LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI
All’alba del 5 aprile 1453, un rumore assordante proveniente dalla campagna fece accorrere sulle mura la popolazione di Bisanzio e diede agli abitanti un profondo senso di scoramento: fino ai monti della Tracia, ossia fin dove giungeva lo sguardo, la pianura formicolava di armati, di stendardi e di macchine d’assedio. Dagli spalti della città, si potevano udire le voci dei capitani nemici impartire ordini fra gli squilli delle trombe.
Mentre l’esercito turco, forte di 80.000 uomini, stringeva d’assedio la gloriosa capitale dell’impero cristiano d’oriente, una flotta di 500 vascelli giungeva in vista del Bosforo. Evidentemente, il sultano Maometto II aveva deciso di farla finita con la città che da secoli intralciava l’avanzata ottomana verso l’Europa. Bisanzio contava allora 60.000 abitanti e, a dirla tutta, era ormai l’ombra della splendida metropoli di un tempo, ormai minata da una lunga agonia: il saccheggio operato dai Crociati nel 1204 aveva in effetti privato Bisanzio di tutte le sue ricchezze, e gran parte degli imponenti edifici del Patriarcato, intorno alla Cattedrale di Santa Sofia, erano stati rasi al suolo. Per l’incoronazione dell’imperatore, un tempo fastosissima, si usavano ormai delle gemme di vetro e i pasti alla corte imperiale erano serviti su piatti di rame; il commercio, chiave di volta della potenza bizantina, era caduto interamente nelle mani dei veneziani e dei genovesi. Bisanzio, in altre parole, era diventata una colonia dei “latini” (così erano denominati all’epoca i cristiani d’occidente), i quali proteggevano ciò che restava dell’impero cristiano d’oriente dopo averlo abbondantemente salassato a proprio vantaggio.
La situazione sfiorava però il paradosso. Le poche migliaia di genovesi, che al comando del valoroso generale Giovanni Giustiniani formavano il nerbo della guarnigione, indossavano pesantissime cotte di maglia, e ciò era dovuto non solo al fatto di proteggersi dagli eventuali attacchi nemici, ma anche al pericolo di buscarsi una pugnalata a tradimento per l’astio che da anni covava nella popolazione verso i “latini”, fratelli cristiani ben poco amati dagli abitanti di Costantinopoli. Solo la gravissima minaccia turca aveva indotto l’imperatore Costantino XII a chiedere aiuto ai veneziani e ai genovesi.
Una premessa, necessaria in virtù dell’importante commento da parte di un utente: io sono personalmente a favore degli storici che indicano come realmente avvenuto, fra il 1204 e il 1205, il regno di Costantino Lascaride. A causa della brevità del suo regno, in cui non riuscì a coniare nemmeno una moneta aurea, alcuni storici non lo riconoscono come Imperatore, “retrodatando il numero di Costantino” da XII a XI. Pertanto, sebbene la maggior parte degli studiosi indichi il Costantino a difesa della città come Costantino XI, io lo citerò come Costantino XII.
LE PREMESSE DELL’ASSEDIO
Per capire come si fosse giunti a questo sconcertante epilogo, è necessario ricapitolare per sommi capi la storia dell’Impero Romano d’Oriente, la cui conoscenza tende a fermarsi in genere all’epoca di Giustiniano, mentre assai meno note risultano spesso le vicende di Bisanzio (battezzata Costantinopoli nel 330 d.C.) nei secoli che vanno dalle incursioni arabe alla sua caduta definitiva.
Perdute la Siria, l’Africa Settentrionale e la Sicilia ad opera degli arabi, l’Impero d’Oriente aveva tacitamente rinunciato a difendere l’Europa e il Papato (il cui patrocinio era stato assunto dai Franchi) e aveva accentuato di conseguenza la sua caratteristica greco-orientale adottando il greco come lingua ufficiale. All’esterno, i nemici non avevano mai concesso una tregua ma, alternando con sagacia la forza alla diplomazia, Bisanzio era comunque riuscita a tenere a bada i bulgari e gli altri slavi al nord, convertendoli alla fede ortodossa, e aveva bloccato la marea araba sui confini dell’Anatolia: in questo modo l’Impero, seppur mutilato, raggiunse il suo massimo splendore agli inizi dell’XI secolo, proprio mentre il resto dell’Europa era in pieno sfacelo.
Da cosa derivava la superiorità bizantina? Anzitutto, dal fatto che l’industria e il commercio fossero rimasti fiorenti, mentre in gran parte dell’Europa la nobiltà latifondista aveva fatto sparire ogni traccia di iniziativa mercantile nelle città. A soli fini esplicativi, si pensi che lo Stato bizantino, avendo compreso quanto lo strapotere dei feudatari fosse funesto per la libera attività economica della borghesia, pagava di tasca propria le cause intentate dai piccoli proprietari ai latifondisti, i quali cercavano di ridurli alla condizione di servi della gleba.
La burocrazia, quantunque vessatoria in materia fiscale, era ancora efficiente, ma il bilancio statale era oberato dalle spese militari per la guardia alle frontiere. A tal proposito giova osservare che l’esercito bizantino, pur facendo largo ricorso ai mercenari stranieri (unni, vandali, goti, arabi e altri popoli erano stati arruolati nel corso dei secoli) rimaneva però basato sul volontarismo patriottico di alcune stirpi, fedelissime e dotate di grande combattività, che combattevano spesso all’ultimo sangue per la loro patria: si parla, in tal senso, dei traci, dei cappadoci, degli anatolici, degli armeni, tutti minuziosamente addestrati sulla scia delle antiche legioni romane, a cui lo Stato assegnava terre da coltivare sui confini, per cercare di ricreare e di riforgiare quella categoria di agricoltori-soldati che nei secoli passati aveva rappresentato il più solido baluardo dei Paesi circondati da popoli nemici.
LA CRISI E LE CROCIATE
Amalgama spirituale era la fede ortodossa, causa peraltro di innumerevoli conflitti ideologici col Papato; malauguratamente per Bisanzio, in tale dissidio venne a confluire l’ostilità di Venezia, passata nel frattempo dal ruolo di provincia bizantina a quello di rivale accanita.
Dopo la metà dell’XI secolo, parecchi fattori interni ed esterni contribuirono a sminuire la vitalità dello Stato bizantino. La nobiltà latifondista bizantina, non più tenuta a freno, estendeva i suoi feudi e disgregava dall’interno la macchina statale. Venezia si era nel frattempo impossessata della Dalmazia e si affacciava prepotentemente sul Mare Egeo, mentre i normanni rosicchiavano gli ultimi possedimenti italici e i turchi si sostituivano agli arabi nel premere contro l’Asia Minore, occupando l’Armenia e l’Anatolia: gli imperatori di Bisanzio si rivolsero allora all’Occidente cristiano ed il loro appello diede inizio alle Crociate.
Una serie di equivoci turbò però ben presto i rapporti fra i Crociati e gli imperatori di Bisanzio: questi ultimi avevano infatti chiamato i “latini” per recuperare le terre cadute in mano turca, mentre i “latini” intendevano invece liberarle per proprio conto. I baroni Franchi e Normanni, cadetti poveri di famiglie nobili che avevano lasciato l’Europa in cerca di fortuna, anelavano a crearsi dei feudi personali e la costituzione del Regno Latino di Gerusalemme, suddiviso tra i vincitori in Ducati e Contee, rappresentava lo sbocco logico della Prima Crociata. Quanto alla cupidigia veneziana, Bisanzio cercò di contrastarla accordando privilegi doganali e franchigie varie ai genovesi, ma ormai era evidente che Bisanzio fosse in balia dei suoi protettori.
Il peggio, però, accadde quando la capitale dell’Impero d’Oriente fu saccheggiata dai Crociati nel 1204: l’Impero venne a quel punto spartito tra i Veneziani (che si tennero le migliori isole dell’Egeo), i Genovesi e baroni Franco-Normanni.
Pareva la fine, ma l’Impero riuscì miracolosamente a risorgere dalle sue ceneri. L’unità spirituale e politica della Grecia si ricostituì in odio ai “latini” che volevano imporre il cattolicesimo, e nel 1261 un nuovo Imperatore, Michele Paleologo, fu incoronato nella Basilica di Santa Sofia. Questa volta, tuttavia, l’Impero era davvero ridotto ai minimi termini: i Turchi controllavano il passaggio dal Mediterraneo al Mar Nero, l’Armenia e l’Anatolia erano definitivamente perdute, Veneziani e Genovesi mantenevano il possesso di numerose isole e la sovranità effettiva di Bisanzio si esercitava solo su un misero nucleo della Grecia antica, sulla Tracia e su parte dell’Asia minore.
Lo Stato bizantino conobbe allora quelle forme degenerative per cui sarebbe divenuto tristemente celebre: onnipotenza del clero ortodosso, invadenza politica dei monaci latifondisti, dispute oziose a corte, squallore morale e corruzione fra la classe dirigente. Certi difetti, che prima erano contenuti entro limiti accettabili, toccarono il parossismo.
I GIGANTESCHI CANNONI
Nel 1453, l’intera popolazione di un’ormai decaduta Bisanzio, passata da un milione di abitanti a 60.000 residenti, presagiva ormai che il crollo era vicino. Nelle campagne, metà della popolazione contadina era di ceppo turco, con i dignitari bizantini che percepivano chiaramente come si trovassero impelagati in una sorta di ragnatela. Fu a questo Impero, ormai sfatto e disgregato, che Maometto decise di dare la spallata risolutiva.
Il sultano si assicurò innanzitutto i servigi di un celebre fonditore di cannoni, l’ungherese Urban, il quale capì che per demolire le possenti mura di Costantinopoli era indispensabile una bombarda di eccezionale forza d’urto, e chiese a Maometto II di fornirgli i mezzi necessari per costruirla: fu così approntato un gigantesco stampo d’argilla mista a lino e canapa, rinforzato all’esterno da solide cerchiature di ferro e di legno, nel quale venne colata un’enorme massa di bronzo fusa in due forni rimasti accesi per tre giorni ad altissima temperatura. Quando il prototipo fu pronto, il sultano avvisò la popolazione di Adrianopoli, località scelta per l’esperimento, raccomandando di portarsi lontano dal centro abitato per timore che lo spaventoso boato potesse assordare e persino essere fatale alle donne in stato di gravidanza.
Sebbene tali raccomandazioni possano oggi apparire esagerate, in effetti la detonazione fu udita entro un raggio di venti chilometri e il proiettile, una sfera di granito di un metro di diametro e del peso di 1400 libbre, cadde fragorosamente alla distanza di un chilometro e mezzo.
Ben duecento bombarde del tipo ideato da Urban erano pronte quando il sultano mosse all’assedio di Bisanzio: ogni pezzo era trainato da un centinaio di buoi, preceduto da duecento soldati armati di badile che spianavano le asperità del terreno. Mai, sui campi di battaglia europei, si era visto un parco d’artiglieria così imponente, e fu lo spettacolo terrificante di questi ordigni a sgomentare la popolazione di Bisanzio accorsa sulle mura, come detto, all’alba del 5 aprile 1453.
Le mura che proteggevano Costantinopoli da parte di terra erano state iniziate nel 430 d.C. sotto l’imperatore Teodosio e, anche grazie ai perfezionamenti delle epoche successive, costituivano un formidabile ostacolo, che solo le micidiali bombarde di Maometto II potevano incrinare. L’annalista greco Critobulo, un rinnegato passato al servizio del sultano, così descrive lo sparo della mastodontica bocca da fuoco: “Si udiva dapprima come un tremendo muggito, poi la terra si metteva a tremare e il boato rintronava, mentre un lampo squarciava l’aria e il proiettile andava a colpire gli spalti con violenza demoniaca. L’opera muraria volava in frantumi, seminando la morte fra i difensori”.
Data la complessità del caricamento, ogni bombarda sparava soltanto otto colpi al giorno, ma questo ritmo era più che sufficiente a causare gravi danni alle fortificazioni e a fiaccare il morale degli assediati.
L’ASSEDIO DI COSTANTINOPOLI
La prima palla di granito scagliata dall’artiglieria turca colpì le mura nei pressi della Porta San Romano, che venne da allora ribattezzata Top Kapi, che in lingua turca significa “porta del cannone”.
Dopo una settimana di bombardamento, la cinta difensiva di Bisanzio era così smantellata che tutta la popolazione doveva partecipare ai lavori di riassetto per mezzo di tronchi d’albero, macigni, sacchi riempiti di lana e innaffiati continuamente a gran getti d’acqua per evitare che le frecce incendiarie dei Turchi vi appiccassero il fuoco.
Maometto II tuttavia sbagliava nel credere di poter già cogliere il successo finale: i Genovesi, infatti, respinsero con dure perdite gli uomini del sultano lanciatisi all’attacco il 18 aprile, poco dopo il tramonto, mentre la flotta turca tentava inutilmente l’assalto dal mare e non riusciva a forzare il passaggio verso l’insenatura profonda del Corno d’Oro dove la minuscola flotta bizantina, formata da 10 vascelli genovesi su 15, era protetta da una catena di ferro tesa alle due estremità della baia.
Furono proprio i Genovesi, accelerando i tempi, ad inviare il 20 aprile altre quattro grosse galere in rinforzo alla flotta di Bisanzio, mentre Maometto II, nel vedere le vele delle nuove navi, gridava al proprio ammiraglio Baltoglu “Trionfa o muori!”. I marinai turchi cercarono di danneggiare i nuovi vascelli con le frecce incendiarie e i grappini d’arrembaggio, anche in seguito ad un’improvvisa bonaccia che afflosciò la velatura delle galere genovesi, ma quando il vento riprende a soffiare le navi della repubblica ligure si sottrassero al nemico ed approdarono indenni al Corno d’Oro.
La tecnica marinara degli italiani era decisamente superiore a quella turca e, se da Genova e da Venezia fosse arrivata una consistente flotta di soccorso, Bisanzio avrebbe probabilmente potuto avere una qualche possibilità di salvezza. Malauguratamente, l’aiuto degli italiani era evidentemente “interessato”, ragion per cui Genova e Venezia si sorvegliavano a vicenda, ognuna di esse temendo che Costantinopoli, salvata dai turchi, cadesse nelle mani della rivale.
L’esempio di quanto appena affermato venne persino riportato dalle cronache dell’epoca. Un brigantino salpò dal Corno d’Oro battendo bandiera turca per ingannare gli assedianti e andò a perlustrare il Mediterraneo orientale nella speranza di trovare sulla sua rotta una squadra cristiana. Nel porto di Chio era in effetti ormeggiata una squadra veneziana, ma il suo comandante aveva ricevuto dal Doge ordini ambigui, con il comando di intervenire solo se vi fosse la certezza che Bisanzio, respinti i Turchi, non sarebbe caduta sotto il dominio genovese. Nell’incertezza, la squadra veneziana rimase nelle acque di Chio per tutta la durata dell’assedio di Bisanzio, battendosi soprattutto per onor di firma, in nome della fede cristiana: in fondo, infatti, se esisteva una vaga possibilità di alleanza commerciale fra i Veneziani e i Turchi, essa non era nemmeno lontanamente prevedibile con i Genovesi.
LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI
Il 16 maggio, gli assediati capirono da un rumore sotterraneo che i Turchi stavano scavando una galleria per far scoppiare una carica di esplosivo proprio sotto il cuore della città: in fretta e furia, riuscirono a scavare una controgalleria che sventò il tentativo e provocò la morte di centinaia di artificieri musulmani.
Il 18 maggio, poi, per mezzo di una torre di legno, gli assalitori riuscirono a giungere nei pressi delle mura, ma la guarnigione si difese disperatamente col fuoco greco, riuscendo a resistere.
Maometto II cominciava a manifestare i primi segno di sfiducia: si ricordava infatti che, trenta anni prima, suo padre Murad aveva dovuto abbandonare l’assedio della città. Il sultano scelse quindi di offrire all’imperatore Costantino XII una resa onorevole, garantendo alla popolazione il rispetto dei beni e a lui il titolo di re del Peloponneso sotto l’egida ottomana. Con grande fierezza, però, Costantino mandò a dire al sultano: “Né io né alcun altro ha il potere di consegnare questa città. Siamo pronti a morire senza rimpianto”.
Maometto II, a questo punto, radunò il consiglio di guerra: lo stesso sultano e la maggioranza degli alti ufficiali propendevano per l’abbandono dell’impresa, ma il focoso Zagan Pascià chiese che venissero interpellati gli ufficiali subalterni e che si sentisse in qualche modo il parere della truppa. Da questa specie di referendum, emerse la volontà di giocare il tutto per tutto.
Maometto II dispose allora che l’assalto alla città venisse effettuato simultaneamente dal mare e da terra, e promise a tutti i soldati tre giorni di saccheggio senza alcuna limitazione. Il combattimento si accese furioso il 29 maggio e raggiunse l’acme dinanzi alla Porta San Romano, dove i Genovesi, benché assaliti da forze soverchianti, sfruttarono il vantaggio della posizione difensiva rovesciando nel fossato le scale nemiche.
Dopo due ore di sforzi i Turchi, decimati, cambiarono tattica e mossero all’assalto con gli scudi disposti a testuggine: superato il primo muro, la lotta divenne incerta ma i Genovesi riuscirono di nuovo a ricacciarli con un duello all’arma bianca, non permettendo lo sfondamento nemmeno ai pericolosi giannizzeri.
La capitolazione, però, era prossima. Nella notte successiva, Giovanni Giustiniani venne ferito e fu costretto a ritirarsi dalle mura, facendo così mancare alla difesa la sua guida preziosa. Un manipolo di giannizzeri si avvide intanto che alla cosiddetta Porta del Circo la chiusura non era stata fatta a dovere e caricano, costringendo i difensori ad indietreggiare, spaventati dalla vicinanza degli stendardi ottomani.
Di colpo, tutto l’esercito del sultano si riversò entro le mura, rendendo inutile la seppur eroica resistenza. L’imperatore Costantino morì con la spada in pugno, e fu indirettamente graziato dal vedere l’orrendo massacro che ne seguì: la popolazione venne trucidata nelle case, sulle piazze e nelle cattedrali, tanto che il già citato Critobulo scrisse che “l’orrore del saccheggio rimarrà ineguagliato”.
I Turchi si scatenarono con barbara ferocia. Maometto II entrò a cavallo nella Basilica di Santa Sofia, dove erano stati ricoverati i feriti, e che risuonava di grida, di lamenti e di imprecazioni. Ordinò che si facesse silenzio e quindi dispose affinché i muezzin chiamassero i fedeli musulmani alla preghiera: Santa Sofia cessava di essere un tempio cristiano e diventava una moschea, mentre il cadavere dell’imperatore Costantino veniva decapitato, con la sua testa che venne portata in giro per un intero anno, al fine di annunciare ai popoli del sultano il trionfo della Mezzaluna.
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Articolo interessante e ben
scritto. Penso che offrire una panoramica storica , di tante vicende che ancora sono attuali, possa contribuire ad una maggiore comprensione del presente.
Tutto molto bello e accurato, peccato per una grossa svista: l’ultimo Imperatore cristiano di Costantinopoli fu Costantino XI. Non è mai esistito un Costantino XII. Anche se, c’è da dire che nei paesi di religione greco-ortodossa, riguardo a Costantinopoli c’è un antico detto: un Costantino l’ha fondata, un Costantino l’ha perduta e un Costantino la riconquisterà. Magari sarete stati profetici, chissà.
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Buongiorno Vincenzo. Sapevo che questa questione avrebbe “infiammato” una bonaria discussione: io sono personalmente a favore degli storici che indicano come realmente avvenuto, fra il 1204 e il 1205, il regno di Costantino Lascaride. A causa della brevità del suo regno, in cui non riuscì a coniare nemmeno una moneta aurea, alcuni storici non lo riconoscono come Imperatore, “retrodatando il numero di Costantino” da XII a XI. Grazie comunque della precisazione, in virtù della quale aggiungerò una postilla sul testo 🙂
Bellissima ricostruzione.
Avevo letto articoli su quanto riguardava la battaglia di Costantinopoli e questa mi è sembrata di facile comprensione.
Ancora complimenti
Io ho sempre letto fino ad ora che il corpo di Costantino nn venne mai riconosciuto perché ad un certo punto tolse le insegne regali e si confuse tra gli altri combattenti.Grazie e complimenti articolo coinvolgente e ben scritto.
Fantastica ricostruzione dell’assedio di Costantinopoli