Totila contro Narsete

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TOTILA CONTRO NARSETE

Siamo nel VI secolo d.C., nel pieno degli anni più bui dell’Italia. Specificamente, corre l’estate del 541: le campagne incolte, la fame, le epidemie ed un disordine politico che favorisce razzie e soprusi.

Vitige, il vecchio soldato che comanda i Goti, marito di Matasunta (l’adolescente nipote del grande Teodorico, costretta a sposare un uomo che poteva esserle nonno), è caduto prigioniero dell’Imperatore d’Oriente Giustiniano. Era ormai stanco di combattere: assediato in Ravenna, meditava una resa onorevole mentre sotto le mura, ad attenderlo, c’era il generale bizantino Belisario, l’avversario tradizionale dei Goti, l’uomo che era riuscito con le sue imprese a sbriciolarne le ambizioni. Con Belisario, Vitige non se l’era sentita di trattare, un po’ per orgoglio ed un po’ per rispetto delle antiche rivalità; lo avevano fatto (approssimativamente) i suoi uomini, rivolgendosi a Belisario ed offrendosi ingenuamente di incoronarlo sovrano. Lui aveva finto di stare al gioco, chiedendo di poter entrare in città, ma una volta all’interno di Ravenna aveva lasciato al proprio esercito il piacere del saccheggio, arrestando Vitige e trascinandolo a Costantinopoli.

Con sua stessa sorpresa, Giustiniano si mostra magnanimo: cerca persino di farsi amico Vitige, portandoselo a corte ed accettandone i consigli in relazione alle future imprese militari.

I Goti, a questo punto, in preda ad una caotica dispersione, cercano un altro capo. Il nipote di Vitige chiama all’investitura un soldato non più tenero di età, cotal Idibaldo, che però viene quasi subito ucciso a tradimento. L’ultimo baluardo gotico resta Treviso: l’avvilimento e la rassegnazione a un destino inevitabile gettano nello sconforto il giovane capitano che comanda quel contingente: è un nipote di Idibaldo e si chiama Baduila, ma il suo nome originario verrà presto dimenticato e sostituito, nelle iscrizioni delle monete, con la parola Totila, cioè “l’immortale”.

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Totila può essere considerato l’ultimo grande sovrano dei Goti: uno strano barbaro, profondamente umano e con una visione chiara dei problemi che lo attendono. Ricevuta la notizia della morte dello zio, armandosi di grande senso pratico, sceglie immediatamente di trattare col nemico e manda un messaggero a Ravenna per offrire la resa di Treviso. Mentre il soldato galoppa, arrivano da Pavia i notabili gotici che gli offrono la corona, proponendolo come nuovo re: sorpreso e un po’ turbato, Totila accetta dopo una notte di meditazione, buttandosi con entusiasmo in un’avventura che può dare gloria al suo popolo, ma può anche disperderlo nell’umiliazione di una disfatta definitiva.

A Totila basta un anno per guadagnarsi la fama di grande condottiero. Di statura media, capelli e barba scura con riflessi ramati, Totila parla al suo popolo gente con un linguaggio nuovo: “Dobbiamo combattere per l’amore e per la ricchezza. Qui, se non vinciamo, moriamo di fame”. Nei suoi discorsi, Totila si riferisce senza dubbio agli esattori dell’Imperatore che stanno per calare in Italia a spremere, con nuovi tributi, regioni ormai esauste. Giustiniano però, forse obnubilato dalla presenza a corte di Vitige, ha commesso l’errore di lasciare poche guarnigioni in Italia, muovendo gran parte dei suoi uomini in Oriente.

L’INCONTRO CON SAN BENEDETTO

Comincia così la marcia di Totila. Sbriciola le difese delle città lungo il Po, attraversa la Toscana, sfiora Roma, scende verso il Sannio e la Campania, sempre precedute da una terribile fama di crudeltà e spietatezza. Durante la sua marcia di conquista, però, Totila trova il tempo di salire al convento di Montecassino per incontrarsi con San Benedetto il quale, secondo la tradizione, lo rimprovera aspramente, profetizzandone il fato: “Tu stai compiendo del male e molto ne hai già compiuto. Desisti dunque dall’ingiustizia. Ricordati: varcherai il mare, entrerai in Roma, vi resterai per nove anni e nel decimo morrai!”.

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A dirla tutta, a San Benedetto non stava solo a cuore l’integrità delle popolazioni che i Goti assoggettavano, ma anche il ristabilimento di una normalità che permettesse all’economia agricola di ridestarsi da un tragico letargo. Il monachesimo, infatti, univa alle cure delle anime un interesse più pratico per la coltura dei campi: mentre invasioni, scorrerie e guerre avevano costretto le popolazioni a rifugiarsi nelle città, la campagna quasi deserta andava ritrovando un aspetto selvaggio.

La preoccupazione di San Benedetto è, in realtà, la stessa di Totila. Il Santo, dopo un lungo colloquio, si rende conto di avere di fronte un conquistatore dalla personalità complessa e poliedrica, caratterizzata anche da una certa bonarietà.

LE VITTORIE E LE RIFORME

Nella primavera del 543 d.C., i Goti si stringono attorno a Napoli. La resistenza della città è breve e Totila, dopo essersi impadronito di due flotte greche appena giunte da Costantinopoli, vi entra da trionfatore, stupendo napoletani e bizantini con la sua magnanimità: distribuisce viveri alla popolazione affamata, obbliga le proprie truppe a portare rispetto alle donne e fornisce al generale greco Conone (che stando ai termini della resa dovrebbe imbarcarsi, ma non può farlo a causa di una tempesta) carri, cavalli e viveri, facendolo condurre con una scorta armata alle porte di Roma.

A Napoli, come a Benevento e come al termine di ogni altra impresa vittoriosa, Totila ordina la distruzione delle mura: “Senza le mura non esisteranno assedi, e forse scompariranno le guerre. La gente potrà lavorare in pace nei campi e nelle botteghe”, afferma semplicisticamente. Il condottiero manifesta un carisma talvolta quasi debordante: il suo esercito si è gonfiato di schiavi che vedono in lui una forza liberatrice, l’instauratore di un nuovo e più umano sistema sociale.

Le riforme che impone, come ad esempio lo snellimento del sistema fiscale, vengono accolte con entusiasmo dalle classi umili. Mentre nei territori controllati direttamente da Bisanzio, infatti, i collettori delle imposte si rivolgono ai grandi proprietari, i quali a loro volta si rifanno sui coloni, con Totila i coloni pagano direttamente l’imposta allo stato, evitando ogni intermediazione e quindi garantendosi una tassazione minore.

Lo stesso principio di equa distribuzione dei redditi viene adoperato da Totila nei confronti dei domini ecclesiastici. I Servi della gleba di vescovati, abbazie e conventi vengono tutt’a un tratto assimilati alla stregua di lavoratori indipendenti: le terre che per anni avevano coltivato, sottomessi ai padroni, diventano di loro proprietà, tanto che possono tenersene i frutti che riescono a raccogliere, dopo aver pagato direttamente i tributi allo Stato.

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LE LETTERE DI TOTILA

Da Napoli, Totila inizia ad inviare lettere al Senato romano, convinto che i Romani gli debbano riconoscenza per il fatto che alcune donne patrizie, prese prigioniere a Cuma, siano state ricondotte a Roma con ogni riguardo. Così scrive a tale riguardo Totila: “Coloro che offendono il popolo per ignoranza o per trascuratezza hanno diritto all’indulgenza degli offesi: la causa stessa del loro errore li giustifica. Ma quando uno fa del male consapevolmente, allora non c’è attenuante. Per questa ragione, considerate attentamente se ciò che avete perpetrato a danno dei Goti al tempo di Teodato meriti qualche indulgenza. Che cosa può discolparvi? L’ignoranza dei benefici resi da Teodorico o da Amalasunta, oppure il tempo che ve li fa dimenticare? Né l’uno, né l’altro. Voi tutti sapete poi, per sentito dire o per esperienza personale, in che modo i Greci si siano adoperati per il bene dei loro sudditi, e d’altra parte ben conoscete l’amichevole contegno dei Goti verso gli Italiani. Avete, tuttavia, accolto i primi con generosa ospitalità, non ignorando in che modo essi interpretino l’amicizia contabilmente. Non crediate che io rinfacci ai Greci il saccheggio e le barbarie per semplice ambizione giovanile. Non dico, infatti, che la loro sconfitta sia il frutto del nostro valore, ma affermo che essi stanno scontando la punizione degli oltraggi che vi fecero subire. Non sarebbe, dunque, la cosa più insensata della terra che, mentre Dio li punisce per amor vostro, Voi vi ostiniate a sopportare i loro oltraggi, anziché sottrarvi ai loro tormenti? Dateci una sola ragione che giustifichi il male fatto ai Goti, una ragione soltanto, e sarete perdonati. Scegliete ora il partito migliore, non attendete la fine della guerra”.

La lettera, con il suo messaggio così chiaro, turba i notabili, ma il generale greco Giovanni impedisce ai senatori romani di inviare una risposta. Totila a quel punto invia altri messaggi, tutti sempre vergati con tono duro ma conciliante; il popolo ne legge le copie affisse nelle piazze più frequentate.

LA MARCIA SU ROMA

I tempi sembrano essere ormai maturi per marciare su Roma. Lo percepisce anche Giustiniano, che distoglie da altre faccende il suo miglior generale, Belisario, per inviarlo a difendere un prestigio ormai a pezzi. La presenza delle armate migliori e la conduzione di Belisario, un condottiero che incute ai Goti un terrore quasi superstizioso, avrebbero presto (nella mente di Giustiniano) cancellato permanentemente il mito di Totila.

Quest’ultimo, però, non si spaventa né vacilla. Alla fine dell’inverno del 543 d.C. si mette in moto verso la capitale, in una traversata lenta ma decisa. Le città cadono nelle sue mani quasi senza combattere: le simpatie raccolte nei mesi trascorsi gli hanno permesso di organizzare un servizio di spionaggio efficientissimo, in grado di far lievitare la guerriglia dietro le mura del nemico e di avere simpatizzanti ovunque.

Anche Tivoli scelse incautamente di aprirgli le porte, ma questa volta Totila fa scatenare la sua armata, senza mostrare alcuna clemenza: gran parte degli abitanti, compreso il vescovo, sono trucidati, quasi a voler inviare un deciso ammonimento a Roma. Il sovrano che si interessa ai diseredati ha lasciato posto ad uno stratega crudele e spietato: Totila manda una guarnigione a Nord e poi con calma dispone il suo esercito sotto le mura di Roma.

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L’ASSEDIO DEI GOTI

Il secondo assedio gotico è profondamente diverso dal primo. Mentre in passato Vitige aveva diviso i suoi uomini in sette gruppi che invano tentarono di espugnare la città, il giovane Totila preferisce tagliare la strada ad ogni rifornimento, costringendo la città alla fame nell’attesa di Belisario.

Quest’ultimo, però, si trova ancora a Ravenna, in costante attesa dei rinforzi promessigli dall’Imperatore. Siamo ormai nel 545 d.C., e a Roma la situazione è insopportabile. I Romani, disperati, decidono di chiedere aiuto al diacono Pelagio, che gode fra il popolo di una notevole autorità grazie alle sue manifestazioni di generosità e che fa le veci del pontefice Vigilio, non presente al momento nella Città Eterna.

Pelagio tenta una difficile missione. Si reca all’accampamento di Totila per parlare al re e gli chiede di fissare una data: se entro quel termine Belisario non sarà arrivato, la città accetterà la sua legge. Secondo la leggenda, Totila lo ascolta in totale silenzio, senza proferire parola, e solo alla fine del lungo discorso di Pelagio si fa portare da un servo un lungo foglio di cartapecora, su cui poco prima ha dettato allo scrivano le proprie condizioni.

Intanto, Totila non intende ascoltare intercessioni a favore dei Siciliani, poiché la Sicilia aveva accolto i Greci come liberatori, tradendo il patto concluso con i re barbari.

Inoltre, le mura di Roma dovranno cadere: senza le mura, il combattimento si sarebbe già deciso in uno scontro aperto tra Greci e Goti.

Infine, le condizioni di vita di tutti gli schiavi dovranno essere umanizzate, e toccherà allo stesso Totila regolarne la disciplina.

Pelagio torna a Roma, radunando tutto il popolo sul colle Palatino. Da quella posizione simbolica, supplica i comandanti greci di andarsene: “Noi Romani vi imploriamo di trattarci non come amici, discendenti della stessa stirpe, né come cittadini sottoposti alle stesse leggi, ma come nemici vinti e come schiavi di guerra. Non chiediamo di essere nutriti, ma imploriamo solo le briciole necessarie affinché possiamo sopravvivere per servirvi come si conviene agli schiavi. Se vi sembra troppo, ci sia concesso di andare liberi per risparmiarvi la fatica di seppellire i vostri servi. E se anche questa richiesta fosse eccessiva, ebbene concedeteci la grazia di venire tutti uccisi”.

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Besa e Conone, i due generali bizantini, rispondono che la carenza di cibo non permette di soddisfare tale richiesta, ma al contempo è assolutamente impossibile lasciare varcare le mura a chi lo chiede, poiché ciò rappresenterebbe un pericolo troppo gravoso per la sicurezza della città. Cercano quindi di rassicurare Pelagio, affermando che l’arrivo di Belisario avrebbe rimesso le cose a posto, e quindi sciolgono l’assemblea.

La fame, però, resta, anche perché ai due generali ed alla loro corte l’assedio rende parecchio oro: riducendo al minimo le razioni delle truppe, iniziano infatti a vendere il cibo ai Romani più ricchi, arrivando a vendere un bue per cinquanta denari. Questa “borsa nera”, però, non dura a lungo: i mesi passano e le provviste si riducono allo stretto necessario anche per i generali, costringendo i soldati a raccogliere erbe e bollire le ortiche. È a questo punto che, seppur consci del rischio, i due generali concedono ai Romani il permesso di uscire dalle mura alla ricerca di cibo, consapevoli del fatto che molti di essi non torneranno, disperdendosi nelle campagne.

L’ARRIVO DI BELISARIO

A questo punto, arriva Belisario: alla foce del Tevere, dopo aver lasciato a Portus moglie e figli, le sue navi cariche di vettovaglie tentano di risalire la corrente, ma per portare in città uomini e viveri il generale deve distruggere una barriera che pare invalicabile. A sud della città, infatti, Totila ha innalzato due torri su un argine costruito con solidi tronchi, piazzando una colossale catena di ferro ad attraversare il corso del Tevere, contro la quale le prime navi di Belisario vanno per l’appunto a schiantarsi. Belisario deve tentare di proseguire, e con una nave corazzata sfonda la catena, aprendosi la strada per Roma.

È a questo punto che Totila sceglie di giocare d’astuzia, mettendo in moto la propria rete di informatori e facendo giungere al campo di Belisario una falsa notizia in grado di gettare scompiglio: Totila gli fa sapere che Portus è in pericolo e sta per cadere nelle sue mani, e a quel punto Belisario, preoccupato per la sorte dei suoi cari, annuncia la ritirata, giustificandosi con i suoi uomini dicendo “Non è per la mia famiglia, ma per il tesoro della spedizione che ho lasciato là”.

Quando Belisario si accorge della beffa, è ormai troppo tardi. Il 17 dicembre 546 d.C. Totila ha infatti attraversato nottetempo le mura di Roma, insediandosi nel quartiere lateranense. Fa subito suonare le trombe, avvertendo i Romani di nascondersi nelle chiese e di fuggire in campagna per assicurarsi la sopravvivenza. Due ore dopo, camminando in strade silenziose, Totila incontra il diacono Pelagio con in mano il Vangelo, e gli chiede: “Vieni per supplicare pietà?”. Pelagio gli si sottomette: “Dio mi ha reso tuo servo. Abbi dunque pietà del tuo servo”. Totila mostra un accenno di clemenza, ordinando che non venga fatto del male a nessun Romano, ma non può risparmiare il saccheggio se vuole conservare la fedeltà delle proprie truppe.

Roma, dunque, una Roma lontanissima dai fasti dell’Impero, subisce l’ennesimo affronto. Ma che bottino può mai fornire una città esausta, debilitata da tanti affanni, rinsecchita dalla cupidigia dei Greci? Non si verifica nessun episodio spiacevole, con i cittadini romani rispettai dal primo all’ultimo.

L’IRA DI TOTILA

Il giorno successivo alla conquista, Totila raduna i suoi uomini: si dice felice della conquista ed orgoglioso della potenza dei Goti, ma ammonisce che una forza misteriosa punisce i peccati dei sovrani e dei popoli, spiegando che proprio per questo è necessario essere misericordiosi coi vinti. I senatori Romani, sul Palatino, ascoltano a testa bassa Totila che rimprovera la loro acquiescenza ed il loro debole opportunismo; quindi il Re parla di Teodorico, del tradimento che i senatori gli hanno usato, adirandosi all’idea e venendo calmato solo dal diacono Pelagio, tanto da affermare “Agirò dunque secondo clemenza, non obbedendo alla giustizia”.

L’inquietudine, però, non è finita: da un lato i Greci nascosti in città alimentano il malcontento e favoriscono piccole ribellioni, dall’altro una piccola rivolta travolge le guarnigioni di Totila in Lucania. Il re inizia a perdere le staffe: “Se questa città non ci vuole ce ne andremo, ma prima la ridurremo ad un pascolo desolato.

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Belisario, comprendendo lo stato d’animo esasperato di Totila, sceglie di inviargli una missiva: “Ora possono accadere due cose: o tu sarai vinto dall’Imperatore, oppure lo sconfiggerai. In tal caso, o eccellente uomo, se distruggerai Roma farai perire non una città che ti è estranea, ma una città che appartiene anche a te. Se invece la conserverai, ti arricchirai, senza spendere nulla, del bene più splendido. Ricordati che il mondo giudica i re dalle loro buone imprese”.

Totila, dal canto suo, pensa soprattutto ad abbattere le mura della Città Eterna: dopo aver abbattuto circa un terzo del perimetro, egli lascia Roma e si dirige verso la Lucania. I Goti che presidiano Roma sono in buon numero, ma senza l’abilità del loro generale Totila sembrano quasi intontiti: è in questo momento che Belisario prende la palla al balzo, impossessandosi in poche ore della città e cominciando immediatamente a ricostruire le mura.

LA DISFATTA DI TOTILA

La notizia coglie di sorpresa Totila, ormai giunto in Puglia; a marce forzate il re dei Goti torna sui suoi passi, senza badare alla stanchezza delle sue truppe, e tenta un assalto basato sull’ira e sulla furia cieca. Totila commette, in tal senso, lo stesso errore commesso in passato da Vitige: non solo infatti Belisario lo respinge tre volte, ma nell’ultima battaglia Totila rischia persino la disfatta, con le sue insegne che finiscono nelle mani delle truppe di Belisario.

La sua stella pare inesorabilmente tramontata, con i suoi generali che si accalorano contro di lui, rimproverandogli (forse non senza un pizzico di ragione) la decisione di aver abbandonato Roma per difendere terre lontane e fonte di miseria.

Totila, però, è mosso da un unico pensiero, che potrebbe ribaltare le sorti del proprio destino. Da mesi infatti attende una risposta dal re dei Franchi, Teodoberto, dopo avergli chiesto in sposa la figlia. Totila vuole un’alleanza politica saldata da un matrimonio, che avrebbe obbligato i Franchi ad un patto di amicizia. La perdita di Roma, però, causa un indiretto sfacelo nel progetto di Totila: Teodoberto gli fa recapitare infatti un durissimo messaggio, nel quale afferma che non darà mai la figlia ad un condottiero incapace di difendere una città appena conquistata. Il re dei Franchi non ha fiducia in lui e non crede affatto nelle sue possibilità di governare in pace l’Italia.

LA RIVINCITA DI TOTILA

Totila, che nel frattempo perde anche Capua dopo una logorante guerriglia, rinsalda le fila dei suoi uomini e ristruttura la propria posizione: fortifica le guarnigioni, riporta i suoi uomini alla vittoria, tesse intrighi che gli consentono conquiste senza sangue.

Belisario stesso subisce la sua rinnovata iniziativa, ritrovandosi costretto a lasciare Roma: sotto la Città eterna, nella primavera del 549 d.C., ricompaiono le insegne dei Goti, che stavolta conquistano con facilità la più inerme delle prede. Totila sceglie una strategia prudente, ben conscio degli errori commessi in passato: lascia le mura come sono, si preoccupa di rimpolpare il numero degli abitanti richiamando i Goti presenti in Campania e favorendo il rimpatrio delle famiglie patrizie, organizza un funzionale rifornimento di viveri e ordina di ricostruire tutto ciò che è distrutto, dai ponti alle case, dalle fogne ai palazzi.

Totila è combattuto fra il desiderio di pace e la sua innata sete di guerra. L’orgoglio del trionfo gli suggerisce di dare una lezione ai Siciliani, veri padroni del Mediterraneo e gli alleati più preziosi di Giustiniano: raduna quindi quattrocento navi e piomba in Sicilia, devastandone i porti come un feroce pirata.

A quel punto, fiero dei propri rinnovati successi, invia un ambasciatore romano a Bisanzio. Totila domanda a Giustiniano di poter governare l’Italia: vuole un’alleanza forte e politicamente salda, promettendo in cambio rispetto e devozione. L’ambasciatore, però, non viene neppure ricevuto: da Oriente, infatti, un esercito sta marciando silenziosamente verso l’Italia, attraversando le coste della Dalmazia e le paludi venete.

NARSETE

Il silenzioso esercito è guidato da Narsete, un cortigiano astuto, caro all’imperatrice Teodora ed utilizzato spesso da Giustiniano per spiare l’opera dei generali impegnati in terre lontane. Narsete è già venuto in Italia una volta, nel 538 d.C., proprio allo scopo di verificare come se la cavasse Belisario contro Teodato. Giustiniano ha piena fiducia in lui: di origine armena, era stato venduto bambino alla famiglia imperiale ed era stato subito evirato, come imponeva l’uso crudele del tempo.

Narsete è la longa manus di Giustiniano in Italia.

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Primavera del 552 d.C.

L’esercito bizantino è forte di un contingente tra i sessanta e i centomila uomini, che a Giustiniano costeranno un mezzo patrimonio. Non potendo infatti far leva sugli ideali umanitari che entusiasmavano gli uomini di Totila, Narsete fa correre il denaro: Longobardi, Gepidi, Unni e Persiani gonfiano, da avidi mercenari, le sue schiere.

Nel venire a sapere del prossimo attacco, Totila richiama le truppe che si è lasciato alle spalle nel Meridione, radunandole a Roma. Comprende immediatamente come stia per avvenire lo scontro decisivo.

I due eserciti arrivano a Tagina (oggi Gualdo Tadino, in Umbria), ma per alcuni giorni si fronteggiano senza combattere. Da un lato è notorio che Totila non ami scatenare per primo la battaglia, dall’altro Narsete sa benissimo che questo è l’ultimo grande esercito che Giustiniano può radunare, e che quindi una sconfitta significherebbe la perdita del Mediterraneo occidentale ed un pluriennale dominio Goto.

Narsete sceglie quindi di giocare d’astuzia, tentando la carta dell’intimidazione. Sapendo che Totila non ama correre inutili pericoli, lo invita ad arrendersi, promettendogli onori e una vita tranquilla a corte. Al rifiuto di Totila, Narsete prova a giocarsi il secondo asso nella manica, ossia la proposizione di una tregua di otto giorni. Totila, che attende rinforzi, accetta. Narsete, a quel punto, ne approfitta per impadronirsi di nascosto di postazioni militari di grande importanza strategica, celando il fianco sinistro del proprio schieramento alla vista dell’avversario.

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Totila si rende conto di come il tempo sia a favore del proprio antagonista, e decide di rompere gli indugi. La sua arma migliore è la cavalleria, che però finisce sotto il tiro delle frecce nemiche, appostate sulla collina che Narsete è riuscito a conquistarsi con fine strategia ed un pizzico di inganno. È proprio negli arcieri che confida Narsete, e la strategia gli arride: malgrado la galoppata affannosa e disperata sotto la tempesta dei dardi bizantini, Totila e i suoi si presentano decimati allo scontro finale, tanto che a Narsete è sufficiente la fanteria per disperdere i Goti.

Gli uomini migliori di Totila restano cadaveri sul terreno, e lo stesso sovrano viene ferito in modo assai grave, riuscendo comunque ad allontanarsi dal campo di battaglia e a rifugiarsi nel piccolo borgo di Caprae (Caprara), a pochi chilometri di distanza. Le conseguenze del colpo di lancia subito, però, sono purtroppo per lui mortali: Totila spira, all’età approssimativa di trent’anni, ed il suo corpo viene seppellito in fretta e furia dai suoi uomini, prima che questi ultimi riprendano la fuga.

Narsete, però, non si fida affatto di questo barbaro così diverso dagli altri per astuzia e lungimiranza, e chiede di disseppellirne il corpo, affinchè possa verificarne la morte: a quel punto, strappa la spada di Totila dalle mani del cadavere e la spedisce a Giustiniano come prova del decesso. L’incubo è finito: con la scomparsa del “fiero ed umano eroe Goto”, come lo definisce lo storico Procopio di Cesarea, l’Italia diventa una provincia dell’Impero Bizantino.

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3 pensieri su “Totila contro Narsete

  1. Francesco bossi dice:

    Non vengono ricordati i particolari della battaglia avvenuta di pomeriggio nella piana di gualdo tadino forse !!! Altro ancora…

  2. Salvatore sassu dice:

    COmplimenti, la storia studiata a scuola mancava
    di gusto e interesse come suscitati da da tale narrazione.

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