SPARTACO
La storia del genere umano è sempre stata, senza alcun dubbio, un flusso ininterrotto di tradimenti e di ingratitudini, ma il tempo sa essere onesto e galantuomo.
Si prendano ad esempio i protagonisti del racconto che caratterizza questo articolo del blog di Rome Guides: da un lato Marco Licinio Crasso, oratore, uomo politico, generale e finanziere romano, e dall’altro Spartaco, il capo della rivolta dei gladiatori di Capua.
Conosciamo la vicenda di Spartaco per merito di Crasso e del giovane Cicerone, alleati del momento in un’impresa che metteva a repentaglio l’esistenza stessa di Roma. Spartaco morì eroicamente in battaglia, dando origine a un mito che avrebbe incoraggiato alla ribellione gli oppressi di ogni angolo della terra (la rivoluzionaria polacca Rosa Luxemburg, fiera propugnatrice del socialismo rivoluzionario, amò non per altro definirsi “Spartachista”). Crasso, l’avversario vittorioso del glorioso gladiatore, sarebbe poi morto miseramente in un agguato dopo aver visto, issata sulla picca di un Parto, la testa del figlio Publio. Cicerone, il più famoso avvocato di Roma, ebbe a sua volta la testa spiccata dal collo da parte dei sicari di Marco Antonio, che si voleva vendicare dei dardi verbali troppo acuminati scagliati contro di lui dal celebre oratore.
A dire la verità, i testimoni del fallimento dell’impresa di Spartaco ignorarono all’epoca l’importanza dell’evento, anche perché obiettivamente prevalere in una guerra servile non era certo un’impresa memorabile: anche per questo essa veniva premiata con una “ovazione”, ossia con una cerimonia che si concludeva con il sacrificio di un ovino, anziché con il più prestigioso “trionfo”, come accadde a Pompeo in occasione della vittoria contro Sertorio.
GLI SCHIAVI NELL’ANTICA ROMA
I continui successi nelle guerre esterne, in Gallia, in Oriente, nell’Africa settentrionale e contro le tribù germaniche avevano procurato a Roma un enorme afflusso di carne umana ridotta in schiavitù. A poco a poco il fenomeno aveva profondamente inciso sull’economia privata e pubblica e sulla vita civile: i latifondi avevano soppiantato quasi dovunque i piccoli poderi, ed i contadini poveri erano rifluiti in città dove venivano mantenuti a spese dello Stato, al grido di “panem et circenses”.
Quest’ultima parola ricomprendeva svariate accezioni, la principale delle quali era senza alcun subbio lo svolgimento degli incontri dei gladiatori. Scelti accuratamente da specialisti (si trattava di un mercato in cui ci si poteva arricchire in breve tempo), i gladiatori erano tendenzialmente prigionieri di guerra provenienti letteralmente da ogni Provincia: ebrei, greci, spagnoli, traci, galli, germani.
Se i Romani si dilettavano molto con tali combattimenti, essi si divertivano anche ad applicare una tradizione ancor più crudele, probabilmente appresa dai Cartaginesi: mettevano in croce gli schiavi fuggiaschi o ribelli, osservandoli morire lentamente con un piacere losco e brutale.
In realtà, i padroni covavano al loro interno una sorda paura dei propri schiavi: sapevano infatti perfettamente che il numero dei prigionieri era di gran lunga superiore a quello dei carcerieri, anche in virtù del fatto che tale numero si accresceva continuamente con le nuove conquiste e con i figli nati in schiavitù che divenivano proprietà del padrone.
Man mano che gli anni passavano, la situazione migliorò leggermente. Si diffuse ad esempio l’uso della manumissio, atto formale che trasformava gli schiavi in liberti e che spesso avveniva per riconoscenza dei padroni di fronte ai servizi a lungo prestati da schiavi che spesso erano letteralmente cresciuti nella domus del proprio Dominus. Usava anche, nelle case di buon nome, non abbandonare alla inedia e alla morte gli schiavi che la vecchiaia rendeva inutili.
Ovviamente, in quel guazzabuglio di individui che abitavano l’Urbe, era altrettanto facile incontrare padroni meschini e crudeli che sferzavano, angariavano, affamavano o uccidevano i propri schiavi per futili motivi. L’opinione pubblica considerava assai riprovevole tale crudeltà inutile o gratuita senza che i colpevoli incorressero in un qualche castigo, che però spesso si limitava ad un pubblico biasimo e ad una risibile ammenda.
SPARTACO
Spartaco, però, non era nato in schiavitù. Sappiamo che era un trace robusto e animoso, arruolato nell’esercito come ausiliario, e che era finito nella rinomata scuola dei gladiatori di Lentulo Baziato in quel di Capua perché, avendo disertato, si era fatto prendere.
Capua, all’epoca, era famosa per la bellezza dei dintorni e per la dolcezza del clima. A Roma si era soliti dire che i soldati di Annibale, nella sosta forzata in quella città di delizie, vi avessero perso la capacità di combattere e che dagli “ozi di Capua” fosse cominciato il declino cartaginese.
Quando iniziò la rivolta degli schiavi, al principio le autorità di Roma non presero molto sul serio i ribelli di Capua: sapevano ovviamente che si trattava di anime perse, ma non era certo la prima delle rivolte servili, e non sarebbe stata l’ultima. Bastava mobilitare nei casi più gravi qualche legione per domare quei disperati.
Con Spartaco, però, le cose andarono subito nel verso sbagliato. Nei primi scontri con i legionari, infatti, Spartaco e i suoi compagni ebbero la meglio, e folti gruppi di schiavi liberati dai latifundia, vagabondi e pastori nomadi, si aggiunsero al primo nucleo di sediziosi. Si ebbero terrificanti notizie di aziende agricole devastate, di romani rispettabili sgozzati come montoni, di giovani donne stuprate ed uccise.
Era l’autunno del 73 a.C.
Dopo le prime imprese Spartaco, che aveva con sé settanta compagni del campo di Capua, tra i quali spiccavano per ardimento Crixo ed Enomao, trascorse l’inverno sulle pendici del Vesuvio, rapinando i poderi vicini e riflettendo sul futuro. Conosceva le inflessibili regole dei romani: si trattava di vincere o di essere uccisi. Conosceva a sufficienza l’arte militare dei propri nemici per sapere che alla rivolta occorreva la forza del numero e la sagacia nell’uso delle armi; sapeva perfettamente che il nemico era di riflessi lenti, svogliato e indeciso nei primi passi, ma che una volta destatosi si sarebbe palesato con un volto terribile.
Era necessario addestrare quell’immenso manipolo di nullatenenti, accompagnato da un nutrito codazzo di donne e di bambini. Spartaco e i capi più esperti organizzarono i compagni, insegnando loro a combattere al modo romano: le schiere si infittivano, arrivando ad accogliere anche un piccolo corpo di cavalleria. Nel 72 a.C., l’arraffazzonato esercito di Spartaco dominava l’intera Campania.
A Roma iniziarono ad insorgere forti inquietudini: la rivolta stava uscendo ormai dai limiti soliti alle guerre servili. Contro l’esercito di Spartaco, ormai cresciuto di uomini e ben armato, furono inviati i consoli Lucio Gellio e Lentulo Clodiano, che riuscirono a isolare gli uomini di Crixo in Apulia, uccidendo l’intrepido comandante.
Spartaco aveva preso frattanto le strade dell’Italia settentrionale e, scontratosi con le truppe di Gellio, gli inflisse una dura sconfitta passando a fil di spada i prigionieri. A qual punto sembrò preda di un attimo di confusione: dopo aver sgominato i nemici a Modena, cercò dapprima di attraversale le Alpi e poi scelse invece di tornare in Basilicata.
Se nella mente del gladiatore sembrava regnare qualche dubbio, a Roma negli ambienti senatoriali la confusione e lo sgomento crescevano giorno dopo giorno. I militari, seguendo le mosse di Spartaco, capivano che l’esercito ribelle cercava ora di guadagnare la Sicilia per dare una base logistica alle future operazioni: Spartaco era troppo intelligente e troppo informato delle cose romane per illudersi di conquistare l’Urbe senza troppa fatica.
Da anni la repubblica era in crisi, con le differenti fazioni del Senato a lottare per il predominio. Cicerone era uscito vincitore, ma carico di nemici, dalle orazioni contro Verre. Gli aristocratici vivevano e guadagnavano basandosi sugli schiavi, che sudavano senza compenso nei latifondi; l’ordine equestre si arricchiva con i commerci e la professione delle armi, mentre il popolo, in gran parte fuggito dalla campagna, viveva di piccoli traffici, dell’artigianato e soprattutto della munificenza statale.
MARCO LICINIO CRASSO
La ribellione dei gladiatori minacciava alle basi il sistema sociale. Senza il lavoro servile l’economia della repubblica sarebbe crollata. Aristocratici e privilegiati d’ogni sorta avrebbero dovuto dare l’addio alla loro vita agiata, fatta di eleganza e raffinatezza, cibi e vini squisiti. Per questo il Senato si rivolse a Marco Licinio Crasso, il quale possedeva tre evidenti qualità: era un forbito oratore, un generale competente e un uomo ricchissimo.
Crasso aveva avuto un’adolescenza tribolata e infelice. Quand’era piccolo, suo padre e il fratello maggiore erano stati uccisi dai sicari di Mario; risparmiato perché ancora un ragazzo, Crasso si era rifugiato per otto mesi in Spagna presso un amico di suo padre. Tornato a Roma dopo l’avvento di Silla, si era rivelato un oratore brillante ed un generale abile e fortunato, dettaglio che non guasta mai. Silla però aveva deciso di metterlo ai margini, poiché Crasso si era mostrato troppo avido di denaro, ottenuto in modo illegale con le confische dei beni a presunti avversari, facendo in tal modo concorrenza al suo capo.
Datosi ai commerci, Marco Licinio Crasso si rivelò anche un abile uomo d’affari. La sua specialità era l’edilizia: avendo addestrato come muratori e ingegneri cinquecento dei suoi schiavi più abili, acquistava a prezzo ridicolo i resti di case bruciate dagli incendi ed i terreni nelle loro adiacenze. Le maestranze ai suoi ordini costruivano a quel punto nuove case nelle aree acquistate a poco prezzo, che erano poi vendute con grande vantaggio economico.
Molto parsimonioso, Crasso viveva modestamente: preferiva spendere il proprio patrimonio per acquistare voti e influenza politica piuttosto che per fare la bella vita, attraverso corposi prestiti ad interessi calmierati. Fu esattamente così che Crasso di guadagnò non tanto l’amicizia, quanto la riconoscenza di Caio Giulio Cesare che aveva l’abitudine di contrarre debiti per propiziarsi i seguaci. Si mostrava però inflessibile sulla restituzione,
CRASSO CONTRO SPARTACO
I colti pedagoghi ellenici che l’avevano istruito in gioventù avevano insegnato a Crasso un celebre proverbio: “Quando giunge la piena, chinati, o giunco!”. In questo specifico momento storico, di fronte alle richieste dei senatori, Crasso comprese che l’incarico del comando delle legioni contro i gladiatori in rivolta avesse un significato politico più che militare, rappresentando semmai una sorta di assicurazione per il futuro in proprio favore.
Spartaco, però, era un osso duro. Militare di grande esperienza, giustamente fiero del nome romano, Marco Licinio Crasso aveva capito che non si trattava di una delle solite guerre servili, cioè di una mano di schiavi ribelli facili da sbaragliare e punire. Si informò minuziosamente da Lentulo Baziato, il proprietario della scuola di Capua da cui il primo nucleo di schiavi era evaso, sul carattere e il modo di combattere di Spartaco, e si persuase che l’incarico non era da prendere con leggerezza.
Giocarono a favore di Crasso due circostanze. La prima fu che, costretto dai suoi seguaci a tornare in Basilicata, Spartaco stava cercando contatti con certi pirati cilici, da tempo in guerra con le navi romane, per portare i suoi uomini in Sicilia: l’isola sarebbe stata un’ottima base per riprendere le ostilità contro Roma e un punto d’appoggio notevole per i rifornimenti, anche grazie alla presenza di una moltitudine di schiavi che non aveva dimenticato la precedente guerra servile (104 a.C.). I pirati cilici, però, non mantennero la parola data a Spartaco e, intascata una parte del compenso pattuito, svanirono nel nulla.
La seconda circostanza favorevole a Marco Licinio Crasso fu l’indisciplina degli schiavi in rivolta ed il loro limite quantitativo. Mentre gli adepti della guerra servile non potevano ormai più aumentare, e molti dei migliori erano già periti in battaglia, i Romani potevano rinnovare di continuo le loro schiere. In aggiunta a ciò, i rivoltosi si erano insuperbiti, mostrando quanto fosse poco agevole l’intesa tra uomini di culture diverse, greci e iberici, galli e africani. Le debolezze proprie dell’umana natura si erano palesate nei loro aspetti nefasti: gelosie, rivalità, orgoglio, eccessiva fiducia nelle proprie forze, disprezzo dell’avversario. Spartaco si sforzava di farli ragionare, ma l’impegno era tutt’altro che facile.
LO SCONTRO FINALE
Paradossalmente, fu un ulteriore successo militare dei gladiatori a far deviare in modo irreversibile la traiettoria della rivolta. Il luogotenente di Crasso, Mummio, aveva ricevuto l’ordine di seguire le truppe di Spartaco senza impegnare battaglia, ma egli giudicò il momento favorevole e disobbedì attaccando l’esercito degli schiavi, ricevendone in cambio una sonora sconfitta, con parecchi fuggitivi.
Dopo una terribile lavata di capo al luogotenente temerario, Crasso non esitò a punire gli scampati. Accusati di codardia, essi furono affidati alla sorte: messi in fila, ne fu scelto uno ogni dieci, come prevedeva un antico rituale romano di epoca regia, ormai caduto nell’oblio. La messa a morte avveniva secondo un cerimoniale da brividi, alla presenza di tutto il corpo di spedizione, e prevedeva non solo la morte del prescelto, ma anche la sua damnatio memoriae.
Nessuno, fra i soldati di Crasso, se ne sarebbe dimenticato. Nessuno avrebbe più commesso il medesimo errore.
A Marco Licinio Crasso premeva, per ragioni di primato politico, concludere la guerra servile prima che tornassero, con le loro legioni, Pompeo dalla Spagna e Lucullo dall’Asia minore. Riuscì a coinvolgere in un combattimento una parte delle truppe nemiche che, al comando di Gaio Cannicio, si erano accampate lontano dai compagni. Fu uno scontro all’ultimo sangue, con molte vittime, ma nessuno cedette di un palmo il terreno su cui si trovava all’inizio della battaglia.
Subito dopo Crasso cercò di impegnare il grosso, comandato da Spartaco, che però riuscì abilmente a disimpegnarsi infliggendo perdite ai romani: un successo, osserva Plutarco, che indebolì però l’esercito dei gladiatori. Insuperbiti e convinti della propria superiorità, infatti, gli ex-schiavi si rifiutarono di continuare la ritirata e, impugnate le spade, si prepararono ad affrontare il nemico.
La battaglia si svolse in Basilicata. Gli uomini di Spartaco andarono all’assalto con eccessiva spavalderia: il campo nemico era infatti difeso da una fossa, attorno alla quale si accese una mischia furiosa, che con il trascorrere delle ore impegnò la totalità delle forze dei due eserciti.
Plutarco, nella sua cronaca, racconta che Spartaco, fattosi portare il suo cavallo, lo scannò dicendo: “Se vinceremo avrò tutti i cavalli che voglio. Se perderemo, non ne avremo più bisogno”. Cercò invano Crasso nella mischia, senza trovarlo e cadendo infine trafitto a morte, quando era ormai iniziata la rotta dei suoi.
Era la primavera del 71 a.C.
La repressione fu spaventosa. La Via Appia, che congiungeva Roma a Capua, soprannominata dagli storici la regina viarum, costruita da Appio Claudio nel 312 a.C., era la prediletta dei ceti agiati perché conduceva ai luoghi ameni del Mezzogiorno. Fu proprio lungo questa strada consolare che vennero crocifissi i prigionieri: se ne contarono oltre seimila, ma i caduti sul campo furono molti di più.
Fu un’immagine spaventosa, rievocata più volte anche dai primi Cristiani: la croce dei seguaci di Spartaco fu la stessa a cui sarà condannato Gesù Cristo nell’età di Tiberio, poche generazioni dopo.
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