IL MILITE IGNOTO
Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, le nazioni che avevano partecipato al conflitto presero varie iniziative per esaltare il sacrificio di quanti avevano combattuto e sofferto nei lunghi anni della guerra. Fra tali iniziative, nel 1920 il generale italiano Giulio Douhet propose che venissero resi i più alti onori alla salma di un combattente caduto in guerra e non identificato: tale suggestiva idea rimbalzò rapidamente da nazione a nazione, e in breve tempo Francia, Inghilterra, Belgio e altri Stati eressero monumenti a colui che subito venne definito “il milte ignoto”.
Nel 1921 venne presentato al Parlamento italiano un disegno di legge mediante il quale si inoltrò la proposta di “trasportare solennemente a Roma i resti di un Caduto ignoto, perché ivi ricevano i più alti onori dovuti a Loro e a seicentomila fratelli”. La legge venne approvata ed il Ministero della Guerra nominò una commissione incaricata di recarsi presso le zone di operazioni belliche, al fine di raccogliere undici salme di Caduti che non fossero in alcun modo identificabili; fra queste ne sarebbe stata designata una, che avrebbe trovato definitiva tumulazione al Vittoriano, in Roma, che da quel momento sarebbe divenuto per tutti “l’Altare della Patria”.
LA SITUAZIONE DEI CIMITERI IN ITALIA
Mentre gli italiani cercavano faticosamente di ricondurre la nazione all’assetto di vita civile, seimila soldati e duecento ufficiali e cappellani militari si misero alla ricerca dei resti dei soldati caduti e rimasti insepolti. Assieme all’ansia e alla volontà di superare anche il ricordo del doloroso recente passato, conviveva in innumerevoli famiglie il dolore per l’assenza, per il mancato ritorno di genitori, di sposi e di figli che la guerra aveva steso per sempre sul terreno dei campi di battaglia, distribuendoli poi precariamente in cimiteri improvvisati o in fosse isolate, o disperdendoli addirittura in zone inaccessibili, fra i dirupi battuti dalle mitragliatrici o in fondo ai burroni dove i soldati erano precipitati negli ultimi sussulti di vita.
Già negli anni di guerra la maggior parte dei caduti era stata trasportata nelle retrovie, ove erano sorti i primi cimiteri di guerra, contrassegnati da paletti e croci, con i nomi incisi sul legno dalla pietà dei compagni superstiti: i caduti giacevano così, sotto le vanghette e gli elmetti, tra gomitoli di reticolati. Dalle mulattiere e dai sentieri della montagna, negli anni dell’immediato dopoguerra, erano scesi numerosi soldati reggendo sulle spalle o caricando sui muli i dolorosi fardelli dei loro compagni di sventura, avvolti in teli di fortuna. Dalle rudimentali teleferiche costruite durante la guerra e ancora funzionanti calavano a valle, legati su assi, i morti raccolti presso le trincee, nei camminamenti e intorno alle baracchette della montagna.
Se da un lato, quindi, le salme venivano trasportate in basso, all’interno di cimiteri maggiormente grandi ed elaborati, in diversi villaggi alpini le popolazioni avevano chiesto e ottenuto, per pietà ed affetto, di mantenere intatti in custodia i piccoli cimiteri militari per i quali promettevano l’assidua amorevole cura di cui avevano già dato prova. Dalle Alpi al mare, quindi, per centinaia di chilometri, una costellazione di cimiteri raccoglieva quindi negli anni fino al 1921 la sacra testimonianza del sacrificio offerto dai soldati italiani durante gli anni di guerra.
LA SCELTA DELLE SALME
Per la designazione delle salme venne prescelta una Commissione costituita da un Generale, da un Colonnello, da un Tenente mutilato e da un Sergente decorati con la medaglia d’oro, da un Caporal Maggiore e da un soldato semplice decorati di medaglia d’argento, affinché tutto l’esercito nei suoi vari gradi e nelle sue qualifiche potesse risultare rappresentato.
La Commissione iniziò la sua opera muovendo dallo Stelvio e passando da cimitero a cimitero, alla ricerca degli undici soldati sconosciuti che potessero rappresentare tutti gli altri Caduti: doveva essere scelta una salma per ciascuna delle zone di Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, ed infine da Castagnevizza del Carso fino al mare, affinché fra le salme potessero avere rappresentanza ideale anche i Caduti dei reparti da sbarco della Marina.
Nei cimiteri militari le salme non identificate erano state raccolte in campi speciali, e ciascuna fossa era stata distinta con un numero: i foglietti contrassegnati con tali numeri venivano volta a volta mescolati in un bossolo d’artiglieria, ed un membro della Commissione estraeva un foglietto, il cui numero segnalava la tomba da scoprire. Se durante l’operazione di dissepoltura appariva uno qualunque elemento che anche indirettamente potesse portare all’identificazione anche parziale del caduto, le spoglie venivano nuovamente sotterrate. Nulla doveva fornire un elemento atto all’identificazione: soltanto gli esami della stoffa, i brandelli delle divise e degli indumenti, le stellette, le scarpe ed i chiodi di queste dovevano costituire elementi che servissero a contraddistinguere le salme di italiani da eventuali caduti nemici sepolti insieme.
La Commissione si portò infine nella zona del Carso e del fiume Timavo, ove l’ultima salma, quella di un soldato che presentava le gambe spezzate e il capo perforato da proiettili da fucile, costituiva l’estremo simbolo del martirio. Quest’ultima salma venne anch’essa rinchiusa in una cassa di legno identica alle altre dieci che rinserravano le spoglie già raccolte: ormai nessuno, con alcun mezzo, avrebbe più potuto distinguere un caduto dall’altro, ed essi sarebbero rimasti eguali e sconosciuti per l’eternità dinanzi agli uomini.
IL TRASPORTO DELLE UNDICI SALME
Gli autocarri militari trasportarono le salme provenendo dai diversi cimiteri, scendendo rispettivamente a Trento, a Schio, a Bassano e a Udine. Iniziarono così in quei giorni, senza che nulla fosse stato preordinato o organizzato, numerose manifestazioni di popolo che si misero in moto come un vero e proprio corso d’acqua: partirono dapprima come se fossero piccoli ruscelli nelle alte valli, per poi trasformarsi in torrenti ed infine in fiumi tempestosi.
Si arrivò infine all’ottobre 1921, a Udine, con gli affusti di cannone sui quali vennero trasportate le bare avvolte nel tricolore, seguite da alcune centinaia di madri e di vedove che facevano corteo recando presso le salme l’insopprimibile traccia del proprio lutto e del proprio amore. In quel giorno, ovunque le salme passassero, la commozione straripò fino a creare un unico sentimento in grado di connettere in un vincolo profondo la coscienza delle folle inginocchiate. Nel Veneto e nel Friuli, così duramente devastati durante la guerra, alla vista di tutte quelle madri vestite a lutto, il popolo si affollò a gettare petali di fiori.
A Udine le salme vennero poste nella chiesa che si eleva ancor oggi accanto al Castello: furono quindi coperte di bandiere e di fiori, circondate da una ringhiera costituita da vecchi moschetti raccolti nelle trincee, intervallati da lucenti bossoli di granate trasformati in portafiori. Come guardia d’onore si succedevano i fanti e le rappresentanze di tutti gli altri reparti combattenti, e passavano di mano in mano fogli di carta sui quali ogni persona poneva la firma, per lasciare solidale traccia di presenza; tale era la partecipazione che chi non sapeva firmare chiedeva spesso che fossero altri a firmare per sè, affinché il nome restasse comunque vergato sulla carta.
Ogni contesa politica e sociale pareva sfumare nell’aria, dissolvendosi nella commozione di tutti per far posto a un unico sentimento di commossa fratellanza che, al cospetto di quelle bare, accostava fra loro spontaneamente i superstiti che si riconoscevano tali forse per la prima volta, e specchiandosi in quella realtà misuravano la grandezza del loro privilegio di sopravvissuti.
DA GORIZIA AD AQUILEIA
Per accogliere le undici bare venne scelta, a Gorizia, la Chiesa di Sant’Ignazio, devastata dalle granate, ferita e mutilata, con la statua del santo decapitata al centro della facciata. Dinanzi alle bare, la popolazione sfilò senza soluzione di continuità per otto giorni e otto notti, durante cui le donne si davano il turno per recitare il rosario. Ben ventimila firme di goriziani vennero raccolte.
Il 26 ottobre. Il corteo si mosse dalla Chiesa di Sant’Ignazio, con tutta Gorizia alle spalle; mentre le salve di cannone tuonavano dal Castello, un cappellano militare benedisse le salme, che deposte su quattro autocarri vennero quindi avviate verso Aquileia. L’itinerario prescelto venne progettato in modo assai più lungo di quello più usuale e diretto, poiché moltissimi sindaci di paesi friulani avevano fatto pressioni affinché le salme potessero transitare e soffermarsi, almeno per un minuto, presso i loro borghi affinchè potessero ricevere il reverente saluto delle popolazioni. Le case venivano’ addobbate come per le solennità religiose, e dalle finestre pendevano coperte, tovaglie, scialli e grembiuli delle vecchie contadine che in quel modo, umile e antico come la loro povertà, volevano partecipare tangibilmente alla cerimonia.
In alcuni paesi la popolazione volle accompagnare gli autocarri seguendoli a piedi fino al paese successivo, quasi a consegnare materialmente le salme agli altri conterranei. Le madri, al passaggio, levavano alti sulle braccia i bambini affinché questi gettassero i fiori. La commozione si esprimeva in lunghi ed eloquenti silenzi: laddove per anni si erano uditi solo gli echi e i brontolii del cannone, adesso si guardava passare il Milite Ignoto, e si riusciva solo a piangere o cantare.
Mille voci di fanciulli delle scuole elementari accolsero ad Aquileia il corteo, intonando con fierezza la Canzone del Piave. Fra i ruderi romani, all’ombra dei cipressi che decoravano il cimitero che ancor oggi contorna la basilica, gli autocarri si fermarono e spensero i motori.
La prima bara venne tolta dall’autocarro, affidandola alle tremanti mani delle madri di caduti che la trasportarono verso il tempio, seguita dalle bare portate a spalla da combattenti e mutilati. L’interno del tempio era ardente di ceri, traboccante di fiori a ghirlanda inviati dalle città e dai paesi friulani. Ai lati dell’altare centrale e sulla gradinata che conduce all’altare erano stati eretti due catafalchi drappeggiati in viola e nero, su cui vennero disposte le undici bare, cinque sul primo e sei sul secondo: su ogni feretro, la bandiera tricolore e un elmetto cinto di alloro. Al centro, proprio dinanzi all’altare, se ne ergeva un terzo, sul quale sarebbe stata collocata la salma prescelta.
LA SCELTA DEL MILITE IGNOTO
All’altare pontificale, il vescovo di Trieste celebrò la Messa, mentre un’ondata di religiosità si diffuse nella basilica, accentuando sempre più la commozione che ebbe il proprio apice quando il vescovo scese fra le bare ed elevò l’aspersorio per benedirle.
Giunse infine l’ora della scelta.
Fra le tante madri che negli anni di guerra erano state segnate dal dolore per la perdita di un figlio, l’ultima decisione era caduta su Maria Bergamas, una popolana triestina che aveva perduto il figlio Antonio: irredento, questi aveva disertato dall’esercito austriaco e si era arruolato nelle file italiane cadendo poi in combattimento, senza che il suo corpo fosse più stato identificato.
Quattro medaglie d’oro (il Generale Paolini, il Colonnello Marinetti, l’ufficiale medico Paolucci e il Tenente Baruzzi) scortarono Maria Bergamas, che lasciava il suo posto tra le altre madri e ora si avvicinava tremante verso il centro della cappella. Avendo le undici bare tutte attorno, quasi incapace di reggere allo strazio e all’impegno, la donna piegò le ginocchia e si accasciò, chinando il capo e nascondendo il volto fra le mani. Tutti i presenti fissavano i suoi capelli bianchi, che risaltavano fra lo scuro delle bare, in un ineluttabile silenzio.
D’un tratto, Maria Bergamas sembrò trasalire, volgendo lo sguardo verso l’alto, quasi in attesa di un’ispirazione proveniente dal cielo. Quindi, sollevandosi lentamente e guardando le bare attorno a sè, si portò verso il lato destro e quindi procedette in avanti, quasi avesse deciso di voler dapprima passare dinanzi ad ognuna, per interrogarle in silenzio e salutare i figli contenuti al loro interno. Dopo essersi soffermata dinanzi alla prima, ed averla oltrepassata, improvvisamente ogni capacità e volontà di resistenza le venne meno: la donna cadde in ginocchio davanti alla seconda bara, ponendo la mano sul coperchio e deponendovi sopra un velo nero.
La scelta è fatta: questo sarà il Milite Ignoto.
Le altre madri e le vedove allora si avvicinarono a quella bara e a ogni altra, per baciarle e toccarle con le dita rese esangui: con profondo istinto femminile, esse volevano dividere fra tutti gli undici caduti lo stesso amore, affinché esso traboccasse in egual misura da tutte le bare e potesse simbolicamente raggiungere tutti i caduti d’Italia.
IL VIAGGIO DEL MILITE IGNOTO
La seconda bara a destra, quella prescelta da Maria Bergamas, venne sollevata da combattenti mutilati e trasportata sul catafalco centrale, quello destinato al Milite Ignoto. La salma del Milite Ignoto venne quindi rinchiusa in una seconda cassa di zinco, ed in una terza di quercia; sul coperchio vennero collocati una bandiera, un elmetto ed un fucile.
Il feretro venne quindi trasportato su un affusto di cannone verso un vagone ferroviario carico di fiori, che era giunto da Trieste e attendeva nei pressi della basilica; altri vagoni erano stati apprestati, poiché si sapeva che tutta Italia avrebbe recato fiori. Ormai il Milite Ignoto era pronto a muovere sulla via di Roma, mentre i suoi dieci compagni scendevano nella terra del cimitero di Aquileia, presso la statua del Cristo che distoglie una mano dalla croce per carezzare un soldato ferito.
Da Aquileia, la via per Roma passava da Udine a Treviso e a Venezia. Aeroplani dell’aviazione militare precorrevano in cielo l’arrivo del treno. Dovunque, ai passaggi a livello, alle stazioni e persino in aperta campagna gli italiani accorrevano a salutare e ad agitare i fazzoletti umidi per le lacrime. Fin dal primo giorno del viaggio trionfale fu evidente quanto l’evento colpisse l’immaginazione e il cuore degli italiani: il rispetto per la morte accettata per senso di dovere e per amor di patria superò gli orientamenti e le fazioni politiche.
La stampa di sinistra, che insisteva affinché gli iscritti ai partiti non prendessero parte alla manifestazione, venne ignorata e sconfessata. In tal senso, merita una menzione il manifesto che il sindaco Socialista di Pordenone, Guido Rosso, pubblicò: “Il Soldato Ignoto rappresenta un dovere vo luto od accettato, e adempiuto con perfetta coscienza di umiltà. Superiore ai partiti, alle fazioni e alle passioni per la propria virtù che lo sublima, deve da tutti, che nel sacrificio ravvisano una fonte dell’umano progresso, avere profonda reverenza e profondo ossequio. Inchiniamoci”.
Le stazioni, anche le più grandi, non riuscivano a contenere la gente accorsa, che si portava sui tetti dei vagoni, sui carri, sulle locomotive. A Treviso il treno dovette essere portato su un binario morto fuori della stazione affinché l’intera cittadinanza, là radunata, fosse in condizione di sfilare. Città e paesi arrestavano la vita di tutti i giorni, i negozi venivano chiusi, le case abbandonate. Il carro veniva toccato da uomini e donne che tendevano la mano a quel legno e a quel metallo, e a occhi chiusi mormoravano un nome, certamente il nome di qualcuno che da quella guerra che non era più ritornato. Gli otto soldati, rigidi in sentinella sul carro, alla vista di quelle scene silenziosamente piangevano.
Era già notte quando il treno giunse alla stazione di Venezia e si arrestò dinanzi a fasci di bandiere elevate sul binario. Dopo che la salma fu nuovamente benedetta dal Patriarca, venne dato accesso ai veneziani che da ore attendevano ammassati sui ponti e sulle imbarcazioni: per tutta la notte, la gente sfilò e si inginocchiò dinanzi al carro, e già questo si era mosso verso Bologna quando attraverso il canale degli Alberoni innumerevoli barche si portarono in mare aperto e sparsero fiori e corone sul mare affinché in questo rito fossero ricordati anche i marinai e gli aviatori che in mare si erano inabissati.
Il treno, guidato da ferrovieri tutti decorati al valor militare, raggiunse Mestre e Padova. Si inginocchiavano gli uomini e le donne, i militari e i civili, i sacerdoti e i laici, i nazionalisti e coloro che portavano all’occhiello il distintivo con la falce e il martello. Nelle campagne bolognesi, i contadini accorsero per tutto il giorno e soltanto sul far della notte il treno raggiunse la grande stazione ferroviaria di Bologna, trasformata in un unico tempio traboccante di fiori. I fiori avevano raggiunto ormai una tale quantità, che era stato necessario aggiungere un secondo treno.
A Casalecchio sul Reno il comitato delle onoranze era presieduto dal sindaco Sandro Vito, e la giunta comunale era stata portata al potere da voti comunisti; la circolare del partito che intimava il divieto di prendere parte alle onoranze giunse quando il sindaco si era già impegnato, e l’uomo non ebbe dubbi, inginocchiandosi al passaggio del treno.
A Firenze, per quattro ore, la popolazione con alla testa i generali Cadorna e Pecori Giraldi sfilò davanti al treno in sosta. Ad Arezzo, dove gli orfani di guerra furono i primi a deporre fiori sulla bara, il treno rimase per l’intera notte.
L’ARRIVO A ROMA
Il 1 novembre, sotto la pensilina della Stazione Termini a Roma, il Re d’Italia, affiancato dalla Regina Elena e dalla Regina Madre, da tutti i principi di casa Savoia e dalle più alte autorità dello Stato, attendeva l’arrivo del treno, in un silenzio che la stazione non ha mai più conosciuto.
Il Milite Ignoto venne calato dal carro funebre e collocato su una barella. Dodici decorati di medaglia d’oro trasportarono la salma all’esterno della stazione, deponendola su un affusto di cannone. Il tragitto fino all’adiacente Basilica di Santa Maria degli Angeli fu breve, con la gente ad accalcarsi per le strade, dalle finestre e sui tetti.
La salma venne collocata all’interno del tempio, sulla cui facciata si poteva leggere la seguente iscrizione: “Ignoto il nome – folgora il suo spirito – dovunque è l’Italia – con voce di pianto e di orgoglio – dicono innumeri madri – è mio figlio”.
La folla romana affluì per giorni a Santa Maria degli Angeli. Presso l’Altare della Patria vennero deposte oltre millecinquecento corone giunte da tutte le città d’Italia.
Infine, giunse il 4 novembre: al Vittoriano, sotto la statua della dea Roma, venne aperto il loculo che attendeva il Milite. Dai calcoli documentali, più di trecentomila persone accorsero quel giorno da ogni parte d’Italia, ed almeno un altro milione si ammassò disordinatamente nelle strade di Roma. Il corteo avanzò lungo Via Nazionale: vi erano rappresentati i soldati di tutte le armi e di tutti i servizi dell’esercito.
Dinanzi al grandioso monumento in Piazza Venezia, carabinieri, fanti e marinai erano schierati a quadrato, mentre 335 bandiere dei reggimenti attendevano il Soldato.
Si attesero le 10.00 precise, e quando le campane di Roma iniziarono a suonare all’unisono, la salma del Milite Ignoto ascese i gradini. Ad accompagnarla, tuonarono i rombi dei cannoni da Monte Mario e dal Gianicolo. La salma giunse dinanzi al loculo spalancato. Il Re baciò la medaglia d’oro, che venne fissata sul feretro con un martello d’oro: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e. cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria!”.
Dopo queste parole, un soldato semplice pose sulla bara l’elmetto del fante. I militari presenti ed i rappresentanti delle nazioni straniere erano sull’attenti, mentre tutto il popolo era in ginocchio. Il Milite ignoto era ormai finalmente sul suo altare, accompagnato, nel buio del suo sepolcro, da centinaia di migliaia di altre anime invisibili.
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Complimenti Vincenzo