Apollo Sosiano a Centrale Montemartini

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APOLLO SOSIANO A CENTRALE MONTEMARTINI

Quando lo studioso francese Jean Gagè, nel 1955, fece uscire il suo saggio Apollon Romain, dedicato al culto di Apollo nel mondo romano, venne inserito nel testo un breve paragrafo dedicato al tempio costruito in memoria del dio greco da Gaio Sosio, seguace di Marco Antonio, governatore della Siria e della Cilicia nel 37 a.C. e successivamente console nel 32 a.C.

Oggi, una piccola ma assai significativa parte della decorazione di quel tempio si trova oggi presso lo splendido museo installato all’interno della Centrale Montemartini. La ricerca dei frammenti superstiti, condotta con metodo rigoroso e dedizione appassionata dal giovane direttore dei Musei Capitolini Eugenio La Rocca, durò circa sette anni: da secoli quei marmi mutili si trovavano immersi nel terriccio che colmava la cavea del Teatro di Marcello, e solo in seguito ai lavori di isolamento della zona compiuti in epoca fascista molti dei frammenti giacquero sparpagliati fra musei minori e depositi romani.

Eugenio La Rocca, nel selezionare il materiale, decise di assegnare ai mirabili frammenti una datazione risalente alla seconda metà del V secolo a.C., gli anni stessi in cui Fidia scolpiva le metope del Partenone e si verificava il passaggio dallo stile severo a quello classico. Lo stesso Direttore individuò la loro provenienza più probabile in un tempio nella città di Eretria, nell’Eubea: la città, alleata di Atene, nel 499 aveva mandato cinque sue navi di rinforzo alla flotta ateniese, che si era mossa in aiuto delle colonie joniche contro i Persiani. Scesi a terra, i combattenti delle due città, dopo una marcia epica, avevano raggiunto Sardi e dato alle fiamme il Tempio di Artemide, patrona delle Amazzoni. In tal senso, è ancor oggi ritenuto abbastanza plausibile che ad Eretria fosse celebrata nel marmo la vittoria dell’eroe ateniese Teseo sull’esercito invasore delle Amazzoni, idealmente assimilato a quello dei Persiani.

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Fu lo stesso Eugenio La Rocca a delineare le misure del frontone del tempio stesso, che sovrastava sei colonne: si trattava di una struttura di 29 metri di altezza, 21 di larghezza, 37 di altezza. La decorazione frontonale venne trasportata a Roma certamente per ordine di Augusto, probabilmente non per un atto di pirateria ai danni della sventurata città greca ormai distrutta, ma piuttosto come segno di pietas, poiché si trattava di immagini sacre cadute da un tempio abbattuto che, come tali, andavano trattate con devozione (tanto più perché potevano servire all’accorta propaganda del Princeps).

A Roma, il gruppo marmoreo si trovò probabilmente in una dimensione diversa, all’interno di un vertice triangolare molto più alto e più ripido; ciò nonostante, sebbene le statue dovessero risultare scarsamente visibili, se non dall’alto del Teatro di Marcello, il restauro del naso e del labbro superiore di Teseo fu accuratamente eseguito dai restauratori romani, certamente avvezzi a riparare opere che i collezionisti acquistavano in Grecia.

GAIO SOSIO

Apollo, il nume al quale era dedicato il santuario, si trovava all’interno: Sosio, che aveva profuso nella costruzione il bottino conquistato nella sua campagna militare vinta contro i Giudei (tale indicazione si legge ancor oggi nei Musei Capitolini, all’interno della Sala dei Fasti Consolari e Trionfali), aveva portato via dalla Siria, dov’era stato proconsole, un’immagine in legno di cedro dello stesso Apollo e l’aveva collocata all’interno.

Gaio Sosio era un generale di Marco Antonio, che aveva il fondamentale compito di dare lustro al proprio comandante ormai quasi permanentemente assente, essendo egli ormai stabilitosi quasi definitivamente in Egitto in virtù del legame con Cleopatra. Apollo, inoltre, doveva essere decisamente connesso alla devozione di Gaio Sosio: le monete da lui coniate in quegli anni recano simboli apollinei, primo fra tutti la testa incoronata d’alloro del dio.

Durante la battaglia navale di Azio, Gaio Sosio comandò con discreta perizia l’ala sinistra della flotta di Marco Antonio. A dispetto della sconfitta, Gaio Sosio venne perdonato da Augusto, rivestendo la carica di decemviro sacris faciundis, vale a dire incaricato di consultare e interpretare i Libri Sibillini: Augusto, che ormai poteva permettersi di essere clemente con i suoi rivali più utili, gli riconobbe la capacità di “avere buoni rapporti con Apollo”, anche grazie alla sua conoscenza dell’arte della divinazione.

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Augusto, d’altronde, considerava egli stesso Apollo come il proprio dio patrono e protettore. Non volle che il culto restasse confinato presso il Circo Flaminio, in cui si trovavano i resti dell’antico tempio dedicato dal console Cneo Iulio ad Apollo Medico nel 431 a.C. in occasione di una pestilenza, e che venne poi pesantemente restaurato da Gaio Sosio. Augusto decise di costruirne uno nuovo nel cuore sacro di Roma, sul colle Palatino, vicino alla propria domus: presentandosi come novello Romolo, secondo fondatore di Roma, Ottaviano Augusto volle alloggiare non lontano dalle vestigia delle cosiddette Capanne Romulee, depositando nel nuovo tempio i testi degli Oracoli Sibillini, severamente selezionati affinché sparisse da essi qualsiasi voce disfattista sul futuro di Roma.

I FRAMMENTI DEL TEMPIO

Se si osservano i frammenti marmorei sapientemente ricostruiti presso la Centrale Montemartini, si nota come la guerra riprenda vita sotto gli stupefatti occhi del visitatore.

Si intravede Eracle, pronto a combattere contro la regina delle Amazzoni, Ippolita, alla quale vuol togliere la cintura d’oro donatale dal padre Ares come segno del suo potere regale; Eracle, ovviamente, in quanto grande eroe e predestinato al trionfo, vi riuscì andando così a soddisfare la propria nona fatica. Nike, ossia la Vittoria Alata, mirabilmente sollevata sugli altri protagonisti, non incorona però Eracle, ma il giovinetto ateniese Teseo, che l’ha accompagnato nella spedizione. Come premio per il suo valore, Teseo riceverà in premio (o forse rapirà) la giovinetta Antiope, sorella di Ippolita. Quest’ultima, per recuperare la sorella e la cintura, muove dalla Scizia all’Attica, assediandone per quattro mesi l’Acropoli. Teseo, che ha ereditato il trono dal padre Egeo e ha riunito in una sola comunità i villaggi dell’Attica, la respinge e libera la città dal pericolo di cadere sotto il dominio di una donna.

Si tratta di un dettaglio che non deve essere etichettato come “maschilista”: Ottaviano Augusto, infatti, con la vittoria di Azio, affermò di aver salvato Roma dalla perversa regina egiziana Cleopatra, colpevole a suo dire di voler sostituire i severi costumi repubblicani di Roma con il lusso sfrenato della sua corte, piena di schiavi e di eunuchi.

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ERACLE E TESEO

Il soggetto del frontone e la disposizione delle figure sono stati ricostruiti in base a raffronti con numerosi esempli di Amazzonomachie esistenti nella scultura e nella ceramica. Si trattava di un tema comunicativo assai suggestivo e particolarmente autorevole a livello politico: siamo in un momento storico in cui religione e politica si fondevano, in cui città e capipopolo si appropriavano ciascuno di un dio il quale si batteva in concorrenza con un altro dio.

In questo caso, il tema del giovane eroe ateniese che respinge l’invasione di nemici provenienti dall’Asia racchiudeva un’allusione molto chiara nei decenni successivi alle guerre persiane. Era il momento più fulgido della storia greca, l’acme della gloria ateniese: la città egemone doveva quindi fornire ai cittadini una propria identità etnica nella quale riconoscersi, tracciando un’immagine dai connotati inconfondibili. Eracle apparteneva a tutti gli effetti al Peloponneso, ed era pertanto necessario contrapporgli un eroe attico, al quale attribuire una serie di imprese memorabili, di azioni benefiche quanto quelle del dio che con le sue fatiche aveva liberato l’umanità da mostri malefici: chi più adatto di Teseo, il giovane eroe penetrato nel labirinto, per salvare i suoi quattordici compatrioti (sette ragazzi e sette fanciulle) condannati a essere dati in pasto al Minotauro?

Il nome di Teseo venne quindi associato a numerose altre imprese leggendarie, il cui culmine fu ovviamente la Saga degli Argonauti: la cattura di un toro infuriato, l’uccisione di un leone (così come Eracle), l’assassinio di Scirone e di Procuste, fino alla discesa negli inferi per liberare Persefone ed all’arguzia nello sventare il disegno di Medea che voleva propinargli un veleno. In tal senso, Teseo rappresenta simbolicamente l’adolescente che, superate le sue prime prove di vita, raggiunge la maturità.

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Nell’episodio delle Amazzoni, Teseo incarna perfettamente il guerriero ateniese, in grado di sconfiggere forze barbariche non scevre di una componente mostruosa (le Amazzoni sono donne in armi, aliene dalla maternità e dalla tessitura) e di riportare l’ordine, la compostezza e la norma civile, tutti requisiti minacciati dall’irrompere di creature indomite come giumente selvatiche.

Teseo divenne un vero e proprio archetipo: tutto doveva servire a glorificare Atene e fornire ai contemporanei e ai posteri un’immagine idealizzata di essa. Fu allora che Achille diventò il campione della grecità contro la barbarie asiatica e nel cuore della città furono collocate dieci statue di bronzo che rappresentavano i più famosi combattenti Achei, dettaglio particolarmente rilevante se si pensa che alcuni studiosi pensano che fra essi ci fossero anche i celebri Bronzi di Riace.

Teseo fu quindi “costruito” in quel periodo, sul modello di Eracle: appare sempre affiancato da Atena, la dea figlia di Zeus e di Metis (l’Astuzia), che simboleggia l’intelligenza, la ragione e la limpida coscienza morale. Le guerre contro i barbari, in tal senso, non venivano viste solo come vicende militari o conflitti etnici, ma anche come vere e proprie lotte della ragione contro l’irrazionalità, della civilizzazione contro l’indole selvaggia, come quella di una tribù di sole donne ferocissime, capaci di uccidere i loro figli maschi e di mutilarsi del seno sinistro per poter tirar d’arco senza impaccio.

LA SCELTA DI AUGUSTO

Secondo l’interpretazione data dalla maggior parte degli studiosi circa le motivazioni che indussero Augusto a trasportare il frontone dalla Grecia a Roma, non si trattò affatto dell’acquisto di un’opera d’arte, ma di una sottrazione dettata da motivi ideologici.

Il tempio venne riedificato da Gaio Sosio dopo la riconciliazione tra lui e Augusto, come atto di riparazione e pentimento verso il vincitore. Non furono tutte rose e fiori, all’inizio: di fronte ad un Ottaviano ancora un po’ insicuro, il console Sosio nel 32 a.C. lo attaccò apertamente, tanto che per alcuni mesi Ottaviano si vede vedere per Roma solo contornato da uomini armati. Poi, però, la propaganda di Ottaviano riuscì a prevalere, mettendo Antonio in una luce talmente cattiva che anche Sosio, benché console, fuggì da Roma e riparò in Egitto, portandosi dietro circa trecento senatori.

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Ottaviano pretese questo tempio, che si aggiungesse a quello eretto sul Palatino ed anche a quello eretto, in fretta e furia, sulla baia di Azio, in cima al colle dove aveva piantato le tende prima della decisiva battaglia navale. Era facile identificare Ottaviano in Teseo e Cleopatra in Ippolita: la vittoria venne presentata come il trionfo dello spirito occidentale, democratico, repubblicano ed austero, contro il culto della personalità e l’asservimento a un despota divinizzato, tipici dei governi asiatici.

Manca però l’immagine di Marco Antonio sconfitto, mentre le fonti raccontano di come, nel corteo che salì al Campidoglio durante il trionfo, ci fosse una statua della regina Cleopatra, a grandezza naturale, con in mano l’aspide fatale. In che modo è possibile giustificare l’assenza della memoria di Marco Antonio? Forse si cercò di far dimenticare che il nuovo Teseo non aveva affrontato e sconfitto soltanto i barbari, ma anche i concittadini: una memoria che Ottaviano voleva alleggerire, proprio lui che andò a costruire il suo palazzo nei pressi delle Capanne di Romolo, colui che per primo aveva sparso sul suolo di Roma il sangue del fratello.

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