TITO E LE GUERRE GIUDAICHE
“Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti sappiate che la sua desolazione è vicina. Allora coloro che sono in Giudea fuggano ai monti, quelli che sono nelle città si allontanino, quelli che sono nei campi non vi facciano ritorno, poiché giorni di vendetta saranno quelli, in modo che tutto quanto è stato scritto debba essere compiuto”.
La profezia, riportata nel Vangelo di Luca, sembra quasi invocare sulla città maledetta un vendicatore che la distrugga e la calpesti. Tale profezia, apparentemente, non tarda a realizzarsi: trentasette anni dopo la crocifissione di Cristo, non molto tempo prima del plenilunio dell’anno 70, il figlio dell’imperatore Vespasiano, Tito, è davanti alle mura della città pronto a colpire.
Eppure Tito Flavio Vespasiano, il distruttore di Gerusalemme, è passato alla storia con un soprannome gentile e delicato, ossia “delizia del genere umano”. Princeps operoso e attivo, cresciuto nei tempi torbidi di Nerone, Tito riuscì a spogliarsi dalle abitudini libertine della giovinezza e ad assurgere a esempio di romana virtù. Anche l’arco eretto in suo onore, che domina dall’alto il Foro Romano, è più sobrio di quelli posteriori di Traiano, Settimio Severo e Costantino: al suo interno, ricorda nella pietra il grande trionfo di Tito, con l’esposizione del tesoro e la glorificazione dell’Imperatore.
IL MAR MEDITERRANEO
Proviamo però ad allontanarci dalla componente artistica per comprendere in modo più accurato il significato storico della guerra giudaica. Durata quasi quattro anni, dal 66 al 70 d.C., essa deve essere certamente ricompresa nel quadro del grande imperialismo marittimo romano, avido di allargare le sue conquiste e di consolidare l’egemonia sul Mediterraneo, risorsa primaria e fondamentale dell’economia e dei commerci del tempo.
Il mare era una via privilegiata: più sicura e più veloce della terra, era considerata talmente tanto fondamentale dai Romani da aver fatto soprannominar loro il Mediterraneo quale “mare nostrum”, proprio per sottolineare l’assoluto dominio di Roma su di esso. Il possesso del Mediterraneo occidentale era stato il nodo della lunga guerra con Cartagine, durata più di un secolo, ed aveva rappresentato anche psicologicamente la conquista di una culla di civiltà: era una vera e propria “sete di dominio sul mare”, oltre il quale, al di là delle Colonne d’Ercole, si espandeva il vastissimo oceano inesplorato.
Plinio il Vecchio, che visse i suoi ultimi anni sotto Vespasiano e morì travolto dalla lava del Vesuvio quando sul trono imperiale era già salito Tito, così parla delle comunicazioni marittime: “ormai neppure bastano le vele più grandi… su queste vele altre se ne aggiungono e si aprono ai venti a prora e a poppa, cosa che porta l’orbe terrestre in ogni dove”. I Romani guardavano alle grandi carovaniere da cui giungevano i raffinati prodotti orientali (soprattutto profumi e suppellettili) e agli sbocchi sul mare come un monopolio commerciale che avrebbe comportato indiscutibili garanzie per i cittadini romani.
LE PREMESSE DELLE GUERRE GIUDAICHE
È proprio sotto questa prospettiva che deve comprendersi l’intervento spietato dei Romani contro Gerusalemme e la distruzione della città.
La Giudea aveva perso l’indipendenza nel 63 a.C., quando le legioni romane guidate da Pompeo entrarono in Gerusalemme e ridussero la regione a provincia romana. La Giudea non era molto estesa ma era un’importantissima via di comunicazione, non lontana dalla Galilea, quella che lo stesso profeta Isaia aveva indicato come “Terra di Zabulon e terra di Neftali, via del mare, paese oltre il Giordano”.
Dal quel 63 a.C. al 70 d.C., ossia da Pompeo a Tito, trascorse quasi un secolo e mezzo di storia. In quel secolo e mezzo, Crasso (53 a.C.) fu travolto e maciullato a Carrhae dagli infallibili arcieri dei Parti, costringendo Ottaviano Augusto, parecchi decenni dopo, a concludere con essi un trattato estremamente significativo: i Romani rinunciavano all’Asia Centrale, mentre i Parti si impegnavano a rinunciare per sempre ad una politica mediterranea.
Ed ecco la chiave di volta per interpretare e comprendere l’intervento di Tito. Se i Romani sopportavano i Parti e si cautelavano contro una loro intromissione nel “mare nostrum”, essi non potevano certo tollerare che una minoranza etnica di non grandi tradizioni guerriere provocasse una rivolta e sconvolgesse lo status quo, pagato a caro prezzo da Augusto.
Si tenga presente che gli anni dal 66 al 70 d.C. non furono tempi facili per Roma: gli strascichi della congiura di Pisone, gli ultimi anni di Nerone, i lunghi mesi di lotta tra Galba, Ottone e Vitellio, con Vespasiano costretto ad abbandonare la Palestina nelle mani di Tito e a correre a Roma per costruire la fortuna della Gens Flavia.
Nel 66 d.C. nelle terre del popolo di Israele c’è la guerra. Le cause sono molteplici: innanzitutto il tributo che gli Ebrei dovevano pagare all’impero, oltre agli altri destinati ai sacerdoti e al re, nuovamente esistente da quando Caligola aveva restaurato la discendenza di Erode. L’aristocrazia, specie quella sadducea, pareva favorevole a Roma nella speranza di ricevere qualche scampolo di potere, ma il popolo appoggiava il partito degli zeloti, insofferenti dei soprusi dei governatori romani.
Molto impopolare si era rivelato anche il provvedimento di Nerone che aveva danneggiato la Minoranza giudaica di Cesarea, sede del procuratore romano, inibendole di partecipare al governo della città. Fu difatti proprio da Cesarea che si scatenarono i primi tumulti: ventimila Giudei vennero uccisi, scatenando una feroce reazione a Gerusalemme contro il presidio romano.
Considerate queste premesse, quando nel maggio del 66 d.C. il procuratore romano Floro richiese 17 talenti del tesoro del tempio la miccia si accese pericolosamente: la guarnigione romana venne travolta e la città santa provvide immediatamente a interdire il sacrificio quotidiano in onore di Nerone.
In pochi giorni, scoppiò la guerra. Floro in un primo tempo venne soccorso dal governatore della Siria Caio Cestio Gallo, ma i Romani vennero respinti. Nel frattempo, le antiche mura vennero rinforzate e venne eletto comandante supremo della Galilea il futuro storiografo Flavio Giuseppe, principale fonte della guerra giudaica.
LA GUERRA GIUDAICA DI VESPASIANO
Nerone, preoccupato della situazione, incaricò l’allora ultracinquantenne Tito Flavio Vespasiano, ripetutamente vincitore in Britannia, e il ventisettenne figlio Tito di condurre la guerra.
Vespasiano mosse da Antiochia conquistando le più importanti roccaforti giudaiche: Tiberiade, Tarichea, Gamala, Giscala, la fortezza del Monte Tabor. Il generale aveva con sé tre legioni e un buon numero di truppe ausiliarie. Nell’ottobre del 67 d.C. tutta la parte settentrionale della Palestina era già nelle mani dei Romani; tra gli altri venne fatto prigioniero anche il già citato Flavio Giuseppe, incatenato e condotto al quartiere generale di Vespasiano, dove ebbe modo di assistere alla deportazione di seimila Ebrei, mandati a Corinto per lavorare agli scavi del canale.
Nella primavera successiva, mentre l’opera di repressione della rivolta continuava, arrivò improvvisa la notizia della morte di Nerone. Vespasiano, dopo un periodo di attesa in cui si consumò il lungo duello tra Galba, Ottone e Vitellio, arricchito dal prestigio militare conquistato in Britannia ed in Palestina, si imbarcò dal porto di Cesarea per ritornare a Roma e andare incontro al proprio destino imperiale.
Da quel momento, la guerra giudaica venne affidata al figlio Tito.
LA GUERRA GIUDAICA DI TITO
All’inizio del 70 d.C., la Palestina poteva considerarsi domata. Regione fertile ma povera d’acqua, colma di terre coltivate con tecnica simile a quella romana, ricca di palme ma desolata a Sud, verso il Mar Morto, uno specchio d’acqua descritto da Tacito come “mai mosso dal vento, privo di pesci e mai rallegrato dal volo di uccelli acquatici”.
Restava solo Gerusalemme, accanitamente difesa e protetta. La città, agli occhi del grande storico latino, era assai difficile da assediare, con notevoli opere di fortificazione: da un lato c’erano le mura, oblique e aggettate, che cingevano due colli dalle estremità scoscese e dirupate, dall’altro c’erano le torri, meno alte in corrispondenza delle alture dove arrivano a sessanta piedi (circa 18 metri), mentre nelle valli e nelle depressioni arrivano anche a centoventi piedi (36 metri).
I Romani schierarono attorno a Gerusalemme la quinta, la decima, la dodicesima e la quindicesima legione, con truppe di cavalleria e del genio e altre di rinforzo fino a ottantamila uomini circa: a dispetto di questi numeri imponenti, la presenza dei soldati non riuscì a cambiare le tradizioni del popolo ebraico. Per la Pasqua infatti i pellegrini affluivano comunque a Gerusalemme, esasperando con l’affollamento la tensione tra estremisti e moderati, che spesso si scontravano sanguinosamente.
Fuori, intanto, i Romani continuavano le opere di assedio; per loro, la Pasqua non aveva senso. Per evitare stragi, i Romani intimarono la resa, ma dalle mura la popolazione di Gerusalemme rispose con risa selvagge che convinsero Tito ad agire e a passare all’attacco. Inizialmente, l’Imperatore romano sfruttò le balistae e gli scorpiones, macchine da lancio in grado di scagliare oltre le mura macigni del peso superiore al mezzo quintale. Il punto più debole delle mura si trovava però a nord, mentre gli altri tre lati erano pressochè inaccessibili: fu proprio in quel punto, con un triplice sbarramento di mura, che le artiglierie concentrarono il fuoco, per proteggere la fragorosa avanzata degli arieti. A difendere il lato settentrionale c’era Simone bar Giora, capo del partito moderato, mentre Giovanni di Ghishala, capo del partito popolare estremista, aveva la responsabilità del Tempio e della Fortezza Antonia, chiamata così da Erode in onore di Marco Antonio.
A maggio, in una primavera ormai parecchio avanzata, i Romani si buttarono contro il primo sbarramento e in due settimane ne vennero a capo, riuscendo poi a sfondare in appena cinque ulteriori giorni il secondo sbarramento. A quel punto, però, un improvviso contrattacco li ricacciò indietro, costringendoli a una nuova e più dura conquista. Alla fine, a dispetto della strenua resistenza, il quartiere settentrionale di Gerusalemme cadde nelle mani dei Romani.
Tito, ormai sicuro della vittoria, concesse un attimo di tregua ai suoi soldati, facendoli sfilare sotto le mura davanti alla popolazione, affamata e in crisi profonda. Questa sorta di trionfo preventivo durò quattro interi giorni, dall’alba al tramonto, e volle rappresentare soprattutto una pura ostentazione di forza per convincere alla resa gli assediati.
Gli Ebrei, dal conto loro, confidavano probabilmente in un miracoloso intervento dall’alto, sperando in condottieri capaci di aprire in due i mari e di fermare il sole con un semplice gesto del braccio: forti di tale fede, non accettarono la resa. Tito, rispettando la sua fama di uomo benevolente, cercò di essere magnanimo ed inviò Flavio Giuseppe davanti alle mura della rocca, probabilmente al fine di scongiurare la distruzione della città e salvare molte vite. Le parole dello storico furono così accorate e violente da scuotere pesantemente gli animi degli Ebrei, issati sulle mura a sentire, ma non furono sufficienti: Gerusalemme voleva ormai sfidare l’esercito dominatore di Roma.
LA DISTRUZIONE DI GERUSALEMME
Non ci fu pietà. La Rocca Antonia venne investita in pieno dai soldati romani, dotati di tecniche d’assedio sperimentatissime e molto efficienti. Vennero fatti rotolare sotto le mura tronchi d’albero portati dagli ausiliari e si costruirono immense torri di legno, che gli Ebrei tentavano di incendiare con sortite notturne, uscendo dai passaggi sotterranei. Alcuni di essi chiesero di potersi arrendere, desiderosi solo di avere salva la vita.
Tito, però, non era più disposto ad essere tollerante, e diede un ordine di grande crudeltà: chiunque fosse stato trovato fuori dalle mura sarebbe dovuto essere crocifisso. Una accanto all’altra, oltre cinquecento croci moltiplicarono le tre croci del Golgota davanti agli occhi degli assediati, mentre il il rigoglioso paesaggio di vigneti, orti e uliveti attorno a Gerusalemme risultava quasi del tutto scomparso e saccheggiato. Il santo Monte degli Ulivi si era anch’esso ormai trasformato in una roccia scabra e nuda, spogliata di tutto il legname utilizzato per costruire torri, scale e croci.
Tito non si concesse alcuna pausa. Diede l’ordine di costruire una circumvallatio intorno alla città, facendo erigere una massicciata in terra con tredici punti fortificati, controllata da una cintura di sentinelle. La situazione, in quel di Gerusalemme, si fece disperata, come testimoniato dalle parole di Flavio Giuseppe: “Le terrazze erano piene di donne e bambini svenuti, le strade gonfie di cadaveri di vecchi. Fanciulli e ragazzi si strascicavano come fantasmi, cadevano durante le esequie dei loro morti. I predoni si gettavano sui moribondi a frugarne le vesti. Mordevano e succhiavano il cuoio di cinture e sandali, la pelle delle giubbe. I fili d’erba venivano raccolti e venduti a quattro dracme attiche il fascetto”.
Un altro episodio, citato da Flavio Giuseppe, fa rabbrividire: Maria, una giovane donna figlia della nobile famiglia Beth Ezob, venuta in città per la Pasqua da un paese oltre il fiume Giordano, venne trovata con dell’arrosto sul fuoco. Sul pavimento della stanza, tra la polvere e il terriccio affiorante, erano visibili i resti di un neonato, mangiato a metà.
La popolazione provava a scappare, ma quelli che venivano catturati non venivano solo crocifissi e piantati davanti alle mura, ma sventrati da capo a piedi: si era infatti sparsa la voce, fra le fila dell’esercito romano, che avessero trangugiato pietre preziose e oro. In una notte ne vennero squartati oltre duemila. Tale azione si rivelò eccessiva anche per Tito, che intervenne al fine di controllare gli eccessi delle sue truppe, ordinando ai centurioni di fare scempio dei responsabili della strage.
Con l’arrivo di giugno, fra carestia e cadaveri imputriditi, la situazione peggiorò ancor di più. Ai primi di luglio, la Fortezza Antonia cadde e venne letteralmente frantumata.
LA CADUTA DEL TEMPIO DI GERUSALEMME
Il simbolo di Gerusalemme era però un altro: il tempio. Grandiosa realizzazione di Salomone, distrutto nel 586 a.C. da Nabucodonosor, ricostruito circa mezzo secolo dopo, fu in seguito trasformato per pochi anni (dal 168 al 164 a.C.) in santuario pagano da Antioco Epifane IV e poi riconsacrato.
Tito si rese immediatamente conto dell’importanza del tempio e volle cercare di conservarlo a maggior gloria di Roma. Dopo aver intimato per l’ennesima volta la resa, iniziò le operazioni nella zona sacra, dando precise istruzioni di non distruggere il tempio.
Gli Ebrei, ancora fiduciosi in Geova, resistettero con veemenza all’attacco, anche perché Tito diede l’ordine di non colpire con alcun proiettile i baluardi in pietra del tempio, limitandosi ad appiccare il fuoco alle porte di legno, al fine di salvare l’edificio. L’incendio delle porte si propagò però rapidamente nel peristilio, costringendo gli assedianti a un duro sforzo per circoscriverlo; gli Ebrei ne approfittarono per sferrare un contrattacco, ma vennero dapprima respinti e poi travolti. A detta di Flavio Giuseppe, fu un incauto legionario romano, nell’inseguire i difensori, “senza attendere il segnale e senza lasciarsi sgomentare, ad afferrare una fiaccola ardente e issato sulle spalle di un compagno a lanciare il fuoco attraverso la finestra dorata che porta ai locali attigui al Santissimo”.
Fu un dramma: le stanze erano infatti rivestite di legno ed al loro interno c’erano le giare colme di olio santo. Le fiamme proruppero incontenibili, tra le urla disperate di Tito.
C’era però ancora la Casa Santa da salvare: i centurioni, tuttavia, non riuscirono a riordinare le fila degli ausiliari, la cui fame d’oro cresceva insaziabile minuto dopo minuto. Anch’essa finì dunque in cenere.
Ad agosto, metà città era stata conquistata. Giovanni di Ghishala però, ribelle fanatico, riuscì a portarsi sulla collina settentrionale, al fine di utilizzare il Palazzo di Erode quale ultima fortezza ed estremo rifugio per tutti. Ai Romani occorse un ulteriore mese per piegare questa sacca di resistenza e dichiarare Gerusalemme conquistata.
LA FINE DELLE GUERRE GIUDAICHE
A quel punto, con la caduta di Gerusalemme, non ci fu più alcun posto per la pietà: l’ordine fu di radere al suolo l’intera città e il tempio. Rimasero in piedi solo le torri di Phasael, Hippicus e Mariamme, parte delle mura e il celebre Muro del Pianto. Nella regione restò invece impresso quasi indelebilmente sulle pietre il marchio romano Leg.XF (Legio X Fretensis), cioè della legione che per sessant’anni aveva presidiato la zona.
Davanti ad una delle porte della città vennero ammassati, a detta di Flavio Giuseppe, oltre centoquindicimila cadaveri, con i prigionieri che ammontavano più o meno alla medesima cifra. Gerusalemme era stata calpestata dai Romani, spianata e livellata: abbandonata da Geova, quasi fosse una nuova Gomorra, rappresentò per il popolo ebraico il concretizzarsi della vendetta profetizzata.
Tito, l’anno seguente, celebrò il trionfo, lo stesso stilizzato su una delle pareti interne dell’Arco di Tito, all’interno del Foro Romano (da ammirare durante il nostro Tour della Roma Imperiale). Nel corteo sfilarono oltre settecento prigionieri ebrei, tra i quali proprio Giovanni di Ghishala e Simone bar Giora. Sollevati sulle teste dei soldati svettavano la menorah d’oro, ossia il candelabro a sette braccia, e il tavolo dei pani rituali, predati a Gerusalemme: entrambi vennero esposti nel Tempio della Pace, innalzato da Vespasiano.
Fu il trionfo dei Flavi, mentre Gerusalemme veniva calpestata dai pagani e gli Ebrei finirono venduti come schiavi.
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