Edward Burne Jones a Roma

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EDWARD BURNE-JONES A ROMA

“Una sola cosa mi rattrista, un grande senso di solitudine, come se nessun altro artista volesse quello che voglio io, come ve io avessi torto. I miei dèi non sono i loro, ben presto sarò insabbiato e guardato con l’indifferenza con cui si guarda l’indicazione di una strada che nessuno mai più percorrerà”.

Così scriveva, con un pizzico di malinconia, Edward Burne-Jones al professore di Harvard Charles Eliot Norton, esprimendo senza reticenze il suo opprimente senso di isolamento. Ciò che colpisce è la data della lettera: non fu scritta verso il 1850, quando Burne-Jones era un giovane seguace dei Preraffaelliti, ma nell’agosto del 1859, proprio nel momento in cui il pittore aveva ormai raggiunto una grande notorietà internazionale.

In uno schizzo di ritratto dipinto quando Burne-Jones era sulla trentina, il pittore francese Alphonse Legros colse perfettamente questo senso di rinuncia: lo sguardo di Burne-Jones era indiretto e sfuggente, si perdeva lontano senza orientarsi di fronte all’osservatore, quasi esitasse ad affrontare il mondo esterno. Esaminandolo, si nota il volto di un uomo che sembra aver paura di affacciarsi all’esterno e di toccare un mondo ormai non più del tutto reale per il suo spirito.

Burne-Jones fu un uomo legato ai propri ideali. Anche in età ormai matura, egli ostinatamente seguì la sua inclinazione a divenire un superstite dei giorni intensi e impetuosi del Movimento di Oxford e della lunga e soddisfacente carriera nella Morris & Company, di cui fu membro fondatore e disegnatore. Tutti i suoi più cari amici di quegli anni (Morris, Ruskin, Rossetti) avrebbero prima o poi abbandonato l’ideale preraffaellita di dedizione totale all’arte, ma non così Burne-Jones, per cui l’arte rimase il significato assoluto di tutta la vita, e che pertanto si sarebbe trovato sempre più isolato, riluttante ad accettare ogni mutamento artistico, politico o sociale.

SAN PAOLO DENTRO LE MURA

La sua posizione può essere perfettamente esemplificata nel grande progetto che iniziò nel 1881, ossia il maestoso ciclo di mosaici per la Chiesa di San Paolo Dentro le Mura, a Roma. Fu di gran lunga il suo progetto decorativo più esteso ed ambizioso, che lo occupò a fasi alterne per diciassette anni, fino alla morte avvenuta nel 1898.

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Burne-Jones visse abbastanza per vedere, anche se solo in fotografia, tre dei suoi disegni realizzati in mosaico: egli disegnò infatti i cartoni a Londra, li spedì a Venezia per la realizzazione in mosaico sotto la guida del suo assistente Thomas Rooke, ma non si spinse mai a Roma per vederli installati. Attraverso i suoi mosaici, Burne-Jones si isolò dal mondo moderno, mettendoli insieme con una forza che nasceva dalle passioni e le ossessioni di tutta una vita, immergendosi nel suo mondo sognante come è possibile fare ancor oggi varcando il portone della chiesa.

Varcando la soglia dell’edificio posto lungo Via Nazionale, in un quartiere quasi completamente riprogettato alla fine del XIX secolo, ci si trova all’interno di una costruzione di stile romanico progettata dall’architetto inglese George Street tra il 1872 e il 1876, vagamente ispirata alla chiesa di San Zeno a Verona. Street fu invitato a progettare la chiesa in seguito a una serie di eventi politici di grande rilievo: la Breccia di Porta Pia del 1870, infatti, sottoponendo Roma al governo italiano, consentiva che per la prima volta nella storia della città una chiesa protestante potesse essere eretta dentro le mura.

Ogni spazio, ogni superficie in San Paolo brulica di un fitto ornamento: dalle ricche mattonelle alle inferriate disegnate dallo stesso Street stesso, dal limpido soffitto azzurro chiazzato di stelle dorate alle vetrate colorate di Clayton e Bell. Quello che però colpisce maggiormente lo spettatore sono le gigantesche figure a mosaico, che compaiono man mano che si procede lungo la navata, fino a raggoingere il presbiterio e l’abside, dove troneggia Cristo benedicente, avvolto in uno squarcio luminoso di angeli di ogni forma e grandezza. Sono creature angeliche di molteplici sembianze, angeli in toga e con l’armatura, angeli che maneggiano un’arpa o che impugnano un giavellotto, angeli con coppe d’oro e bianchi gigli che invitano ad avvicinarsi al trono divino.

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I MOSAICI DI BURNE-JONES

Se i mosaici dell’abside emanano un contagioso splendore, quelli sotto le arcate sono più austeri.

Sulla prima arcata è raffigurata l’Annunciazione, con due figure rigide in un paesaggio desolato. A destra la Vergine in piedi, serena e piena di dignità, con le mani giunte in preghiera e il viso appena girato verso l’arcangelo Gabriele. Quest’ultimo si libra, in un’aureola di immense ali purpuree, in una visione quasi evanescente. Sembrano due figure statiche, incapaci di movimento, due personificazioni della volontà divina, ma in realtà Burne-Jones non segue modelli bizantini: l’arcangelo e la Vergine non sono simboli ieratici e monodimensionali, stagliati su un fondo d’oro, perché entrambe le figure proiettano l’ombra e sono collocate in un paesaggio che si stende in piena prospettiva.

Completamente nascosta dall’Annunciazione la seconda arcata, l’Albero della Vita. Finché non si è proprio sotto non si può vedere Cristo, con le braccia aperte in segno di perdono verso Adamo ed Eva, quasi incollato allo sfondo di un grande albero in fiore.

Finalmente, raggiunto l’abside, si ammira il Redentore seduto su un trono tutto fatto di incorporei cherubini e serafini; Sopra, danzanti su minuscole nubi, piccoli angeli musicanti formano un coro celeste. Ai piedi di Cristo si materializza un arcobaleno sulle acque che sgorgano dalla base del trono, mentre dietro si levano le auree mura della città celeste, la Nuova Gerusalemme. Ogni cancello della città è presidiato dagli angeli citati nel Libro della Rivelazione: Michele, Gabriele, Samuele e Zofiele. Uno spazio vuoto indica il posto di Lucifero: Burne-Jones in origine disegnò un grande mosaico perpendicolare per il muro d’ingresso, che mostrava la Caduta degli Angeli Ribelli, ma il progetto non fu mai realizzato. Se lo fosse stato, l’esperienza spaziale sarebbe stata completa, perché il visitatore, trovandosi nell’abside, si sarebbe potuto voltare per scoprire l’assente Lucifero precipitare dal cielo in una cascata di stelle proprio in fondo alla chiesa.

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Il mosaico sotto la volta è ancor più impressionante: esso, sebbene venne eseguito dopo la morte di Burne-Jones, resta fedele ai suoi disegni. Esso è divenuto assai celebre poiché, pur mostrando formalmente il concilio dei santi in paradiso, inserisce fra dottori della Chiesa, vergini, santi ed eremiti anche un certo numero di personaggi più o meno celebri: da un paio di celebrità locali, come il costruttore della chiesa, il reverendo Robert J. Nevin, o il suo vescovo Alonzo Potter, a volti ben più riconoscibili come quelli di Abramo Lincoln, di Giuseppe Garibaldi e del presidente Ulysses Grant. In aggiunta ad essi, si notano anche i volti di senatori e finanziatori, che non fanno che unirsi idealmente ai loro predecessori presenti negli affreschi rinascimentali, predecessori che ora si ricordano non per la loro vita esemplare, ma per il loro mecenatismo.

Osservando minuziosamente la decorazione, è possibile rinvenire anche il volto gentile e barbuto dello stesso Burne-Jones e, fra le vergini, quelli delle sue due donne più importanti, la moglie Georgiana e la figlia Margaret.

L’INDOLE DI BURNE-JONES

Sarebbe comunque un grave errore di valutazione liquidare questi mosaici come una sorta di Mount Rushmore romano solo per la presenza di questi ritratti. In realtà essi rappresentano un’alternativa estremamente seria e meditata a complesse tendenze artistiche e sociali che caratterizzarono l’ultimo ventennio dell’Ottocento.

Per spiegarne le ragioni, dobbiamo ancora una volta partire dalla personalità di Burne-Jones. “La cosa che rivestiva per lui il massimo interesse” scriveva la moglie a proposito della giovinezza del pittore, “era la religione in relazione alla storia della chiesa cristiana e alla sua posizione attuale nel mondo moderno”. Non bisogna in tal senso dimenticare che le origini della Morris & Co. si fondavano nel sogno di Burne-Jones di “una piccola confraternita di sacerdoti e laici nel cuore di Londra”: anche se quella confraternita non si realizzò, la ditta si specializzò in decorazioni ecclesiastiche, dai vetri colorati alle tovaglie da altare.

“In un’epoca di sofà e di cuscini, preferisco scommettere tutto sull’aldilà”. Ecco cosa era solito ripetere, utilizzando probabilmente le parole di un visionario. Basti, in tal senso, ripensare ad un’altra sua celebre affermazione dei tempi in cui si trovava ancora a Oxford: “La vita e la realtà, le conosceremo mai come sono veramente? La loro oscura sapienza giace, infinitamente lontana da noi, ai piedi di Dio; ma qualcosa è ancora possibile, sia attraverso il simbolo che sia attraverso l’oscurità della similitudine, qualcosa che ci consenta di discernere il sogno dentro il sogno, e di scegliere il vero”.

Burne-Jones fu certamente un mirabile artista, ma dentro di lui sgomitava lo spirito del sacerdote, o ancor meglio del mistico. Molti ne furono colpiti: un avvocato di Bruxelles abbracciò la vita religiosa dopo aver visto le opere di Burne-Jones, ed anche il pittore francese si convertì improvvisamente. Tale secondo caso destò un certo scalpore, considerato che (come scrisse lo stesso Burne-Jones in una sua missiva) “viveva da tipico pittore romantico, dipingeva donne sull’amaca, che mostravano le gambe e che fumavano, con pose o atteggiamenti certo non edificanti. Poi, un giorno, proprio dopo una mia mostra alla Grosvenor Gallery, mi chiamò e mi disse che non avrebbe più dipinto come prima. Non ne seppi più nulla per dodici anni, finché mi dissero che si era convertito”.

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LA VISIONE MISTICA DI BURNE-JONES

Queste parole mostrano con chiarezza l’atteggiamento di Burne-Jones verso i pittori francesi: li disprezzava, in particolare l’Impressionismo, che liquidò definendolo nient’altro che “paesaggi e puttane”. Di Degas, Manet, Toulouse-Lautrec, Monet e Renoir affermò che non aveva “mai visto un gruppo di persone così prive di idee, e così accanitamente dedite a fare della pittura una gran stupidaggine”. Anche la pittura inglese fu da lui liquidata come “priva di intelligenza, stupida, nient’altro che ritratti e paesaggi”.

I suoi quadri, invece erano “ben diversi dai paesaggi. Io non voglio copiare oggetti, io voglio comunicare qualcosa alla gente”. Alla luce di queste dichiarazioni e di questo fieramente proclamato disprezzo per il genere paesaggistico, è curioso notare come Burne-Jones abbia continuamente adoperato anche il paesaggio per veicolare i suoi messaggi, quasi volesse dimostrare le potenzialità ci un genere che, nelle sue mani sapienti, avrebbe potuto mostrare tutto il proprio spessore.  

Per superare le ardue difficoltà, Burne-Jones si rivolse agli scritti dei mistici cristiani, specialmente di San Bernardo, in cui trovava la natura usata come metafora dell’amore redentore di Cristo. Ed ecco che, nell’esaminare i mosaici all’interno di San Paolo Dentro le Mura, è importante ripercorrere il cammino verso la navata basandoci sulle fonti scritte a cui attinse lo stesso Burne-Jones.

Il tema del ciclo è la redenzione dell’uomo.

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L’Annunciazione è ambientata nel deserto, simbolo del mondo prima dell’incarnazione, un mondo privo di vita se si eccettuano due prefigurazioni simboliche di Cristo stesso: il pellicano che nutre il suo piccolo e l’esile fiotto d’acqua che sgorga dalla roccia nel deserto. Il vuoto desolato in cui Maria e l’arcangelo si incontrano è ciò che l’artista vuole mettere in evidenza: se ci si pensa, nella pittura occidentale non esistono Annunciazioni ambientate nel deserto.

In questo senso, però, viene fuori il misticismo di Burne-Jones: la storia dell’Annunciazione non è infatti narrata solo dal Nuovo Testamento e dai Vangeli Apocrifi, ma anche dal Corano, e Burne-Jones fu assai affascinato dalla religione e dalla poesia dell’Islam. Il Corano dice che Maria “si allontanò dalla sua famiglia diretta verso una località a oriente, e noi mandammo a Lei il nostro spirito che le apparve in sembianza perfettamente umana”.

Ricordando che ogni mosaico è tematicamente legato al successivo, un ultimo dettaglio dell’Annunciazione fa da ponte tra questa scena e la successiva rappresentazione dell’Albero della Vita: l’intera scena è illuminata dal rosso splendore del sole nascente. È l’alba, il momento della rinascita e del rinnovamento: come l’Annunciazione rappresenta la promessa di salvezza, l’Albero della Vita rappresenta il simbolo della promessa esaudita.

Nell’Albero della Vita è ormai pieno giorno: il cielo è tinto di un limpido azzurro, il sole è sorto e Cristo è giunto. Ancora una volta il paesaggio è veicolo del messaggio: tra le pietre e la ghiaia ora spunta una chiazza d’erba, che occupa lo spazio centrale. Burne-Jones ha collocato l’Albero della Vita nel centro esatto dell’arcata, proprio nello spazio lasciato così abbondantemente vuoto tra l’arcangelo Gabriele e la Vergine nella prima arcata. L’Annunciazione dell’angelo si è avverata, il deserto si è fatto verde.

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In uno degli schizzi per l‘Albero della Vita, contenuto in un album conservato al British Museum, l’artista trascrisse frasi tratte dagli scritti mistici di San Bernardo. Quest’ultimo, commentando il Libro di Isaia, utilizzò metafore paesaggistiche per spiegare il mistero dell’incarnazione: “affinché Cristo potesse meglio fruttificare, fu piantato nella terra, cioè concepito nella Vergine Maria, divenendo ciò che non era, e pure restando ciò che era”.

L’incarnazione e la crocifissione, nella visione cristiana, erano necessarie per redimere il peccato di Adamo ed Eva, quando mangiarono il frutto dell’albero della conoscenza nell’Eden. Nell’Albero della Vita, la figura di Cristo benedice Adamo ed Eva, e mentre le sue mani sono tese in benedizione la sua posizione è quella della Croce. Dietro Adamo si vede del grano, per significare che egli deve lavorare, e dietro la donna il giglio bianco, che significa l’annunciazione e la promessa.

Il mosaico dell’abside, ovviamente, rappresenta la visione di Giovanni della Nuova Gerusalemme, dal Libro della Rivelazione, del quale bisognerebbe citare almeno un passaggio: “Di colpo io fui nello spirito ed ecco un trono si ergeva nel cielo, con uno seduto sul trono, e colui che sedeva appariva come diaspro e cornalina, e il trono era sovrastato da un arcobaleno”.

Il mosaico absidale costituisce l’apice tematico delle immagini esplorate nell’Annunciazione e nell’Albero della Vita. I dottori della Chiesa si ergono su un campo di erba verde punteggiata di fiori, mentre dal fondo deserto, a cavallo e a piedi, tendendo le braccia in segno di supplica, avanzano i santi per accedere al verde paradiso, completando il ciclo iniziato con le parole dell’arcangelo a Maria.

Il rifarsi di Burne-Jones agli scrittori medievali, e di conseguenza il suo uso puramente strumentale del mosaico, implicò un allontanamento dal mondo moderno. Fu un atteggiamento profondo e radicato, visceralmente connaturato al suo carattere e non dovuto alle esigenze contingenti della commissione. Così Burne-Jones, al pari dei suoi predecessori medievali, ricorse alla natura e scelse i simboli per il valore delle verità spirituali in essi celate, e in questo suo atteggiamento verso il mondo esterno egli è profondamente isolato dai suoi contemporanei.

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