala sinistra della Lega, al comando del veneziano Agostino Barbarigo, poggia verso la vicina costa etolica in modo da chiudere il mare alle galee nemiche che volessero compiere un tentativo di aggiramento da quella parte; l’ala destra, al comando del genovese Gianandrea Doria, si allunga verso sud per lasciare modo al centro di disporsi anch’esso su una linea.

La manovra però, un po’ perché eseguita con vento contrario ed un po’ per il nervosismo dei capitani di galea, troppo desiderosi di raggiungere rapidamente il proprio posto, mostra alcuni pericolosi sbandamenti, tanto che, come riferisce un cronista dell’epoca, “Don Giovanni si lascia andare a qualche santa imprecazione”.

Intanto, anche i Turchi procedono a formare il loro schieramento. Sulla Reale di Alì Pascià garrisce lo stendardo musulmano venuto dalla Mecca: un bianco vessillo sui cui lati in caratteri d’oro è scritto: “Ai fedeli divino auspicio e ornamento. Nelle degne imprese Dio protegge Maometto”. L’ala destra, contrapposta al veneziano Barbarigo, è agli ordini di Mehemet Saulak Scirocco, il centro è sotto il comando diretto di Alì Pascià, mentre l’ala sinistra è retta da Luca Galeni, un cristiano rinnegato, che aveva assunta il nome di Iug-Alì. In tutto sono 221 galee, 58 galeotte e 18 fuste.

Le forze cristiane comprendono invece 204 galee e 6 galeazze. Inferiori come numero di legni, pareggiano gli ottomani nel numero di soldati, di marinai e di galeotti (ossia rematori), e soprattutto superano il nemico per quanto riguarda le bocche da fuoco sia leggere (i turchi hanno soltanto 2500 archibugieri) che pesanti: 1800 cannoni i Cristiani, 750 i Turchi.

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Mentre la squadra della Lega si sta assestando, Don Giovanni sembra colto da un dubbio: sale quindi su un’imbarcazione veloce, si fa portare sotto la galea di Sebastiano Venier e chiede al vecchio ammiraglio: “Che si combatta?”.

Venier risponde serafico, con una scrollata di spalle: “È necessità et non si può far di manco”.

Don Giovanni allora, in armatura e con un Crocifisso in mano, passa in rassegna l’armata, ritto a prua dell’imbarcazione, esortandola al combattimento e promettendo la libertà ai rematori condannati al remo per delitti civili se faranno bene il loro dovere. Poi torna alla Galea Reale, mentre Francesco Duodo, capitano delle sei galeazze, fa rimorchiare le proprie navi al posto loro assegnato, ossia davanti alle tre squadre, due per ciascuna squadra.

LE NAVI CRISTIANE E TURCHE

Cos’è esattamente la galeazza?

Inventata dai veneziani nella prima metà del XVI secolo, la galeazza costituisce l’asso nella manica dell’armata cristiana. Si tratta di una via di mezzo tra la galea e i grandi vascelli a vela che si andavano costruendo in quel secolo; lunga una volta e mezzo una galea (quindi tra i settanta e gli ottanta metri), essa è dotata di tre alberi oltre che di venticinque remi per parte, ognuno dei quali manovrato da sette uomini, per un totale di 350 rematori. Quella che però la rende particolarmente temibile è la dotazione di una settantina di pezzi d’artiglieria, il maggiore dei quali è il cannone centrale di prua, in grado di scagliare una palla di ferro del peso di quasi quaranta chili, affiancato da altri due cannoni di calibro lievemente inferiore. In aggiunta a tale artiglieria, essa presenta nelle piazzole di prua e di poppa un’altra decina di pezzi di piccolo calibro e, sui fianchi, due petriere (bombarde in grado di lanciare palle di pietra) i cui proiettili vantano un peso fino a venticinque chili. Insomma, la galeazza veneta, inventata dal senatore Giovanni Andrea Badoaro, è una vera e propria fortezza galleggiante, capace di un volume di fuoco del tutto insolito per una nave del suo tempo. Unico suo difetto, la scarsa manovrabilità in assenza di vento: per questo motivo, le sei galeazze sono giunte al Golfo di Lepanto rimorchiate da altre navi.

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La galea mediterranea, invece, è divenuta celebre all’epoca delle Repubbliche Marinare, arrivando a perfezionarsi nei secoli. Lunga non più di cinquanta metri, è costituita da uno scafo leggero su cui viene posto un ampio telaio rettangolare sporgente dal bordo; ai lati del telaio ci sono i banchi di voga (da venticinque a trenta) su cui siedono i rematori. I remi sono lunghi una decina di metri e costituiscono il principale mezzo di propulsione della galea, in grado però di muoversi anche con la forza del vento grazie alle vele montate sull’unico albero. Su ogni galea sono imbarcati da ottanta a cento soldati, oltre agli ufficiali e ad una settantina di uomini di equipaggio. L’artiglieria si trova tutta a prua, in un armamento specifico per un attacco frontale: un pezzo centrale con palla da venti chili circa, e quattro pezzi minori, due per lato.

La galea turca non differisce molto da quella dei cristiani, se non per il fatto che il ponte di prua è più alto e di conseguenza anche le artiglierie sono in posizione più elevata, dettaglio che garantisce in teoria una maggior gittata a distanza. A tali imbarcazioni, i Turchi aggiungono inoltre le galeotte, piccole galee prive del telaio rettangolare posto sopra lo scafo.

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La maggiore differenza fra i Cristiani e i Turchi non è però sui pezzi della flotta, quanto sui rematori. Mentre sulle navi turche i galeotti sono quasi tutti schiavi, cristiani e non, sulle galee cristiane i vogatori sono solo in parte costituiti da prigionieri: quelli operanti sulle galee veneziane, ad esempio, sono quasi tutti uomini liberi, ingaggiati appositamente per quel duro mestiere e ricompensati con premi in denaro e concessione di particolari diritti civili.

LA TATTICA INIZIALE

Dopo l’incitamento di Don Giovanni, sulle galee veneziane si approntano le armi per i soldati e i marinai, si distribuiscono corazze ed elmi anche ai vogatori e si pongono a portata delle loro mani spade, spadoni, mazze ferrate, accette, picche ed alabarde: quelle braccia rese d’acciaio dall’esercizio del remo sapranno far buon uso di tali armi nel momento cruciale della lotta, ossia quando si arriverà al corpo a corpo.

Il sole è ormai alto, quando Don Giovanni fa innalzare sulla Reale lo stendardo della Lega su cui, in campo cremisi, spicca ricamato Cristo in croce. Proprio in quei minuti che precedono il combattimento, il vento cade e sul mare si stende una calma perfetta. Dai ponti delle galee cristiane, gli uomini vedono lontano afflosciarsi le vele turche: il nemico è privato di un elemento a proprio favore.

Inginocchiati sul ponte, soldati, marinai e ufficiali, da Don Giovanni d’Austria al più umile mozzo, recitano una preghiera e sono benedetti dal frate cappuccino che è su ogni galea. È ormai mezzogiorno e le flotte sono quasi a tiro di cannone.

Alì Pascià, intanto, ha fatto ammainare le vele alle galee del suo schieramento e, dato ordine di non sopravanzare la sua ammiraglia, fa vogare di buona lena contro i Cristiani. Le fruste degli aguzzini sibilano sulle schiene dei galeotti, pronti ad ascoltare con terrore il tuonare delle artiglierie ed il successivo cozzo derivante dallo speronamento contro la nave avversaria.

A un tratto, tuona il cannone di prua della ammiraglia ottomana, mentre ai due lati dello schieramento turco rispondono i cannoni delle galee capitanate da Scirocco e di Ulug-Alì: è il segnale dell’assalto.

Ala destra e centro turchi sono perfettamente a fronte, con forze pressoché pari, all’ala sinistra e al centro cristiani. Sulla sinistra ottomana, invece, Ulug-Alì sta ancora manovrando al largo, e come lui manovra, per sorvegliarlo, la squadra di Gianandrea Doria, che ha un numero assai minore di galee da opporgli (cinquanta contro novanta) e quindi tergiversa, attendendo le mosse del nemico.

LE PRIME SCHERMAGLIE

Le grida nella fazione turca si moltiplicano, mentre le galee della Lega Cristiana attendono immobili, certi del ruolo delle loro galeazze, ed in effetti queste ultime non mancano al loro compito, che è quello di scompaginare lo schieramento turco.

Appena il nemico è a tiro, i cannoni di prua sparano una prima scarica. Vi è un attimo di esitazione da parte ottomana, ma Alì Pascià ordina alla sua ammiraglia di procedere. Le galeazze sono sempre più vicine: si spara contro di loro con gli archibugi e con l’artiglieria pesante, mentre nuvole di frecce sono lanciate dagli abilissimi arcieri turchi contro quegli enormi castelli marini. I colpi delle galeazze e delle galee sono però micidiali: alcuni vascelli turchi si inabissano, trascinando con sé i miseri rematori incatenati al remo e riempiendo lo specchio d’acqua circostante di naufraghi fatti subito segno a tiri di archibugio.

Le galee turche, però, sia pure in disordine, continuano ad avanzare e, finalmente, superano le galeazze, dopo aver subito un’ultima scarica dei pezzi di poppa del nemico. A quel punto, le forze ottomane si dirigono in massa contro l’ordinatissimo schieramento cristiano. Alì Pascià ha individuato nel centro la Reale di Don Giovanni d’Austria, ai cui fianchi sono le altre due capitane, la pontificia di Marco Antonio Colonna e la veneziana di Sebastiano Venier. Deciso ad attaccare l’ammiraglia cristiana, Alì Pascià incarica la vicina galea di Pertew Pascià di lanciarsi su quella del Colonna.

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Don Giovanni, intanto, osserva le mosse del nemico. Fin da quando è stata presa la decisione di combattere, ha fatto togliere lo sperone della sua galea per facilitare l’arrembaggio. Dal ponte di poppa egli vede sotto di sé i suoi uomini ben schierati e pronti alla grande prova: a prua i cannonieri attendono l’ordine della scarica a distanza ravvicinata, mentre a poppa e lungo i fianchi i quattrocento archibugieri sardi che combattono sotto bandiera spagnola. Arrampicati sulle sartie e aggrappati agli alberi, marinai e altri soldati sono pronti a gettare sulla nave avversaria pignatte incendiarie e calce viva in polvere. Qua è là, per tutta la nave, si vedono ceste di viveri e barili di vino per, come dice un cronista dell’epoca, “ristorar et rinvigorir le forze del corpo”.

LO SCONTRO FRONTALE

Ormai le galee cristiane del centro e dell’ala sinistra hanno stabilito i contatti col nemico e fra grida, fragore d’armi e sibili di frecce si combatte in più punti accanitamente.

Don Giovanni, individuata facilmente l’ammiraglia ottomana, le si scaglia contro per investirla. A distanza ravvicinata, le artiglierie turche e cristiane sparano quasi contemporaneamente, prima di arrivare al momento del fragoroso cozzo. I mozzi lanciano i rampini d’arrembaggio per tener unite le due navi e subito scatta il primo assalto della milizia scelta di Alì Pascià, con quattrocento giannizzeri che si riversano sulla prora della Reale di Spagna. L’assalto viene però contenuto dalle truppe sarde che, scaricati gli archibugi, impugnano spade e picche affrontando il nemico in corpo a corpo furibondi.

Nel frattempo Marco Antonio Colonna, intuendo che la galea di Pertew Pascià sta tentando di tagliargli la strada per impedirgli di porgere aiuto alla sua capitana, fa affrettare la vogata e riesce a investire sul fianco destro, verso prua, la Reale ottomana. Subito, però, la sua galea è a sua volta arrembata da quella di Pertew che le piomba addosso nel centro dello scafo: costretto a difendersi da Pertew, Colonna non può quindi inviare uomini in aiuto a Don Giovanni.

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Toccherebbe a questo punto a Sebastiano Venier intervenire, ma in quell’attimo si attua lo stratagemma di Alì Pascià. Da un gruppo di galee ottomane si stacca una piccola galeotta, leggerissima e disarmata, che velocissima si pone sulla rotta della galea cristiana, incuneandosi di striscio sotto i banchi dei rematori impedendo la vogata ai remi. In tal modo, la galea di Venier, sia pure solo momentaneamente, viene immobilizzata.

Frattanto, sulla Reale di Don Giovanni, i sardi al comando di Lopez de Figueroa sono riusciti a contenere l’assalto dei giannizzeri e stanno passando al contrattacco, piombando sulla galea ottomana e spingendo i Turchi fino all’albero maestro. Grazie all’arrivo dei rinforzi, però, il manipolo sardo viene spinto indietro fin sulla propria nave.

Attacchi e contrattacchi si susseguono. Gli arcieri turchi, abilissimi nell’uso del loro corto arco a doppia curva, lanciano frecce su frecce, mentre la Lega Cristiana risponde a colpi di archibugio e, quando è possibile usare i pezzi, con la mitraglia che apre vuoti paurosi tra le file avversarie.

Intanto Venier, liberatosi ormai dell’infida galeotta turca, investe la Reale ottomana all’altezza dell’albero maestro, ma viene immediatamente circondata da altre galee e poi persino attaccata da quella di Pertew Pascià, che si è distaccata da quella di Marcantonio Colonna proprio con l’intento di bloccare la capitana veneta. Sebastiano Venier, da esperto uomo d’armi, divide i compiti sulla sua galea: mentre parte degli uomini si oppone all’attacco turco, un nutrito numero di archibugieri comincia a battere con un tiro fitto e preciso il ponte della nave avversaria. Anche se la tarda età gli impedisce di usare a spada, non di meno partecipa anch’egli direttamente al combattimento lanciando palle di ferro con una balestra pallottoliera che un servente gli ricarica prestamente dopo ogni tiro. Neppure quando riceve una ferita a una gamba, Sebastiano Venier si ritira, in preda ad un’euforica adrenalina.

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Mentre al centro si svolge un’accanita battaglia intorno alle due ammiraglie, anche sull’ala sinistra, comandata da Agostino Barbarigo, la lotta divampa. Il turco Scirocco tenta di aggirare da quella parte l’ala cristiana, formata in massima parte da galee veneziane, ma Barbarigo riesce però a evitare l’aggiramento intervenendo prontamente. Il problema è che, in questo caso, il sovrannumero a favore dei Turchi è impari: otto sono infatti le galee abbarbicate a quella del Barbarigo, mentre altre sette assalgono quella di suo nipote Marino Contarini, costretto a difendersi ferocemente. Sebbene la galea di Vincenzo Quirini giunga in soccorso del Contarini, e a dispetto delle grandi prove di coraggio dei marinai, il capitano cade in battaglia.

IL COLPO DI SCENA

È a questo punto che accade un incalcolabile imprevisto. Gli schiavi cristiani, incatenati al remo sui vascelli turchi, riescono miracolosamente a liberarsi: centinaia di uomini attaccano alle spalle gli ottomani, chi impugnando le armi tolte ai caduti, chi roteando catene, chi addirittura a mani nude. La situazione prende una piega imprevista in poche decine di minuti: in breve, cinque galee turche passano in mano dei cristiani, con i galeotti che dapprima passano a fil di spada ogni Turco caduto nelle loro mani e poi si mettono al remo per correre in aiuto alla galea di Barbarigo.

Nel frattempo, Barbarigo ha avuto aiuto anche da Antonio da Canale, che gli si affianca con la sua galea dopo aver semidistrutto un vascello nemico. Canale si batte in prima linea con i suoi uomini, con un valore inaudito: per meglio usare la spada, si è tolto l’armatura e ha calzato scarpe di corda per non scivolare sui ponti nemici cosparsi di sego. La sua galea ha speronato quella di Scirocco aprendo nella sua fiancata una falla. Scirocco si lancia in acqua e nuota verso la riva: per sua sfortuna viene scorto dagli schiavi liberati che affollano una galea cristiana sopravveniente, e, pescato letteralmente dall’acqua, viene trasportato sul ponte e subito decapitato.

Quasi nello stesso tempo, però, quasi in un segno di contrappasso, Agostino Barbarigo riceve una freccia in un occhio, che dopo due giorni di dolori indicibili lo ucciderà. Sulla sua galea il comando è assunto da Federico Nani.

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LA FINE DELLO SCONTRO

Si continua a combattere, allo sfinimento.

Al centro degli schieramenti, però, la Reale turca è ormai stretta in una morsa asfissiante, presa di mira dai colpi di archibugio e di artiglieria degli uomini di Sebastiano Venier e Marcantonio Colonna. La sua sorte sembra ormai segnata. I giannizzeri oppongono una disperata resistenza e continuano a combattere anche dopo l’ammainarsi dello stendardo turco. Filippo Venier, allora, dalla capitana veneta, fa sparare un colpo di petriera caricata con pezzi di ferro e catene, spazzando letteralmente via con questa micidiale sventagliata le barricate erette dai Turchi sul ponte.

Un ultimo assalto dei Cristiani pone fine alla lotta: lo stesso Alì Pascià viene ucciso da due colpi di archibugio, e la sua testa mozzata viene issata su una picca, quale feroce segno di vittoria esposto alla vista di Turchi e Cristiani.

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Poco prima, anche la galea di Pertew Pascià era stata conquistata, ma il capitano turco era riuscito a salvarsi su una barchetta insieme a un rinnegato bolognese che, passando tra le navi della Lega, ingannava i soldati gridando in italiano: “Non tirate che anco noi siamo cristiani!”.

Le cose non vanno però altrettanto gloriosamente sull’ala destra della Lega Cristiana. Gianandrea Doria, portatosi troppo al largo per sorvegliare le mosse di Ulug Alì, aveva finito col lasciar troppo spazio all’avversario, il quale era riuscito ad arrembare una quindicina di galee cristiane che si trovavano sulla sua rotta: tra queste spiccava la capitana dei Cavalieri di Malta, al comando del priore Giustiniani. Sette galee turche la assalgono e, in una lotta tanto rapida quanto feroce, la conquistano uccidendo quanti trovano a bordo, con Giustiniani a sopravvivere miracolosamente sebbene trapassato da ben cinque frecce. All’arrivo del Doria, Ulug-Alì si allontana con una trentina di vascelli, riuscendo a disimpegnarsi e a fuggire guadagnandosi il mare aperto.

LA VITTORIA CRISTIANA

Al grido di vittoria del centro risponde quello dell’ala sinistra cristiana che, benché provatissima. è riuscita anch’essa ad avere ragione del nemico.

È ormai il tramonto: la più grande battaglia di galee che la storia ricordi è finita. Uomini di diversi paesi e di ogni condizione sociale vi hanno combattuto, uno accanto all’altro: marinai e fanti, galeotti e ufficiali, avventurieri e frati cappuccini. Alla battaglia navale di Lepanto prese parte persino il ventiquattrenne Miguel de Cervantes, il futuro autore del Don Chisciotte: ferito da due archibugiate, una al petto ed una alla mano sinistra, la avrò parzialmente storpia per tutta la vita.

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All’indomani della battaglia diventa possibile fare anche un bilancio delle perdite inflitte e subite. Quindici galee cristiane erano andate perdute, mentre le altre erano tutte più o meno danneggiate. I morti da parte cristiana, soprattutto veneziani, sono circa 7500, con altrettanti i feriti. Le perdite turche, come contraltare, sono enormi: un centinaio di galee catturate e oltre 130 distrutte, con 25.000 morti e 10.000 schiavi cristiani liberati.

Potremmo discutere a lungo sui quali siano stati i vantaggi di questo scontro navale, ma su uno è impossibile non trovare accordo: la vittoria di Lepanto contribuisce a sfatare la fama di invincibilità sul mare che i Turchi avevano consolidato nel corso dei secoli. Guerra e politica, però, percorrono spesso strade diverse: morto Papa Pio V, i veneziani verranno a patti coi Turchi e lo stesso farà in seguito anche Filippo II.

Tutti quei morti, quei colpi di archibugio e quel cozzare di scafi che hanno lasciato un’indelebile pagina di storia verranno a ritrovarsi immersi nell’oblio, per essere ricordati solo in splendidi arazzi e mirabili affreschi, come quelli che raccontano il trionfo di Marcantonio Colonna sui soffitti dell’omonima Galleria Colonna di Roma, uno dei più lussuosi musei della Città Eterna.

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7 pensieri su “La Battaglia di Lepanto

    • Vincenzo dice:

      Verissimo. In questo caso particolare, e mi scuso per gli aggettivi che sto per adoperare, realtà più “esuberanti e popolari” obliterarono gli sforzi, talvolta anche considerevoli, di città che fecero del loro meglio per porgere il proprio contributo alla causa.

  1. Nicola dice:

    Resoconto dettagliato per riportare all’attualità uno scontro che ha cambiato la storia dell’Europa. Bravo.

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