IL MITRAISMO NELLA ROMA ANTICA
Fin dal III secolo d.C., nel quadro della accesa polemica che gli apologisti cristiani conducevano contro il paganesimo nelle sue differenti espressioni di religione ufficiale ed esoterica, il culto mitriaco, in forza proprio della sua natura misterica, divenne facile bersaglio dei loro attacchi, miranti a svilirne il contenuto religioso, a banalizzarne la vicenda cultuale e a metterne a fuoco le presunte contraddizioni.
In particolare, con notevole costanza, veniva ribadita la natura peculiare al mitraismo quale “religione di cripta”. Tertulliano, celebre scrittore romano e teologo cristiano, definì più volte i luoghi del culto mitraico come “Castra tenebrarum” (accampamenti delle tenebre), contrapponendoli in tal modo ai “Castra lucis” dei cristiani. In effetti i mitrei tendevano ad essere impiantati in ambienti scavati nel tufo, utilizzando cavità rocciose naturali o installandosi in preesistenti costruzioni interrate, come cisterne e criptoportici.
La scelta di questi luoghi di culto immersi nelle tenebre veniva denunciata da parte dei cristiani come contraddittoria con la natura essenzialmente solare del dio venerato in queste cavità. Dal canto loro, ai pagani non sfuggiva la duplice caratterizzazione, solare e tenebrosa, di queste sedi, considerato che il mitreo urbano di San Silvestro in Capite venne definito, nel medesimo testo (ossia il Corpus Inscriptionum Latinarum) sia come tempio di Febo che come cavità tenebrosa. Ancora agli inizi del V secolo d.C., molti autori (fra cui Paolino di Nola) si domandavano come osassero invocare con il nome di Sole quel dio che veniva celato nelle tenebre delle cavità sotterranee.
MITRAISMO E CRISTIANESIMO
La stessa origine persiana del culto, agli occhi dei cristiani, non deponeva a suo favore: si dichiarava infatti che fosse indegno della tradizione romana “assoggettarsi ai miti ed alle leggi del Persiani”. In aggiunta a ciò, in una vera e propria propaganda politico/religiosa, si cercava di sminuire la statura divina di Mitra, arrivando persino a paragonarlo a Caco, il figlio di Vulcano che aveva cercato di sottrarre a Ercole la sua mandria: anche Mitra, quindi, nell’atto di trasportare il toro nella grotta per effettuare il sacrificio dello stesso, venne definito da Commodiano come “ladro di bestiame”.
Quello che, ovviamente, maggiormente indispettiva i Cristiani erano le analogie individuate fra il rituale mitraico e la liturgia cristiana: tacciate spesso come blasfeme imitazioni, tali coincidenze vennero persino imputate, dal già citato Tertulliano, al cosiddetto “ingenia diaboli”, ossia l’intervento ingannatore di spiriti maligni: questi ultimi avrebbero infatti tentato di plagiare i riti cristiani nel tentativo di effettuare una vera e propria contraffazione della verità. In quello che era un vero e proprio elenco cerimoniale, Tertulliano scriveva: “anche il diavolo battezza quelli che credono in lui, promettendo che questo lavacro espierà i loro errori. E, se mi ricordo ancora di Mithra, questi segna in fronte i suoi soldati, celebra l’offerta del pane e presenta persino un’immagine ingannatrice della resurrezione”.
L’offensiva cristiana non si limitò però ad una semplice, per quanto accanita, polemica verbale.
Nel 377 d.C. il prefetto di Roma Gracco procedette, con fanatico accanimento, alla distruzione di un mitreo, ordinando che ne fosse fatto a pezzi anche l’arredo statuario. Nel rammentare il fatto, Girolamo nelle sue Epistulae si soffermò anche sulla scala di iniziazione mitriaca, procedente dal grado di Corax (Corvo) attraverso quelli di Nymphus (Ninfo), Miles (Soldato), Leo (Leone), Perses (Persiano), Heliodromus (Heliodromo), fino alla somma dignità di Pater. Si tratta ancor oggi di un brano di assoluta rilevanza, poiché esso consente di restituire l’esistenza di una sorta rituale di iniziazione, forse tramandato per via orale, di cui comunque nulla di equivalente a un “testo sacro” si è conservato.
Tale tipo di organizzazione fondata sull’avanzamento per gradi iniziatici poteva estendersi esclusivamente a una ristretta cerchia di fedeli, il cui reclutamento era per di più interdetto alle donne. L’affiliazione per via iniziatica serviva a mediare l’esperienza religiosa del fedele, il cui rapporto con la divinità doveva presentarsi come estremamente selettivo: “Nessuno può essere iniziato senza aver prima dimostrato, attraverso una serie di prove, che egli è santo e insensibile alle prove stesse”.
IL MITRAISMO FRA SENATORI E IMPERATORI
Tra gli esponenti della nobiltà senatoria adepti del culto mitriaco alla fine del IV secolo d.C., che solitamente ricoprivano il ruolo di Patres, sono tra l’altro presenti personaggi che al contempo ricoprirono le più alte cariche religiose ufficiali, quali adepti della Magna Mater o sacerdoti di Iside.
Per quanto riguarda invece gli imperatori romani, non avendo ricevuto il crisma dell’ufficialità, l’iniziazione ai misteri mitriaci non oltrepassò la portata di un avvenimento episodico, registrabile unicamente a livello personale. A parte il caso dell’Imperatore Giuliano, l’unica notizia tramandata dalle fonti letterarie, nello specifico dalla Historia Augusta, concerne l’imperatore Commodo: “Contaminò con un omicidio vero il culto persiano del dio Mithra, nel quale, di solito, il sacrificio umano veniva soltanto descritto a parole o simulato allo scopo di incutere rispetto”. Tale affermazione deve tuttavia essere esaminata con estrema cautela, considerato l’atteggiamento evidentemente ostile della nobiltà senatoria nei confronti del degenerato Commodo, amante dei postriboli, auriga e gladiatore, di cui si fa portavoce l’anonimo compilatore della Historia Augusta.
È probabilmente proprio in questo carattere essenzialmente individualistico ed esoterico, oltre ovviamente alle riserve sull’estrazione persiana del culto, che sembra potersi rintracciare la ragione che ha impedito al mitraismo di superare i limiti dell’organizzazione tipica di una setta, nell’insieme numericamente circoscritta.
IL SACRIFICIO DEL TORO
Alla formula iniziatica e gerarchica del rituale si salda l’aspetto salvifico del dio che, attraverso il sacrificio del toro, vero momento nodale della liturgia mitriaca, si fa garante di salvezza collettiva per i fedeli. “E ci salvasti attraverso l’aspersione del sangue eterno” recita, secondo una discussa interpretazione, il testo molto lacunoso di un versetto dipinto nel mitreo di Santa Prisca.
A differenza della prassi consueta nei sacrifici antichi, in cui era la divinità a ricevere l’offerta, Mitra è solo l’esecutore del sacrificio: l’immolazione è infatti compiuta per la salute del mondo e la salvezza dell’umanità. Tutto il creato si avvantaggia di tale infusione di vita divina, a cominciare dalla terra che, come indicato dallo spuntare delle spighe sulla sommità della coda del toro morente, viene fertilizzata dal sangue della vittima.
Congrui a tale tematica di rinvigorimento vitalistico appaiono gli animali di complemento alla tauroctonia: il serpente, che racchiude in sé le forze generative del ciclo eterno di nascita e rinascita; lo scorpione, animale per eccellenza apotropaico e latore di fertilità; il leone (non sempre presente) di cui sono noti i legami con la simbologia solare.
Nei sacrifici rituali diventavano invece protagonisti i fedeli di Mitra: tali cerimonie, ispirate al modello della tauroctonia, si consumavano negli antri e durante lo svolgimento delle stesse veniva cementata l’unione tra i membri della comunità e la connessione con lo stesso Mitra.
LA SPERANZA DI SALVEZZA
Proprio l’aspetto salvifico della divinità può, almeno in parte, dar ragione della fortuna incontrata dal mitraismo negli ambienti militari, in apparente contraddizione con la sua peculiare struttura a partecipazione ristretta. Il mitraismo offriva ai suoi adepti la possibilità di inquadrarsi “in una gerarchia psicologicamente riparatrice”, con l’enorme vantaggio di non escludere l’adesione dei propri fedeli ad altri culti, come invece faceva il Cristianesimo, che quasi “obbligava” i propri devoti ad una presa di posizione in opposizione alle posizioni religiose ufficiali.
Mitra avrebbe condotto i fedeli alla salvezza, come dimostrato da alcune annotazioni su testi epigrafici che lo denominano “dio padre” e “creatore della luce”. Sulla scia delle teorie neoplatoniche, l’immolazione del toro sarebbe equivalsa ad un atto di animazione del cosmo promosso da Mitra stesso il quale, in adempimento di un decreto celeste, avrebbe fatto entrare le anime nel processo di generazione. In tal senso, Mitra si presentava solidale col mondo, entrando in sintonia con gli elementi costitutivi del cosmo. Lo dimostra la preghiera ritrovata nel mitreo di Santo Stefano Rotondo: “Cascelia Elegans ti prega, o dio eterno, per la terra e il mare divino, per ciò che di buono creasti, per i sacri campi seminati”.
MITRA E IL SOLE
Altra componente qualificante della teologia mitriaca era costituita dall’assimilazione di Mitra con il Sol che, già presente nel patto di alleanza tra le due divinità come nel banchetto comune a suggello del sacrificio del toro e nell’ascensione del dio sulla quadriga solare, finisce praticamente con la loro identificazione. Così la nascita di Mitra venne fatta coincidere col dies natalis di Sol, ossia il giorno del solstizio invernale.
Nelle raffigurazioni della tauroctonia, il collegamento tra le due divinità, già favorito dalla presenza del corvo messaggero di Apollo, è reso spesso ancor esplicito dall’indicazione del raggio solare che si prolunga a colpire il capo o il mantello di Mitra intento al sacrificio. Già intorno all’80 d.C., d’altronde, nell’invocazione a Febo con cui si chiude il primo libro della Tebaide di Stazio, Mitra viene nominato come espressione di Sol: “sei propizio (…) sia che tu preferisca essere invocato come Sole rosseggiante, alla maniera del popolo achemenio, o come Osiride portatore di biade, o Mithra che, sotto le rocce dell’antro persiano, afferra le corna del toro che recalcitra a seguirlo”.
Tra il III ed il IV secolo il successo di tale formula si riflesse in una sorta di generalizzata tradizione di denominare Helios con uno qualsiasi dei suoi differenti nomi: Febo, Serapide, Osiride, Ammone, Attis e, appunto, Mitra. Ne è perfetta espressione l’inno al Re Sole redatto verso la fine del 362 d.C. dall’Imperatore Giuliano, illuminante anche per una valutazione complessiva del ruolo di Mitra nell’orizzonte religioso della politica di restaurazione pagana da questi vagheggiata.
MITRA E LO ZODIACO
Al rango primario nell’ordinamento del cosmo assicurato alla divinità dall’identificazione con il Dio Sole fece allusione anche il poeta Claudiano, il quale affermò che Mitra, ereditando da Helios il compito di guidare la corsa dei pianeti, aveva il compito di far ruotare gli astri erranti nel cielo.
Ecco che quindi, in molteplici raffigurazioni, alla tauroctonia mitraica viene aggiunta la raffigurazione dello zodiaco. Nell’affresco del mitreo Barberini, per esempio, la successione delle costellazioni zodiacali, sviluppata lungo un arco ribassato, prende l’avvio a destra con il segno di Aries (conformemente a quanto si legge in un versetto dipinto del mitreo di Santa Prisca: “L’Ariete per primo inizia la corsa secondo l’ordine stabilito”), a significare di come il processo di rinascita avesse inizio con l’equinozio primaverile.
Lo stesso Mitreo di San Clemente a Roma, seppur in una decorazione stellata fortemente lacunosa sulla volta, lascia intendere come il simbolismo cosmico si estendesse spesso a tutta la grotta mitraica, che da spelonca naturale si trasformava in iconografica immagine del cosmo. Una descrizione puntuale di ciò può essere trovata nelle opere di Porfirio: “Per questa ragione, dunque, il cosmo può propriamente essere descritto come una grotta, la cui superficie esterna è amena alla vista, ed il cui interno è invece profondo e oscuro. Così i Persiani chiamano grotta il luogo dove introducono un iniziato ai misteri. La grotta rappresentava l’immagine del cosmo che Mitra aveva creato: quanto essa, secondo appropriata disposizione, racchiudeva recava simboli degli elementi e delle latitudini del cosmo”.
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