Piazza Venezia a Roma

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PIAZZA VENEZIA A ROMA

Piazza Venezia, che nei giorni antecedenti al Natale acquista improvvisamente una notorietà ancora maggiore per le conversazioni inerenti l’Albero di Natale che ne decora il centro, appartiene a due rioni: al rione Pigna per i numeri dall’1 al 5 e al rione Trevi per quelli dal 5A al 16.

Siamo di fronte ad una piazza ricca di storia e di memorie, in una zona che in origine era al di fuori della città, in quanto si trovava oltre le cosiddette Mura Serviane che correvano all’altezza del luogo poi occupato dal Foro di Cesare. In prossimità del loro attacco al Campidoglio, attraverso una porta (forse la Porta Fontinalis), usciva una strada che da principio aveva un andamento obliquo e che quindi, proprio di fronte all’attuale Vittoriano, ne assumeva uno perfettamente rettilineo fino a Ponte Milvio.

Della posizione del primo tratto di questo asse viario rimane tuttora come testimonianza la fronte del sepolcro di Caio Publicio Bibulo, situato sull’aiuola di sinistra del Vittoriano, di cui si può ancora leggere l’iscrizione latina: “A Caio Publicio Bibulo, edile della plebe, per suo onore e le sue virtù, per deliberazione del Senato e per comando del popolo romano fu a spese pubbliche assegnato il luogo per la sua sepoltura”.

La presenza di questo monumento, databile al principio del I secolo a.C., testimonia come la zona, essendo fuori della città, accogliesse edifici funerari, fra i quali ricordiamo il sepolcreto creduto della Gens Claudia scoperto presso il gruppo del Pensiero del Vittoriano e poi demolito. È pure da non trascurare fra le scoperte quella fatta a tredici metri di profondità, mentre si effettuava la fondazione di un pilone del monumento, di un intero scheletro di elefante preistorico.

Verso la fine dell’età repubblicana, la città cominciò ad espandersi al di fuori della vetusta cerchia muraria serviana ed ebbe inizio un’urbanizzazione ed un’edificazione sempre più intensa, soprattutto nel III secolo d.C., all’epoca degli Imperatori Aureliano e Probo, come documentato dai resti di abitazioni private rinvenuti durante i lavori per la costruzione del Palazzo delle Assicurazioni e quelli tuttora visibili sotto il Palazzo di Venezia. Inoltre, recenti indagini sotto il portico antistante la Basilica di San Marco hanno dato risultati di grande interesse scientifico, rimettendo in luce l’abside della primitiva basilica paleocristiana che aveva un orientamento opposto all’attuale.

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LE VASCHE DELLA PIAZZA

Piazza Venezia, in tempi remoti, era chiamata Platea Nova, e nel 1466, quando Paolo Il Barbo fece porre di fronte al suo palazzo una vasca già appartenuta alle Terme di Caracalla, assunse l’altro nome di Piazza della Concha.

In realtà, in meno di un secolo ci fu un inquietante “movimento di vasche” dovuto ai variegati gusti dei Pontefici e all’intenzione di migliorare la piazza in occasione della visita a Roma di illustri personaggi. Infatti, dopo la prima vasca che non conteneva acqua, essendone la zona assai povera, ne fu posta un’altra simile e della stessa provenienza; purtroppo per la piazza, però, Papa Paolo III, al fine di abbellire Piazza Farnese per la visita di Carlo V, vi fece trasferire nel 1540 una delle due vasche, alla quale segui la seconda nel 1579. Al posto di quest’ultima, in Piazza Venezia ne subentrò un’altra, messa presso il Palazzetto di Venezia e che ora si trova sulle pendici del Pincio!

PALAZZO VENEZIA

All’epoca, Piazza Venezia era molto più piccola e limitata dal Palazzo di Venezia col Palazzetto, dai palazzi Nepoti e Torlonia e dal Palazzo d’Aste Bonaparte. Fra il Palazzetto e il Palazzo Torlonia vi era la via della Ripresa dei Barberi, nella quale si stendeva una grande tela per fermare i cavalli di Barberia che giungevano a corsa sfrenata dal Corso negli ultimi giorni del carnevale romano. E proprio dalle finestre del Palazzo di Venezia (e non, come spesso erroneamente detto, dal balcone che fu costruito solo nel 1714) Papa Paolo II, ideatore di queste corse, si godeva l’arrivo dei cavalli sollecitati dagli aculei delle palle di piombo assicurate con cinghie sulle loro schiene e sui quali i cittadini facevano tante scommesse, come si legge in svariati vivaci sonetti del Belli.

Fu sempre quel Pontefice che, fin da quando era cardinale, nel 1451, cominciò a costruire quel palazzo che sino a tutto il Cinquecento fu saltuariamente la sede papale, poichè ritenuta più salubre dell’umido Vaticano. Il ricordo di questi primi lavori è ancor oggi affidato ad una lapide: “Petrus Bar/bus venet/us cardi/nalis San/cti Mar/ci has ae/des condi/dit anno/Christi MCCCCLV”. In tale occasione il Papa comprò delle case vicine ed una torre detta della Biscia, già degli Annibaldi e che fu inglobata nel palazzo sovrastandolo con la parte più alta. Una volta eletto Papa, Paolo II ampliò del doppio il palazzo, e attaccato alla torre volle un giardino (il cosiddetto viridario) entro un portico merlato che in seguito sarà completato con un secondo piano (il palazzetto).

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I PAPI LEGATI A PALAZZO VENEZIA

Da tanto fervore di ampliamenti, il Papa nell’ultimo anno del suo regno (1471) fu distolto per il timore di una congiura, e in tutta fretta si rifugiò in Vaticano. Nel palazzetto offrì per anni ricchissimi banchetti ad ambasciatori e ad ospiti di cui amava circondarsi, ma quando riparò in Vaticano non poté sfuggire alla morte, che lo raggiunse dopo un quarto colpo apoplettico, avendo appena finito di cenare in lieta compagnia: alcuni scritti lo vogliono morto di indigestione, ma le malelingue iniziarono a sostenere che fosse stato soffocato da certi diavoli che aveva in corpo.

I lavori del suo palazzo furono ripresi dal nipote, il cardinale Marco Barbo, il cui nome figura sulle finestre del palazzo stesso: costui costruì la Sala del Concistoro e quella Regia, e due torri unite dal cammino di ronda. Il palazzo ebbe ampliamenti e completamenti anche dal cardinale Lorenzo Cybo, titolare di San Marco, il cui stemma (sbarra scaccata a traverso declive, nella parte di sopra una croce rossa in campo bianco) è visibile su una porta: a lui si deve probabilmente la collocazione della statua creduta di Iside chiamata Madama Lucrezia, laddove si può notare anche oggi, e della quale parleremo fra poco.

Altri due pontefici legarono il loro nome al palazzo, che fu spesso oggetto di contestazioni: Paolo III (1534-1549), che per qualche tempo vi abitò e lo collegò con un viadotto al suo palazzo-torre sorto presso l’Aracoeli, poi demolito per l’erezione del Vittoriano, e Pio IV (1559-1565) che cedette una parte dell’edificio alla Repubblica Veneta, dove poterono risiedere gli ambasciatori che vissero “in condominio coi cardinali titolari, rimanendo in comune la scala, il cortile e la Sala Regia, fonti di continue controversie ivi compresa l’appartenenza o meno del palazzetto”.

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PALAZZO VENEZIA IN EPOCA MODERNA

In seguito, ambasciatori e cardinali apportarono cambiamenti ambientali e rifacimenti nelle sale e nel palazzetto; nel 1797, Napoleone cedette il complesso all’Austria, poi se lo riprese e manifestò la volontà di abbattere il palazzetto per ingrandire fa piazza in modo da ospitare un mercato. Fortunatamente non fece in tempo, perché nel 1814, con la Restaurazione, l’immobile ritornò residenza degli ambasciatori austriaci e rimase loro fino al 1916, quando fu acquisito dallo Stato italiano.

Nel frattempo, nel 1913, il palazzetto era stato demolito e ricostruito nell’area attuale, e per realizzare questo spostamento, operato da Camillo Pistrucci, Ludovico Baumann e Jacopo Oblatte, si dovette passare attraverso grandi proteste di chi volesse custodire e proteggere il patrimonio urbanistico romano ed anche attraverso discussioni di natura politica, perché l’Austria era proprietaria del complesso.

Oggi il Palazzo, le cui stanze di rappresentanza dal 1929 al 1943 furono destinate a sede del Capo del Governo e del Gran Consiglio del Fascismo, ospita un grazioso Museo e la Biblioteca dell’Istituto di Archeologia e di Storia dell’Arte. L’edificio si presenta ancora nel suo aspetto rinascimentale di fortezza, con merlatura, beccatelli, finestre crociate e torre, e lascia che gli storici formulino ipotesi sul suo architetto, poiché si fanno i nomi di Giuliano da Maiano, Bernardo Rossellino e Francesco del Borgo, forse sotto l’influenza di Leon Battista Alberti e Meo del Caprino.

MADAMA LUCREZIA

Nell’adiacente Piazza San Marco si trova l’omonima Basilica, eretta nel 336 dal Papa San Marco e restaurata nei secoli, e, in angolo col palazzetto, qui trasferito, il busto gigantesco di Madama Lucrezia che fu ritenuta da alcuni studiosi il ritratto di Lucrezia d’Alagno, molto cara ad Alfonso d’Aragona, che visse a Roma e vi morì nel 1478.

Tuttavia, un atto notarile del 5 febbraio 1536 cita un’altra Lucrezia, moglie di mastro Giacomo dei Piccini, che vende una casa con torre che confina con altra sua casa davanti alla Piazza di San Marco.

Per altri studiosi, la statua raffigurerebbe la dea Iside (ipotesi più probabile) o persino Faustina, moglie dell’Imperatore Antonino Pio. Il 25 aprile (giorno di San Marco) e il 1 maggio la statua veniva truccata, vestita e ornata con diademi di carote e corone di agli e cipolle, e davanti ad essa si eseguiva il ballo dei guitti, dei gobbi, storpi e vecchietti intraprendenti.

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IL VITTORIANO

Ed eccoci dinanzi al monumento a Vittorio Emanuele II, una montagna di marmo bianco botticino. Inaugurato nel 1911, fu subito impietosamente battezzato “torta nuziale” e “macchina da scrivere”, ma la sua costruzione si compì in quasi mezzo secolo, perché la prima pietra fu posta il 22 marzo 1885, e le quadrighe bronzee sui propilei furono sistemate nel 1927.

La realizzazione avvenne in base al progetto di Giuseppe Sacconi (1854-1905), col quale collaborarono in realtà molteplici artisti. Il monumento si compone di un’ampia scalea che sale al ripiano dell’Altare della Patria e si divide in due rampe che, girando dietro l’altare, convergono verso la statua del re, si riuniscono alle spalle di questa e si aprono nuovamente per sboccare su un vasto ripiano dominato dal porticato a esedra che corona l’edificio.

Sui lati della scalea, fiancheggiata da vittorie e leoni alati, due gruppi allegorici in bronzo dorato rappresentano il Pensiero (di Giulio Monteverde) e l’Azione (di Francesco Jerace). Prima della scalea vi sono le fontane con statue del Tirreno (di Pietro Canonica) e dell’Adriatico (di Emilio Quadrelli). AI di sopra, i gruppi da sinistra della Forza (di Antonio Rivalta), della Concordia (di Ludovico Pogliaghi), del Sacrificio (di Leonardo Bistolfi), del Diritto (di Ettore Ximenes).

Sul primo ripiano ecco l’Altare della Patria con la tomba del Milite Ignoto, dominata dalla statua della dea Roma (di Angelo Zanelli) verso la quale convergono i cortei trionfali del Lavoro (a sinistra) e dell’Amor patrio (a destra), opere del medesimo artista.

In alto domina il monumento equestre in bronzo di Vittorio Emanuele II, opera di Enrico Chiaradia, su base con rilievi delle città d’Italia di Eugenio Maccagnani. Sull’ultimo ripiano si trovano le are delle città italiane liberate nella guerra 1915-18 e un masso del Monte Grappa. Più su vi è il portico con sedici colonne, e nell’attico le statue delle regioni d’Italia. Sui propilei le quadrighe dell’Unità a sinistra (di Carlo Fontana) e della Libertà a destra (di Paolo Bartolini).

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I CAVALLI DEL VITTORIANO

L’elemento che maggiormente domina la mole del Vittoriano è ovviamente il cavallo del re, sedici volte più grande del naturale, tanto che nel suo ventre ospitò oltre venti persone intorno a un tavolo per il pranzo in occasione della sua collocazione.

La sua mole è ancor più impressionante se paragonata ai “colleghi cavalli” delle quadrighe, che sono sproporzionatamente più piccoli rispetto alle figure femminili allegoriche che li guidano. Secondo la tradizione, per quella a sinistra posò la principessa Vittoria Colonna, dama della regina Elena e consorte del principe Caetani, duca di Sermoneta, la quale narra nelle sue Memorie che lo scultore Carlo Fontana le si presentò in redingote e cilindro, non osando indossare il camice di lavoro, sì che, a mano a mano che l’artista modellava la creta, quei poveri abiti, la cravatta e la camicia s’imbrattavano rapidamente.

La stampa dell’epoca descrisse con dovizia di particolari lo spettacolo dell’inaugurazione della statua del re, facendosi interprete dell’entusiasmo e della commozione dei cittadini presenti. L’onorevole Giolitti fece un segnale, e la tela che copriva la statua del re cadde, mentre le bande intonavano la marcia reale, gli inni di Garibaldi e di Mameli; dal Gianicolo tuonò il cannone, ed il campanone del Campidoglio suonò a distesa.

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LE CHIESE (QUASI) GEMELLE

Volgendoci a sinistra, non possiamo non ammirare l’imbocco di Via dei Fori Imperiali e notare, poco oltre, le imprese belliche di Traiano scolpite sull’omonima colonna, al centro di imponenti rovine del Foro di Traiano.

Nel mentre, possiamo rivolgere un devoto saluto alla Chiesa di Santa Maria di Loreto (nella piazza che ne prende il nome) che, per dirla con parole degli studiosi, “sintetizza, contrapponendoli, i due momenti fondamentali del Cinquecento romano: il classicismo bramantesco e il manierismo di estrazione michelangiolesca”. Le fa da pendant la consorella settecentesca del SS. Nome di Maria, con la sua struttura tardo-barocca.

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IL PALAZZO DELLE ASSICURAZIONI

Arriviamo ora di fronte al Palazzo delle Assicurazioni Generali di Venezia, che vorrebbe ingloriosamente gareggiare col dirimpettaio Palazzo Venezia. La storia dell’area occupata da questo edificio, definito da alcuni critici “una delle più grandiose falsificazioni del mondo, una mediocrissima e sproporzionata imitazione di edifici rinascimentali”, è veramente una tragica storia.

Come già accennato, infatti, Piazza Venezia era originariamente chiusa dal palazzo e dal palazzetto, mentre sulla sinistra sboccava la via della Ripresa dei Barberi: lì vi erano i palazzi Paracciani-Nepoti e Del Nero-Bigazzini-Bolognetti-Torlonia, che furono impietosamente demoliti per far posto a quello delle Assicurazioni, costruito arretrato nel 1906 da Alberto Manassei e Guido Cirilli, anche se l’idea della facciata in forme quattrocentesche venete risale a Giuseppe Sacconi.

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Adorna la facciata l’altorilievo del Leone di San Marco, l’unico pezzo autentico collocato al di sopra del portone. È un’effigie di leone fra le più belle che la Repubblica di Venezia soleva innalzare nelle sue province come simbolo della forza e dell’unità della patria. Fu scolpito nel XVI secolo e collocato sul bastione di Padova nel 1518: ha un atteggiamento sereno, non quello aggressivo tipicamente leonino, perché l’artista volle alludere alla pace desiderata da Venezia, dopo la vittoriosa lotta che la Repubblica sostenne contro gli alleati della Lega di Cambrai. Il leone è scolpito in una sola lastra di pietra, ma le zampe si infransero quando fu gettato dal bastione e furono malamente restaurate al pari delle ali.

AI piano terra ed al mezzanino del palazzo era allogato il lussuoso Gran Caffè Faraglia, vero trionfo del Liberty in Roma. Ideato dall’architetto Basile, constava dì quattro sale: la grigia, dove era il caffè vero e proprio, la verde, la rossa (la pasticceria) e la gialla per la tea-room. Non mancavano eleganti gabinetti, l’illuminazione elettrica, le orchestrine: il tutto per accogliere la clientela più raffinata.

Quando però Mussolini s’insediò nel palazzo di Venezia, la polizia fascista iniziò ad effettuare perquisizioni talmente tanto frequenti che nel 1933 il locale chiuse i battenti.

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PALAZZO BONAPARTE

L’ultimo lato della piazza è delimitato dal Palazzo Bonaparte, risultante dalla fusione di due edifici ad opera di Giovanni Antonio De Rossi (1619-95) per Giuseppe Benedetto d’Aste. Il palazzo, quale vediamo oggi, ha sul portone (rifatto) lo stemma dei Bonaparte, mentre al pianterreno mostra finestre con architrave a pagoda, al primo piano con timpani curvi ed al secondo con timpani triangolari.

Oltre alla bella altana, caratteristico è il balcone coperto (mignano o bussolotto) in angolo tra piazza Venezia e il Corso, nel quale sostava Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone I, cieca ma ansiosa di sapere dalla dama di compagnia, Rosa Mellini, se i passanti guardassero verso il suo appartamento ricordandosi che ivi si trovava la “Madame Mère”.

L’edificio dai d’Aste passò quindi ai Rinuccini, che vi rimasero fino al 1818, quando fu affittato a Letizia Bonaparte, che vi morì nel 1836, e poi fu ereditato dai marchesi Misciatelli.

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IL PICCONE DEMOLITORE

Piazza Venezia, abbellita dal nostro Albero di Natale, più di ogni altra zona di Roma visse su di sè l’opera del piccone demolitore in sé e nei dintorni: caduto il convento dell’Aracoeli, abbattuti i caseggiati dei due versanti deli colle lungo le vie Giulio Romano, Pedacchia, San Marco, Macel de’ Corvi e demolito il viadotto fra il Palazzetto Venezia e la Torre di Paolo III, per far posto al cantiere del monumento a Vittorio Emanuele, nel 1888 cadeva anche il Palazzo Torlonia.

Nonostante tali trasformazioni, con tutti i suoi difetti e le sue falsificazioni, Piazza Venezia offre, con la sua vastità monumentale, a chi proviene dalla lunga e stretta Via del Corso un effetto d’insieme insuperabile, uno degli scenari più maestosi del mondo, in cui la storia fa sentire la presenza di tanti secoli. La storia ne ha fatto un nodo, un fulcro, un punto obbligato di passaggio, quasi un centro urbano da cui non si possa prescindere, come rivela l’intenso traffico in ogni ora del giorno.

Forse, proprio osservando questo movimento incessante, in qualche momento si rimpiange la serena tranquillità dell’allora piccola piazza, in cui dal lontano 1845 cominciavano a stazionare i primi omnibus a cavalli, che partivano solo quando erano al completo e portavano lentamente i passeggeri fino a San Paolo Fuori le Mura e viceversa, per soli 25 centesimi a corsa.

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2 pensieri su “Piazza Venezia a Roma

  1. Luca Purchiaroni dice:

    Grazie per la ricca spiegazione, sono romano e anelo a conoscere la storia della mia città. Aggiungerei solo una piccola curiosità: la palla di piombo chiodata, attaccata sul dorso dei cavalli, era chiamata “prescia”, da cui il famoso modo di dire romano “avere prescia” quando si ha fretta.

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