LA VITA DI RAFFAELLO SANZIO
A undici anni era già orfano: la madre aveva chiuso gli occhi tre anni prima, ancora molto giovane, due fratelli erano scomparsi in tenerissima età ed ora anche il padre se ne era andato, lasciando la casa deserta.
Per paradosso, fu quindi la morte ad accompagnare, col suo lugubre passo, l’ingresso nella vita di un giovanissimo Raffaello Sanzio che, proprio in virtù di quelle contraddizioni che segnano spesso il destino dei talenti più geniali, divenne poi celebre per avere espresso con la sua pittura l’ideale di bellezza del Rinascimento, che era fatto di gentilezza, di perfezione della natura e soprattutto di gioia di vivere.
L’INFANZIA
Il padre, quando egli nacque in Urbino, in contrada del Monte, la notte del venerdì santo del 1483 (che, quell’anno, cadeva il 6 aprile), scelse per lui il nome di un arcangelo: Raffaello. Giovanni Santi, che discendeva da una vecchia famiglia di contadini e di mercanti, aveva dovuto abbandonare il paese d’origine di Colbordolo a causa delle guerre che a quei tempi funestavano le regioni italiane. Aveva però trovato una sistemazione a Urbino, dove era riuscito a farsi benvolere alla Corte dei duchi di Montefeltro: dipingeva e, come si usava a quell’epoca, aveva aperto una “bottega d’arte”, dove lavorava aiutato da alcuni allievi.
Giovanni Santi si era deciso al matrimonio piuttosto tardi, ma al momento opportuno aveva scelto una ragazza molto più giovane di lui che, oltre a essere bella, era anche ricca, essendo figlia di un agiato mercante di Urbino. Magia Ciarla portò al suo quarantenne sposo una notevole dote, circa centocinquanta fiorini, e si dimostrò moglie devota, diventando presto madre tenera e affettuosa; il destino, però, le volse d’improvviso le spalle, facendole morire ancora in fasce una figlia (e più tardi un’altra creatura appena nata) e non permettendole di allevare l’unico superstite, cioè Raffaello, perché una crudele malattia la spense il 7 ottobre 1491.
Giovanni cercò di reagire alla disgrazia, scegliendo una nuova madre per il figlio. Ma Bernardina di Pietro, la donna che egli sposò in seconde nozze nel 1492, non fu per Raffaello una buona matrigna, e il ragazzo, quando il 1° agosto 1494 perdette anche il padre, rimase letteralmente solo; la giovane vedova, infatti, non si curò affatto del figliastro, ma pensò soltanto ai propri interessi. Così Raffaello, pur essendo amato teneramente da una zia, Santa, capì che doveva sistemare in qualche modo la propria vita al di fuori delle mura domestiche.
L’APPRENDISTATO A URBINO
Accanto al padre, fin dall’infanzia, Raffaello aveva imparato a dipingere, scoprendo dentro di sé una naturale inclinazione per la pittura. Adesso, rimasto solo, non gli restava che continuare per questa via.
Pochi giorni prima di morire, il 29 luglio 1494, il padre aveva voluto stendere il testamento alla presenza dello scultore milanese Ambrogio Barocci e di un suo allievo, Evangelista di Piandimeleto, nominando quali suoi eredi universali il fratello Bartolomeo e il figlio Raffaello.
Oltre a quello che il padre gli aveva lasciato, Raffaello trovò conforto ed aiuto in un giovane pittore, Timoteo Viti, che era molto benvoluto alla corte del duca Guidobaldo di Montefeltro. Accanto al Viti, che era reduce da un soggiorno nello studio del bolognese Francesco Raibolini detto il Francia, poté così progredire nell’ascesa artistica; in ogni caso, a sviluppare ancor il suo talento contribuirono anche gli esempi delle opere dei maestri forestieri che brillarono a Urbino in quell’aureo periodo della corte dei Montefeltro, tra cui Piero della Francesca, Melozzo da Forlì e Luca Signorelli.
È indubbio che Raffaello frequentò il Palazzo Ducale di Urbino, ricostruito da Luciano Laurana per incarico dei Montefeltro. In quei tempi, pur burrascosi per guerre e intrighi politici, la corte urbinate era infatti un’oasi d’arte e di letteratura, ed il ragazzo ora poteva assaporare fino in fondo il fascino di quella culla artistica, accolto nel palazzo dal giovanissimo figlio e successore del leggendario condottiero Federico, ossia il duca Guidobaldo da Montefeltro.
IL CLIMA DI PERUGIA
Se le suggestioni di Urbino e degli artisti che in quel tempo ne ornarono la corte influirono sulla sua formazione, la vera lezione che determinò il suo esordio creativo gli venne tuttavia dal trasferimento a Perugia, alla scuola di Pietro Vannucci, detto il Perugino.
Quando e come Raffaello compì questo viaggio? I dati e le notizie biografiche sono scarsissimi e, molto spesso, controversi o addirittura contrastanti. In quale anno si recò nella città umbra? Nel 1500, qualche anno prima, oppure addirittura poco dopo la morte del padre, nel 1495, come parecchi studiosi sostengono? La domanda deve necessariamente restare senza certa risposta, ma è certo che Raffaello abbia incontrato il Perugino e frequentato la sua scuola, venendo però a contatto, nella burrascosa città umbra, non solo con la mirabile arte del proprio maestro, ma anche con tragiche vicende sociali e politiche.
La città di Perugia era infatti dominata da una oligarchia familiare, quella dei Baglioni, che era riuscita con una crudele lotta di fazioni a bandire gli avversari capeggiati dalla casata degli Oddi. Nel 1500, però, le vie della città furono teatro di una strage. Il 18 luglio, mentre fervevano le feste per le nozze di Astorre Baglioni, figlio del capofamiglia Guido, suo nipote Grifonetto, a lui fieramente avverso, piombò in città con una torma di uomini decisi a tutto piombò e trucidò Astorre nel suo letto, invano difeso dalla disperata sposa.
Poiché però sangue richiama sempre altro sangue, Giampaolo Baglioni, scampato alla strage, raccolse un gruppo d’armati e tornò animato da una spietata sete di vendetta, uccidendo tutti gli assassini e colpendo a morte anche lo stesso giovane Grifonetto. Il giorno dopo Giampaolo prese possesso del Palazzo Baglioni, mentre la cattedrale di San Lorenzo, anch’essa teatro di carneficina, veniva purificata.
La madre di Grifonetto, Atalanta Baglioni, in memoria della tragica fine del figlio fece voto di far erigere un altare e affidò al giovane Raffaello l’incarico di dipingere la Deposizione di Cristo, detta Pala Baglioni. L’artista terminò l’opera nel 1507, collocandola nella cappella di famiglia della chiesa perugina di San Francesco al Prato, sebbene il dipinto si trovi oggi esposto alla Galleria Borghese di Roma, grazie ad un sotterfugio organizzato impunemente dal potentissimo cardinale Scipione Borghese, più di un secolo più tardi.
L’eccidio a cui Raffaello aveva assistito gli lasciò nel cuore un segno profondo, tanto da lasciarne probabilmente un segno anche nell’impetuoso San Giorgio (oggi esposto alla National Gallery of Art di Washington) in cui il pittore fece rivivere lo scatenato Giampaolo Baglioni.
L’INFLUENZA DEL PERUGINO
A Perugia Raffaello non trovò però, per sua fortuna, solo sangue e tragedia; c’era infatti soprattutto la scuola, allora famosa e ricca di allievi, dove Pietro Vannucci incantava i discepoli con la sua arte delicata e sognante.
Il Perugino, al tempo in cui ebbe vicino Raffaello, era già oltre i cinquant’anni e aveva raggiunto il culmine del suo sforzo creativo: si avviava, quindi, verso il tramonto, ma la sua pittura, con le figure sempre tese verso una bellezza ideale, esercitava ancora un profondo fascino. Finì che i due si intesero in modo talmente perfetto che più tardi il pittore e biografo Giorgio Vasari scrisse che “Raffaello durò fatica a smorbarsi degli influssi del Perugino”.
Il segno più incisivo lasciato dal Perugino nello stile di Raffaello è perfettamente visibile nel celebre Sposalizio della Vergine. L’opera, ordinata al pittore dalla famiglia Albizzini di Città di Castello per ornare la Cappella dedicata a San Giuseppe nella chiesa di San Francesco e terminata nel 1504, venne dipinta a olio secondo la nuova tecnica della scuola fiamminga, e subì nei secoli una serie di avventurose vicissitudini: già nel 1571 il duca d’Urbino, lamentandosi dell’incuria della nipote, cercò di far trasferire il dipinto nel suo palazzo, ma i frati di Città di Castello protestarono coraggiosamente, difendendo la proprietà della famiglia patrona della Cappella e riuscendo a sventare il tentativo del duca d’Urbino. Quando però in Italia giunsero le armate di Napoleone, le autorità di Città di Castello, nell’intento di ingraziarsi i conquistatori, regalarono lo Sposalizio della Vergine al generale napoleonico Lechi, il quale si affrettò a trasferirlo nella sua abitazione a Milano. Qualche tempo dopo, il dipinto venne acquistato per 50.000 lire da un nobile lombardo, Giacomo Sannazzari, che alla sua morte (1804) lo lasciò in eredità alla quadreria dell’Ospedale Maggiore.
Le avventure dello Sposalizio della Vergine non erano però terminate: il capolavoro fu in seguito venduto al Governo, che a sua volta lo cedette all’Accademia di Brera. Questo dipinto ripete nel soggetto, nella struttura esteriore e nella composizione figurativa, lo Sposalizio della Vergine dipinto dal Perugino, oggi esposto al Museo delle Belle Arti di Caen. L’influsso e la derivazione sono evidenti, ma eppure proprio quest’opera testimonia meglio d’ogni altra il momento in cui Raffaello, appena ventenne, si staccò dalla sudditanza del maestro, per assumere uno stile più peculiare.
LA FIRENZE DI LEONARDO E MICHELANGELO
La collaborazione col Perugino aprì a Raffaello nuovi orizzonti, portandolo poi lontano dalla città umbra. In quegli anni il centro artistico più importante d’Italia era Firenze, dove spesso il Perugino si recava chiamatovi dai suoi impegni: forse Raffaello vide per la prima volta la città toscana accompagnandovi il maestro in uno dei suoi viaggi. Quel che è certo è che vi si stabilì nel tardo autunno del 1504, dato che in una lettera del 1 ottobre di quell’anno Giovanna Feltria, moglie di Giovanni della Rovere, raccomandò al Gonfaloniere di Firenze Pier Soderini “Raffaello pittore da Urbino, il quale ha buono ingegno nel suo esercizio”.
In quel tempo la contemporanea presenza a Firenze di Michelangelo e Leonardo aveva suscitato nella città uno straordinario interesse per le arti: entrambi avevano difatti accettato di decorare una sala di Palazzo Vecchio, esponendosi così a una gara che elettrizzò i fiorentini, dividendoli in due fazioni. Leonardo aveva scelto come argomento la Battaglia d’Anghiari e Michelangelo la Battaglia di Cascina, ma la gara si limitò ai disegni preparatori, perché gli affreschi non furono mai completamente eseguiti. Tuttavia, bastarono i cartoni per entusiasmare gli animi dei fiorentini.
Di certo, li vide anche Raffaello e ne rimase profondamente colpito. Durante il soggiorno fiorentino, egli ebbe occasione di incontrare Leonardo e di studiare la novità della sua pittura, rimanendo impressionato dalla trasparenza e dalla luce attenuata: sotto l’indiretto influsso di Leonardo, Raffaello incominciò una serie di Madonne, in cui raggiunse toni così dolci da creare un nuovo ideale di bellezza femminile. Di questa serie di dipinti, quello che ancor oggi resta fra i più famosi è la Madonna del Cardellino, eseguita nel 1506 in occasione delle nozze di un amico, tale Vincenzo Nasi, e attualmente conservata agli Uffizi di Firenze.
Raffaello non si limitò però ad ammirare Leonardo: fu colpito anche dalla profondità del genio di Michelangelo, ma tra i due grandi maestri non corsero mai buoni rapporti, tanto che sulla loro presunta inimicizia sorsero leggende e aneddoti, spesso esagerati.
Uno dei più celebri è ben noto: un giorno Michelangelo incontrò Raffaello, vestito elegante e circondato da un gruppo di amici, e gli chiese con tono sferzante “Dove te ne vai così circondato come un prevosto?”. Raffaello, di rimando, gli rispose: “E voi, solo come un boia?”, stuzzicando Michelangelo sulla sua carenza di affetti ed amicizie.
LA ROMA DEI PAPI
A dispetto di queste controversie caratteriali, Raffaello non rimase tuttavia insensibile alla potente concezione pittorica di Michelangelo, in particolare quando entrambi lasciarono Firenze per trasferirsi a Roma.
Quando incominciò il soggiorno nell’Urbe? Stando ad una lettera scritta da Roma a Francesco Francia il 5 settembre 1508, molti ritengono che Raffaello vi si sia trasferito nell’estate di quello stesso anno. Tuttavia, poiché alcuni studiosi hanno espresso dubbi sull’autenticità della lettera, per essere assolutamente certi della presenza di Raffaello a Roma bisogna giungere al 4 ottobre 1509, giorno in cui egli ricevette la nomina onorifica da parte del Vaticano di scrittore dei “Brevi Apostolici”.
Se, partendo da Firenze, Raffaello era già celebre, a Roma raggiunse il massimo della propria fama. La sua fortuna e il suo successo sono legati al nome di due pontefici: Giulio II e Leone X. Il primo, eletto Papa nel 1503, aveva un carattere fiero e bellicoso: si autodefiniva “omo sanza lettere” ma in realtà, anche se guerreggiò per mezza Italia incutendo rispetto ai più riottosi avversari, nel campo della cultura e delle arti dimostrò un intuito eccezionale. Non avendo voluto abitare nell’appartamento del suo predecessore, il disprezzato Alessandro VI Borgia, si era fatto allestire una nuova dimora ed aveva chiamato i più rinomati artisti per affrescarne le Stanze: per lui lavorarono il Sodoma, Luca Signorelli, il Perugino ed ovviamente Michelangelo Buonarroti, a cui affidò la decorazione della Cappella Sistina.
Tre anni dopo la sua ascesa al soglio pontificio, Giulio II prese anche la decisione di dar inizio ai lavori della nuova Basilica di San Pietro, nominando sovrintendente dell’imponente opera il più celebre architetto del tempo, Donato Bramante. Fu proprio attraverso questo valente architetto che Raffaello giunse a contatto con Giulio II, che fu subito conquistato dalla gentilezza e dall’amabilità del ragazzo.
A Roma Raffaello si senti avvolto da un’onda di calore umano. Con l’avvento di Giulio II, dopo i tempi oscuri di Papa Borgia, la città era pervasa da un fervore di rinnovamento. Il Papa affidò subito a Raffaello l’incarico di dipingere la Stanza della Signatura e, quando vide i lavori preparatori del primo affresco, la Disputa del Sacramento, l’impulsivo Pontefice fu pervaso da sincera ammirazione: “Via tutti gli altri pittori! Solo Raffaello affrescherà le Stanze Vaticane!”.
LE STANZE DI RAFFAELLO E LA FARNESINA
Il giovane urbinate si mise all’opera con fervore: tra il 1511 e il 1512 portò a termine la Stanza della Signatura, affrescando sulle pareti, oltre alla Disputa del Sacramento, il Parnaso, le Tre Virtù e soprattutto la celeberrima Scuola d’Atene, aggiungendo sul soffitto una serie di figure allegoriche. Egli celebrò così il trionfo della scienza divina e dell’umana sapienza, mentre le tre Virtù cardinali e la Poesia (rappresentata dal Parnaso e dagli antichi cantori) facevano da legame tra i due campi.
L’attività di Raffaello diventò febbrile: lavorava come se inconsciamente presagisse che il tempo concessogli dal destino era assai breve. Finita la prima Stanza, incominciò subito la seconda, che prese il nome di Eliodoro da uno degli affreschi più significativi.
La sua fama ormai dilagava e, attratti anche dal suo aspetto elegante e dalla cortesia del suo comportamento, a lui si rivolsero i personaggi più illustri della capitale cristiana chiedendogli sempre nuovi dipinti. Fra i primi a dimostrargli amicizia e ammirazione fu Agostino Chigi, favolosamente ricco e potente, il quale già nel 1511 gli aveva affidato da affrescare una sala della sua Villa Farnesina con il Trionfo di Galatea.
A Roma, però, in quegli anni lavorava anche Michelangelo e il confronto (se non lo scontro) fra i due grandi fu inevitabile. Un giorno, durante un’assenza del Buonarroti (che non amava affatto che si guardassero le sue opere prima del compimento delle stesse), Giulio II, impaziente di vedere quello che il “solitario fiorentino” andava dipingendo sulla volta della sua Cappella Sistina, fece parzialmente scoprire il soffitto. Accorsero in molti a curiosare, ed anche Raffaello non resistette alla tentazione: rimase così colpito dalla potenza michelangiolesca che, come gli era già accaduto a Firenze per Leonardo da Vinci, mise subito a frutto la lezione negli affreschi delle Stanze, studiando le muscolature dei nudi e la drammaticità dei movimenti. Quando Michelangelo venne a sapere dell’iniziativa del Pontefice, reagì con violenza e soprattutto si adirò con Raffaello, accusandolo di voler competere con lui.
La polemica non ebbe tuttavia risvolti tempestosi, anche perché Raffaello sapeva sempre comportarsi nei rapporti umani con abilità e gentilezza. D’altra parte Michelangelo, sebbene fosse uomo di molti difetti e contrassegnato da natura aspra e scontrosa, possedeva un profondo senso di rettitudine e, quando per una contestazione sul compenso spettante a Raffaello per l’affresco del Profeta Isaia nella Basilica di Sant’Agostino, fu chiamato come arbitro, disse chiaramente che il lavoro del rivale valeva ben più del prezzo pattuito, con la famosa affermazione “solo il ginocchio vale il suo prezzo”.
Intanto, mentre gli affreschi della seconda stanza, la Stanza di Eliodoro, non erano ancora terminati, la notte del 22 febbraio 1513 scompariva Giulio II. Venti giorni dopo veniva eletto Papa il figlio di Lorenzo il Magnifico, il cardinale Giovanni de Medici, che prese il nome di Leone X. Come carattere, il nuovo Pontefice era agli antipodi del suo predecessore: invece della guerra sognava un mondo tranquillo nel quale godere in pace quel che Dio gli aveva donato, amava le arti e, avendo ereditato dal padre la passione del mecenatismo, protesse con generosità pittori e letterati. Ammirò e fece lavorare Michelangelo, anche se avvertì sempre un certo imbarazzo davanti ai modi bruschi e sbrigativi del fiorentino, ma soprattutto predilesse Raffaello.
Il pittore urbinate, spinto dai favori del Pontefice, aumentò ancor più il ritmo del lavoro. Nel 1514 portò a termine la Stanza di Eliodoro e succedette al Bramante come architetto di San Pietro; l’anno seguente venne nominato Conservatore delle Antichità Romane e nel 1516 diede inizio agli affreschi dell’Incendio di Borgo nella Stanza omonima in Vaticano.
Contemporaneamente alle grandi opere commissionategli dal Papa, si dedicò anche ad altri dipinti e, soprattutto, a molti ritratti, fra cui quelli, poi celeberrimi, di Baldassarre Castiglione e dello stesso Leone X.
IL FASCINO FEMMINILE
A differenza di Michelangelo, chiuso, solitario e misogino (a detta di alcuni studiosi, probabilmente omosessuale), Raffaello non si ritrasse affatto davanti al fascino muliebre. Una donna, in particolare, riscaldò il suo cuore, ispirandogli i volti femminili dei suoi dipinti: era la figlia di un modesto fornaio di Trastevere, Francesco Luti, e si chiamava Margherita, ma alla storia è passata come Fornarina.
Di una bellezza calda e intensamente mediterranea, la Fornarina fu, in un certo senso, la protagonista degli ultimi anni di Raffaello. Eppure egli aveva accettato come fidanzata ufficiale la nipote del famoso cardinale Bibbiena, Maria, che egli ribattezzò poeticamente e con un pizzico di dolce ironia “la mamola bianca”. Maria (giovanissima, dolce e innocente) impersonava un ideale di donna del tutto diverso dalla Fornarina e forse proprio per questo Raffaello, pur avendo acconsentito a legarsi a lei, non aveva mai mostrato un’eccessiva sollecitudine nel condurla all’altare. Continuò a rimandare, giustificandosi (come fece in una lettera allo zio Simone Ciarla del 1514) con l’affermazione che, non avendo una famiglia, poteva così dedicarsi interamente all’arte.
Finì purtroppo che Maria Bibbiena, a soli diciotto anni, chiuse per sempre gli occhi proprio alla vigilia della drammatica fine del pittore. Ma, oltre al pretesto dell’arte, come poteva Raffaello pensare seriamente al matrimonio, se la passione per la Fornarina lo esaltava al punto da fargli dimenticare anche i suoi impegni di lavoro? Era così innamorato che, al tempo in cui affrescava il Palazzo della Farnesina di Agostino Chigi, si allontanava continuamente dalle impalcature per correre in Trastevere, a poche decine di metri, a visitare la bella Fornarina. Preoccupato per la lentezza con cui proseguivano i lavori, Agostino Chigi, che era un uomo d’affari, prese una decisione piuttosto ardita per quei tempi: convinse la Fornarina ad accettare l’ospitalità nel suo palazzo, in modo da non far perdere troppo tempo all’innamorato pittore.
LA MORTE DI RAFFAELLO
Erano tanti e tali gli impegni che Raffaello si circondò di una schiera di allievi capaci di sostituirlo nel lavoro di rifinitura. Così, all’inizio del 1519, egli poté completare gli imponenti affreschi delle Logge Vaticane: ideate dal Bramante e finite poi da Raffaello, le Logge erano formate da ben tredici arcate lunghe sessantacinque metri. L’urbinate decorò ogni arcata con quattro dipinti ispirati dal Vecchio Testamento (le prime dodici) e dal Nuovo Testamento (la tredicesima arcata), creando un’opera di tale complessità grafica da essere soprannominata “la Bibbia di Raffaello”.
Lavorava, amava e viveva nel lusso, ben lontano dal pensare che la morte stava avvicinandosi. Aveva acquistato dai Caprini, per la favolosa somma di tremilaseicento ducati, un palazzo in Borgo Nuovo, ideato dal Bramante. Qui, circondato da servi e da allievi, conduceva una vita sfarzosa come un vero signore del Rinascimento. A trentasette anni, Raffaello aveva avuto tutto dalla vita: fama, gloria e ricchezza.
D’improvviso, però, il suo sole si oscurò. Forse fu la sifilide a trascinarlo nell’Aldilà, con il pittore imbarazzato nello svelare ai medici la propria condizione prima che fosse troppo tardi.
“Nel vedere il corpo morto e l’opera viva, l’anima scoppiava di dolore a ognuno che quivi guardava”, scrisse Giorgio Vasari, descrivendo la folla accorsa a Roma nella casa di Raffaello Sanzio quella sera del 6 aprile 1520, Venerdì Santo, quando si diffuse la notizia che il pittore era morto.
I discepoli avevano allestito la camera ardente nella sala dove lavorava, appendendo dietro al letto il grande quadro incompiuto della Trasfigurazione, oggi esposto nella Pinacoteca Vaticana. Intanto il Pontefice Leone X, chiuso nel suo appartamento in Vaticano, non sapeva trattenere le lacrime: durante i quindici giorni di malattia, per sei volte aveva mandato i propri medici a visitarlo, e non credeva che quella febbre che aveva colpito il pittore, e che a detta dei dottori poteva essere solo dovuta “ad un colpo d’aria fredda o ad un grande strapazzo”, potesse essere mortale.
Prima di morire, in piena lucidità, Raffaello aveva dettato il testamento, nominando esecutori gli amici Baldassarre Turini da Pescia, datario del Papa, e Giovanni Battista Branconio dall’Aquila. Della sua fortuna, ammontante a ben sedicimila ducati, aveva destinato mille scudi per la manutenzione di una cappella al Pantheon, dove aveva espresso il desiderio di essere sepolto.
La sua volontà fu rispettata. Il 7 aprile 1520, Sabato Santo, mentre le campane di Roma suonavano per la Resurrezione, tutti i cardinali, i vescovi, i grandi dignitari dell’Urbe e gli ambasciatori stranieri sostarono riverenti davanti alla salma del pittore esposta su un grande drappo di velluto nero. Poi il corteo si mosse dal Palazzo di Borgo Nuovo. Lungo il percorso fino al Pantheon, tutta Roma si affollò nelle strade per salutare il pittore delle Stanze Vaticane. Anche la Fornarina attese tra la folla e, quando la bara le passò davanti, vi si gettò sopra disperata.
LA TOMBA DI RAFFAELLO
Raffaello venne sepolto poco lontano dal luogo in cui già riposava la giovanissima Maria Bibbiena, ma col passare dei secoli la sua tomba dovette vivere svariati vicissitudini. Nonostante le palesi testimonianze lasciate dal Vasari, infatti, nel XIX secolo si cominciò a dubitare dell’effettiva presenza delle ossa di Raffaello nel Pantheon; qualcuno sostenne infatti che il pittore sarebbe stato sepolto, non già nella cappella della Madonna del Sasso al Pantheon, ma a Santa Maria sopra Minerva, nella cappella degli Urbinati.
Quando i contrasti e le polemiche assunsero un tono acceso, la Congregazione dei Virtuosi al Pantheon decise di richiedere il permesso per eseguire scavi alla ricerca dei resti di Raffaello. Naturalmente si cominciò dal luogo indicato dalla tradizione cinquecentesca, vale a dire dall’altare della Madonna del Sasso, e fu proprio lì, al mattino del 14 settembre 1833, che venne ritrovata la cassa d’abete con lo scheletro intatto del pittore. La notizia suscitò vivo interesse non solo a Roma, ma in tutta Italia ed Europa, e le autorità dovettero esporre al pubblico le ossa per un periodo di sei giorni, per accontentare la folla che si era riversata a Roma alla notizia del ritrovamento,
I resti di Raffaello vennero quindi rinchiusi in una nuova cassa e nuovamente tumulati nella cappella, dove ancor oggi riposano, tappa fondamentale per turisti e cittadini desiderosi di mantenere viva la memoria del grande maestro rinascimentale.
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