Annibale

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ANNIBALE

Nel 237 a.C. il più grande capo militare di cui allora Cartagine disponesse, Amilcare Barca, si accingeva a conquistare la Spagna per compensare le perdite di territori e di ricchezze che la sua patria aveva subito durante il conflitto con Roma, che poi sarebbe passato alla storia col nome di Prima Guerra Punica.

Prima di far partire la spedizione, Amilcare cercò di propiziarsi gli dei compiendo i tradizionali sacrifici: assisteva alla cerimonia, insieme a molte altre persone, un fanciullo di appena dieci anni, suo figlio Annibale (nato nel 247 a.C.), il quale aveva pregato il padre di condurlo con sé in Spagna. Amilcare aveva sempre rifiutato di accontentarlo in considerazione dei grandi rischi dell’impresa, ma quel giorno, forse colpito dall’espressione afflitta del figlio, cambiò improvvisamente idea: lo prese per mano, lo condusse davanti all’altare e gli disse “Verrai con me se giurerai odio eterno verso il popolo romano”. Il piccolo Annibale, raggiante per l’insperata decisione paterna, non esitò a pronunciare il grave giuramento, arrivando quindi a metter piede in territorio spagnolo.

L’odio che Amilcare nutriva verso Roma era giustificato non solo dall’estrema durezza della pace imposta al suo paese dai romani dopo la Prima Guerra Punica (cessione di tutti i possessi cartaginesi in Sicilia e pagamento dell’esorbitante somma di 3.200 talenti), ma anche dal fatto che, a pace conclusa, approfittando della debolezza di Cartagine sconvolta dalla ribellione delle sue truppe mercenarie, Roma le aveva dichiarato nuovamente guerra costringendola a cedere anche la Sardegna e a pagare altri 120 talenti come indennità per le spese di un conflitto che i cartaginesi non avevano affatto provocato.

IL TALENTO DI ANNIBALE

La carriera militare di Annibale fu rapidissima. Dopo nove anni di guerra suo padre era riuscito a sottomettere tutta la parte meridionale della penisola iberica, ma nel 228 a.C. era morto in combattimento; gli era succeduto, a capo dell’esercito, il genero Asdrubale, che aveva talmente ampliato la conquista da raggiungere il fiume Ebro nella Spagna settentrionale, ma che purtroppo era anch’egli morto nel 221 a.C., a quanto pare pugnalato da un Gallo per questioni private.

Annibale aveva ormai 26 anni: erano passati più di tre lustri da quando era giunto in Spagna, ed in questo lasso di tempo era diventato un vero guerriero, infaticabile nel cavalcare e abilissimo nel maneggiare la spada. Fra una battaglia e l’altra, era anche stato in grado di coltivare gli studi, arrivando a saper parlare nelle loro rispettive lingue ai mercenari assoldati dal comando cartaginese: berberi, fenici, spagnoli e greci. Alcuni anni più tardi, grazie all’uso costante sul campo di battaglia, la lingua greca gli divenne così familiare che egli potè iniziare ad usarla senza alcuno sforzo, anche nel trattare affari di Stato.

ANNIBALE CAPO DELL’ESERCITO

Alla morte di Asdrubale, Annibale ricopriva l’alto grado di comandante della cavalleria, a cui era giunto non tanto per l’appoggio favorevole del cognato, ma quanto per l’ascendente acquistato col suo eccezionale talento militare. Fu proprio in considerazione di quel talento che l’esercito, senza nemmeno aspettare istruzioni da Cartagine, lo acclamò all’unanimità comandante in capo: in tal senso, il governo cartaginese non fece che ratificare la decisione delle truppe.

È esattamente in quella data, ossia nell’anno 221 a.C., che iniziò la leggendaria vita di condottiero del più illustre figlio di Cartagine, destinato a diventare, per il suo valore, per la sua scaltrezza e per il suo genio strategico, oggetto di universale ammirazione. Ora Annibale poteva finalmente dimostrare di non aver dimenticato il giuramento fatto tanti anni prima al padre: il comando assoluto dell’esercito lo metteva difatti in grado di agire contro Roma, l’unica potenza che apparisse decisa a ostacolare l’espansionismo punico in Europa.

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Quando Asdrubale era arrivato presso le rive dell’Ebro, infatti, il Senato Romano aveva imposto una ferma risoluzione: i Cartaginesi dovevano fermarsi e non varcare, per nessuna ragione, il corso del fiume. Il governo di Cartagine aveva dovuto piegarsi alla firma di un trattato contenente quell’espresso divieto, costringendo Asdrubale a rinunciare ad ogni ulteriore piano di conquista. Quella nuova imposizione aveva rinfocolato l’odio di Annibale contro Roma. Il piano che egli concepì fu di spingere i Romani alla guerra, pur rispettando il trattato riguardante la linea dell’Ebro, incoraggiato anche dal fatto che in quel momento Roma fosse alle prese con i Galli Cisalpini e che stentasse a consolidare l’occupazione del loro territorio.

SAGUNTO

In Spagna, molto a sud della linea dell’Ebro, sorgevano alcune città alleate di Roma, fra cui Sagunto. Sapendo che i saguntini erano divisi da discordie intestine, Annibale cercò di intromettersi nelle loro contese con la speranza di suscitare il risentimento del loro governo e di indurlo a una reazione violenta. A quel punto, con la scusa di essere stato provocato, egli avrebbe attaccato la città e poiché, naturalmente, i saguntini avrebbero chiesto l’intervento dei Romani, loro protettori, sarebbe scoppiato quel nuovo conflitto fra Roma e Cartagine che Annibale bramava, ma di cui non voleva apparire responsabile.

Era un piano ottimamente congegnato ma, siccome nemmeno tutte le ciambelle dei grandi strateghi riescono col buco, esso fallì clamorosamente: i Saguntini infatti si guardarono bene dal rispondere con atti ostili alle intromissioni del generale cartaginese, che fu quindi costretto a cercare un altro pretesto di guerra. Essendo avvenuti incidenti fra i Saguntini e i Turboleti, che abitavano in un territorio vicino soggetto a Cartagine (laddove oggi sorge la città di Teruel, in Aragona), Annibale intervenne in aiuto dei Turboleti e assalì Sagunto senza nemmeno aspettare l’autorizzazione del governo cartaginese.

A quel punto i Saguntini, asserragliatisi entro la cerchia delle proprie mura, invocarono l’intervento dei Romani, il cui Senato inviò al campo cartaginese alcuni emissari per Intimare al temerario generale di ricordarsi del trattato concluso fra Roma e Cartagine e di desistere quindi dalle ostilità. Annibale accolse l’ambasceria con sdegnosa freddezza e fece notare che le sue truppe vivevano in una così accesa atmosfera di guerra da rendere poco sicura l’integrità fisica degli ambasciatori romani, che sarebbero quindi dovuti andare a portare le proprie lagnanze direttamente a Cartagine. L’ambasceria romana, stordita da tale risposta, accondiscese ed intraprese dunque il viaggio verso l’Africa, che all’epoca era davvero molto lungo: Annibale approfittò di quel lasso di tempo per tentare di affrettare la caduta della città assediata, in modo che gli ambasciatori romani, giunti a Cartagine, si trovassero di fronte al fatto compiuto. I Saguntini si difesero però con eroismo, speranzosi che da un giorno all’altro potesse arrivare l’esercito romano che costringesse Annibale a togliere l’assedio: essi ignoravano che Roma, tutta presa dalla necessità di consolidare la conquista della Gallia Cisalpina e dal desiderio d’impadronirsi anche dell’Illiria, non aveva alcuna intenzione di distrarre le proprie forze per aiutare Sagunto.

La sorte dell’infelice città fu dunque presto segnata: nel 219 a.C., dopo otto mesi di terribile assedio, dovette cedere per fame. Annibale fu un vincitore spietato e, dopo averla interamente saccheggiata, la rase al suolo.

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LA DICHIARAZIONE DI GUERRA

Solo in quel momento Roma, scossasi dal proprio torpore, decise di agire: venne immediatamente inviata un’altra ambasceria a Cartagine, con l’ordine di chiedere perentoriamente la consegna di Annibale che, assalendo un’alleata di Roma, aveva violato gli accordi fra i Romani e i Cartaginesi. Gli ambasciatori giunsero però nella città africana proprio mentre si distribuiva fra gli abitanti l’immenso bottino fatto da Annibale a Sagunto, con il popolo ad esaltare il vincitore e voglioso di riprendere la lotta contro la prepotente avversaria d’oltremare.

Di fronte al governo cartaginese, l’ambasciatore Quinto Fabio raccolse in una mano un lembo del proprio manto e disse: “In questa mano c’è la pace o la guerra. Scegliete!”.

Scegliete voi a vostro piacere”, ribatterono con una punta di arroganza i governanti Cartaginesi. La loro risposta, per i Romani, equivalse alla scelta della guerra, e quinto Fabio scosse il lembo della toga esclamando: “E guerra sia!”.

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LA STRATEGIA DI ANNIBALE

Annibale accolse con immensa gioia la rottura dei rapporti fra le due potenze, elaborando con cura il proprio piano di azione. Deludendo l’aspettativa del nemico, si astenne dall’attaccarlo per mare; si propose invece di attraversare i Pirenei, il territorio meridionale della Gallia Transalpina e le Alpi occidentali per poi spuntare così nella Gallia Cisalpina, cioè nel nord della Penisola italica.

Era un piano pazzesco, ma Annibale lo considerava, per varie ragioni, il migliore possibile. Contava anzitutto di trar profitto dall’odio antiromano dei Galli, certo che per sfuggire all’invadenza di Roma essi l’avrebbero aiutato a infliggere un colpo mortale alla potente città. In secondo luogo, era certo che il piano, proprio per quel suo carattere di novità, avrebbe disorientato il nemico, inducendolo a concentrare le proprie forze in luoghi molto lontani dalla zona in cui la vera offensiva sarebbe stata sferrata.

Nella primavera del 218 a. C. Annibale mosse quindi da Nuova Cartagine (l’odierna Cartagena), città fondata da Asdrubale: qui il condottiero cartaginese aveva concentrato il suo corpo di spedizione, composto di 90.000 fanti, 12.000 cavalli e 37 elefanti. Con queste forze si diresse verso i Pirenei, marciando senza intoppi fino al corso dell’Ebro ma trovando le prime difficoltà dopo aver varcato il fiume, a causa dell’ostilità delle popolazioni locali.

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La situazione peggiorò quando l’esercito giunse davanti al massiccio dei Pirenei, con molti mercenari che, atterriti da quella spaventosa barriera di monti, preferirono disertare. Annibale affrontò la situazione con la sua abituale risolutezza: riunì tutte le milizie, espose il suo piano e concluse che chiunque doveva considerarsi libero di tornare indietro. Il suo franco discorso rinfrancò la maggior parte dei suoi uomini, ma parecchi altri mercenari si allontanarono, cosicché, quando i Pirenei vennero superati mediante l’aggiramento della loro estremità orientale digradante verso il Mediterraneo, Annibale si ritrovò con un esercito spaventosamente ridotto.

Entrato in Gallia, Annibale non trovò l’accoglienza sperata: dovette infatti affrontare la resistenza di parecchie tribù, che vennero domate in parte con la forza ed in parte con la diplomazia. La situazione più problematica sorse quando, attraversato il Rodano presso Avignone, Annibale entrò nel territorio dei Galli Allobrogi, in cui due fratelli si contendevano da tempo il potere. Annibale scelse a quel punto di assicurare la vittoria a uno di essi, ottenendo in cambio viveri e abiti per le truppe, nonché una guisa sicura che gli permettesse la traversata delle Alpi.

Ancor oggi, gli esperti sono incerti su quale sia stato il passo alpino scelto da Annibale per entrare in Italia: alcuni propendono per il Piccolo San Bernardo, altri per il Monginevro. Quel che pare certo è quanto egli impiegò per compiere la traversata, ossia circa quindici giorni, di cui nove per salire e sei per scendere: era la prima volta che un numeroso esercito, caratterizzato anche dalla presenza degli elefanti, superava quel formidabile ostacolo naturale in pieno autunno, quando i monti si coprivano già di neve. Fu uno sforzo immane, che provocò la morte di migliaia di uomini e di bestie. Quando, giunto in Italia, Annibale passò in rassegna le forze rimaste si rise conto di avere a disposizione non più di ventimila uomini, seimila cavalieri ed una manciata di elefanti, talmente malconci da prevederne la morte entro pochi giorni.

Nel frattempo i Romani, preparati a tutto tranne alla possibilità che Annibale sbucasse dalle Alpi, avevano diviso le proprie forze, esattamente come sperato dal condottiero cartaginese: una parte era stata inviata in Sicilia, dove si aspettava il primo attacco nemico, mentre l’altra si era diretta a nord con l’ordine di passare in Spagna per combattere Annibale sull’Ebro. Quando finalmente ebbero notizia che egli non era più in territorio spagnolo ma si trovava già nella Gallia meridionale, gli mandarono contro il console Publio Cornelio Scipione con alcune legioni. Scipione mosse subito verso Massilia (odierna Marsiglia) per arrestare Annibale al passaggio del Rodano, ma non fu abbastanza veloce: quando giunse al fiume seppe che i cartaginesi erano già passati da qualche giorno. Allora tornò indietro ripromettendosi di dar battaglia quando il nemico fosse sboccato sulla pianura padana.

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LE PRIME BATTAGLIE

Lo scontro previsto si svolse nel settembre del 218 a.C. presso il Ticino, a breve distanza da Vercelli, e fu l’inizio del grande duello che avrebbe deciso le sorti del mondo antico. La cavalleria punica, una delle migliori del tempo per armamento e disciplina, attaccò con tale impeto che quella romana dovette ripiegare. Nella mischia entrarono quindi anche le fanterie, che lottarono con feroce accanimento, fino a quando i Romani non furono costretti a ripiegare. Il console Scipione rimase gravemente ferito, ed avrebbe anche perduto la vita se non fosse stato eroicamente difeso dal figlio diciassettenne, il futuro Scipione l’Africano, proprio colui che parecchi anni dopo avrebbe debellato per sempre la potenza cartaginese.

Poiché Annibale aveva ripreso l’avanzata, Scipione non si fermò se non al di là del fiume Trebbia ove attese che l’altro console, Sempronio, giungesse a marce forzate dalla Sicilia. Appena arrivato, Sempronio decise di dar battaglia campale, mentre Scipione, immobilizzato dalla ferita, cercava invano di trattenerlo, facendogli notare la superiorità numerica nemica. Sempronio, avido di gloria, respinse però il consiglio. E allora quello che Scipione temeva avvenne: alla fine di dicembre, sulle sponde della Trebbia, dopo essere state attirate con abile manovra in una vera e propria trappola, le truppe romane vennero fatte a pezzi. Solo 10.000 uomini riuscirono a rompere l’accerchiamento e a rifugiarsi a Piacenza, mentre tutti gli altri vennero catturati.

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Annibale non trattò tutti i prigionieri nello stesso modo: mentre i Romani vennero tenuti in catene come schiavi, tutti coloro che fossero stati appartenenti a regioni italiche, sottomesse da Roma o ad essa forzosamente alleate, vennero subito rimessi in libertà e rimandati a casa perché raccontassero nei loro paesi che Annibale faceva guerra unicamente a Roma ed era animato verso le altre popolazioni italiche dalle più amichevoli intenzioni, tanto che si proponeva di aiutarle a ridiventare padrone in casa propria. Annibale sperava di trarre grande profitto da quella differenza di trattamento: se gli fosse riuscito di isolare l’odiata città nemica togliendole l’appoggio degli alleati, la rovina di Roma sarebbe stata soltanto questione di tempo.

LA BATTAGLIA DEL TRASIMENO

La nuova sconfitta subita presso il fiume Trebbia gettò il popolo romano nella più profonda costernazione; il Senato però non si perse d’animo e per parare l’incombente minaccia nemica chiamò alle armi altre quattro legioni. I due consoli entrati in carica all’inizio del nuovo anno (217 a.C.), Caio Flaminio e Gneo Servilio, ricevettero l’ordine di sbarrare i passi dell’Appennino centrale attraverso i quali si pensava che Annibale sarebbe passato per raggiungere il Lazio.

Purtroppo Caio Flaminio, uomo decisamente borioso e convinto di essere un geniale stratega militare, si era convinto che avrebbe avuto facilmente ragione del proprio avversario cartaginese, e per questo motivo iniziò a trascurare ogni più elementare prudenza. Annibale, avuto sentore di tale atteggiamento, dopo averlo disorientato traversando l’Appennino molto più a occidente del luogo ove Flaminio lo aspettava, lo provocò a battaglia saccheggiando tutte le contrade che le truppe cartaginesi percorrevano, nella speranza di indurre il console ad impegnare a fondo le proprie truppe prima che l’esercito dell’altro comandante, partito da Rimini, si congiungesse col suo.

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La manovra riuscì perfettamente. Flaminio, senza aspettare il collega, lasciò Arezzo dove aveva concentrate le sue forze, si lanciò all’inseguimento del nemico, lo raggiunse in Umbria presso le sponde del lago Trasimeno e si accinse ad attaccare proprio là dove Annibale desiderava, cioè in una posizione accuratamente scelta, sfavorevolissima per i romani. Le legioni non ebbero nemmeno il tempo di schierarsi a battaglia: l’esercito punico piombò loro addosso avvolgendole. Fu un disastro: ben 15.000 romani rimasero sul campo, compreso lo sciagurato console Flaminio, mentre altrettanti caddero prigionieri, permettendo solo a un quarto dell’esercito di riuscire a sfuggire all’eccidio.

Le disgrazie dei Romani, però, non erano ancora terminate. Mentre i resti del loro esercito fuggivano in disordine da un lato, sopraggiunse dall’altro lato l’avanguardia del console Servilio, ancora ignaro della terribile sorte subita dalle forze del suo collega. Appena i quattromila cavalieri di quell’avanguardia apparvero sul campo di battaglia, i Cartaginesi li assalirono, li sconfissero e li fecero in gran parte prigionieri prima ancora che essi potessero riaversi dalla sorpresa.

In tutto questo susseguirsi di assalti militari, l’esercito punico perse soltanto 1500 uomini.

IL TEMPOREGGIATORE

Il terrore si diffuse a Roma e in tutta l’Italia centrale: il popolo romano attendeva ormai di veder comparire da un momento all’altro l’invincibile nemico, che pareva protetto da Marte stesso, il dio della guerra. L’eco delle sue crudeltà era giunta fin nell’Urbe, e si temeva che egli potesse mettere a ferro e fuoco la città. Il Senato si affrettò a mobilitare due nuove legioni e a nominare in fretta e furia un dictator, nella persona di Quinto Fabio Massimo, uomo di nobile famiglia, ben noto a Roma per la sua prudenza e saggezza.

In realtà, però, Annibale non solo non era alle porte di Roma, ma per il momento non aveva nemmeno alcuna intenzione di assalirla: forte della propria esperienza militare, infatti, il condottiero cartaginese sapeva bene che le virtù guerriere dei romani erano tutt’altro che spente e che, attaccandoli proprio nella loro città, avrebbe forse compromesso i grandi successi fino ad allora ottenuti. Decise quindi di insistere nella politica già iniziata: fomentare la rivolta delle popolazioni italiche che sostenevano Roma, impresa che gli appariva assai più facile di prima, data la perdita di prestigio ormai sofferta dal leggendariamente invincibile esercito romano.

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Fu il primo errore commesso da Annibale. Mettendosi a scorrazzare per le regioni circostanti il Lazio, cercò di attirare a sé le popolazioni locali ma incontrò ovunque ostilità o diffidenza: né l’Umbria né la Campania, né tantomeno l’Apulia o il Sannio, che aveva dato a Roma tanto filo da torcere prima di lasciarsi sottomettere, accettarono le sue proposte di collaborazione a spese della città dominante.

Nel frattempo, le forze cartaginesi erano insidiate dall’esasperante tattica di Quinto Fabio Massimo, che si limitava a “pedinare” Annibale passo passo, osservandone l’esercito dalle alture e non accettando mai battaglia, ma logorandone le truppe con improvvise azioni di guerriglia, distruggendo i convogli e colpendo i ritardatari nelle retrovie. Invano Annibale cercava di invogliare il nemico a combattere saccheggiando paesi e campagne: Fabio Massimo, imperturbabile, rimaneva fedele alla propria tattica, ossia aspettare che Annibale, affaticato dal lungo vagabondaggio e sempre più inviso alle popolazioni da lui depredate, si imbottigliasse in qualche luogo assai sfavorevole.

L’occasione tanto desiderata si presentò mentre Annibale si trovava presso Capua e si dirigeva verso l’Apulia. Per un momento Fabio Massimo credette di averlo circondato, ma non aveva fatto i conti con l’astuzia del Cartaginese il quale, calate le tenebre, mandò su un’altura un piccolo corpo di truppe leggere seguito da duemila buoi che tenevano sulle corna fiaccole accese. Vedendo tutte quelle luci e temendo che l’intero esercito di Annibale avesse abbandonato la strada maestra per tentare la fuga attraverso i monti, i soldati romani si precipitarono in quella direzione per chiudere loro il passo: non si accorsero dell’inganno se non dopo che il grosso delle forze puniche, ormai libero nei movimenti, era rapidamente riuscito ad allontanarsi.

Senza scoraggiarsi, Quinto Fabio Massimo ricominciò a seguire il nemico molestandolo e tenendolo costantemente sotto l’incubo di un assalto improvviso. La sua tattica però, per la quale era stato soprannominato cunctator, ossia “il temporeggiatore”, andava rapidamente perdendo sia il favore dei Romani che quello degli alleati italici: l’esercito era in fermento poiché giudicava una vera viltà evitare sempre la battaglia mentre il nemico devastava una terra dopo l’altra, mentre dal canto loro le popolazioni italiche non facevano che lamentarsi di Roma che, invece di difenderle, le abbandonava alla mercé dell’invasore.

LA BATTAGLIA DI CANNE

Proprio a causa di queste polemiche, una volta scaduto il termine del mandato a Quinto Fabio Massimo, la dittatura non gli fu rinnovata.

Le operazioni militari vennero quindi affidate a due nuovi consoli: Caio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo. Non si poteva immaginare una coppia di comandanti più disparata e discorde di questa. Varrone, salito così in alto solo grazia alla sua eloquenza che trascinava le folle ed alla sua abilità negli intrighi politici, mancava di competenza militare ed era spinto dal suo temperamento a compiere le azioni più rischiose; Paolo Emilio, al contrario, era un abile capitano che aveva saputo concludere la vittoriosa guerra illirica in una sola campagna e godeva fama di uomo prudentissimo.

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I piani di azione militare dei due consoli non avevano nulla in comune: mentre Paolo Emilio voleva aspettare il momento più favorevole per sferrare l’attacco, Varrone intendeva giungere subito alla battaglia campale, sicuro di poter travolgere il nemico col peso delle imponenti forze messe a disposizione dal Senato Romano. Si trattava, in effetti, di oltre 90.000 uomini tra fanti e cavalieri, cifra che rappresentava quasi il doppio delle truppe nemiche, che ammontavano a 50.000 uomini. Varrone però sembrava non tener conto del genio strategico e tattico di Annibale, al quale non si poteva paragonare nessun altro talento militare dell’epoca. Così, quando nell’agosto del 216 a.C., i due eserciti si trovarono di fronte nella pianura pugliese, vicino a Canne (in prossimità dell’odierna Canosa), Varrone propose al suo collega di attaccare immediatamente. Paolo Emilio rispose con un rifiuto, poiché a suo parere la pianura avrebbe favorito l’azione della cavalleria punica che egli riteneva superiore a quella romana, e suggerì di cercare di attirare il nemico su un terreno accidentato che ostacolasse i movimenti dei suoi cavalieri.

L’arrogante Varrone, però, non volle sentire ragioni. Vigeva allora negli eserciti romani la pericolosa e spesso dannosissima regola che i due consoli si avvicendassero quotidianamente al comando di tutte le forze loro affidate. Il 2 agosto, per l’appunto, il comando toccava a Varrone: egli ne approfittò quindi per innalzare sulla sua tenda la bandiera purpurea, segnale di battaglia. A quel punto, con la morte nel cuore, il collega Paolo Emilio dovette piegarsi, ricordando di certo le parole di Quinto Fabio Massimo, suo amico e mentore, che prima di partire gli sussurrò “Ricordati che tu non avrai da combattere soltanto Annibale, ma anche Varrone”.

Nemmeno l’esperienza di Emilio Paolo, però, fu in grado di evitare il disastro. Varrone cadde infatti subito nell’insidia tesagli da Annibale, che aveva disposto le proprie truppe in modo tale da attirare i romani entro le ali dei suoi fortissimi veterani d’Africa, così da chiuderli in una morsa. Incominciò una strage spaventosa, la più micidiale che i Romani avrebbero subito nella loro storia plurisecolare. Oltre 70.000 legionari rimasero sul campo, compreso proprio il console Paolo Emilio, e più di 10.000 caddero prigionieri: la potenza romana sembrava ormai annientata, con Roma alla mercé del suo mortale nemico.

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L’ERRORE STRATEGICO DI ANNIBALE

Annibale, dal canto suo, aveva perduto appena 8000 uomini, ma ciò nonostante egli scelse comunque di non marciare verso Roma, ove già fervevano i preparativi di difesa a oltranza. Aveva infatti sperato che all’annuncio della sua nuova e superba vittoria le popolazioni italiche si sarebbero ribellate in massa contro Roma, ma ancora una volta la sua speranza rimase delusa: solo poche città defezionarono, la più importante delle quali fu Capua. Fu quindi proprio lì che il condottiero cartaginese andò a svernare e a far riposare le sue truppe affaticate da una così lunga e sanguinosa lotta: non prevedeva certo, mentre si trovava all’apogeo della sua potenza, che la fortuna stava per abbandonarlo.

Roma, con tutto il proprio orgoglio, mise difatti in piedi un nuovo esercito, chiamando alle armi anche i giovani adolescenti, reclutando migliaia di schiavi e di carcerati per debiti con la promessa di affrancarli dopo la guerra. Le matrone romane ricostituirono l’esausto tesoro di Stato, donando gran parte dei loro gioielli. I senatori, rinunciando a ogni lotta intestina, formarono un blocco unico teso esclusivamente al conseguimento della vittoria.

Le nuove legioni ricondussero gradatamente all’obbedienza le città ribelli, compresa Capua, la quale, in assenza di quell’Annibale che aveva ricominciato le sue scorribande attraverso l’Italia meridionale, finì per essere espugnata e devastata. Annibale in realtà riuscì a infliggere ai Romani altre sconfitte, ma nessuna di esse si rivelò catastrofica o definitiva. La sua spedizione in Italia si era ormai trasformata in un girone infernale: più combatteva e più vinceva, ma più vinceva e più Roma si rafforzava, tanto che Annibale cominciò a sentirsi accerchiato da nemici decisi a stritolarlo.

Le sue ultime speranze di vittoria si concentrarono sul fratello Asdrubale, che stava giungendo dalla Spagna a portargli considerevoli soccorsi, ma nel 207 a.C., presso il fiume Metauro, l’esercito di Asdrubale fu sterminato dal console Claudio Nerone e lo stesso capo cartaginese venne ucciso in battaglia. Annibale era ancora all’oscuro di quella disfatta quando, una mattina, una testa spiccata dal busto venne lanciata oltre la palizzata del suo accampamento di Canosa: in essa egli riconobbe con orrore il proprio fratello. Secondo la tradizione, in quel momento egli pronunciò le seguenti dolorose parole: “La fortuna ha abbandonato la mia patria!”.

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LA BATTAGLIA DI ZAMA

Annibale, tuttavia, non si decise ancora a lasciare l’Italia, preferendo ritirarsi nel Bruzio (l’attuale Calabria) ove rimase per ben quattro anni cercando riparo fra i monti e le foreste contro un nemico sempre più forte e incalzante. A Crotone lo raggiunse un’altra ferale notizia: i Romani avevano ormai portato la guerra fino in Africa al fine di colpire direttamente Cartagine. Publio Cornelio Scipione, il figlio dello Scipione battuto da Annibale sul Ticino, ora si trovava a poca distanza da Cartagine, presso l’odierna Tunisi, al comando di un esercito di 25.000 legionari, appoggiato da 400 navi da trasporto e da 40 vascelli da guerra.

Cartagine, preoccupata dall’assalto, ordinò ad Annibale di abbandonare immediatamente l’Italia e di accorrere con tutti i suoi uomini alla difesa della patria. Annibale non esitò a obbedire e cominciò a imbarcare le truppe, ma la scarsità di legno per la costruzione delle barche era tale che egli dovette uccidere ben quattromila cavalli per l’impossibilità di portarli con sé. In un baleno, la notizia della sua partenza si diffuse in tutta l’Italia meridionale, causando l’incontrollata esultanza dei Romani.

Lo scontro fra i due più grandi condottieri dell’epoca avvenne a Zama, in Numidia, nel 202 a.C.

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Le forze dei due eserciti si equilibravano, poiché ai Romani si era aggiunto un corposo numero di truppe numidiche: si parlava quindi di circa 50.000 uomini per ciascuno schieramento. Per la prima volta, la cavalleria romana apparve in grado di competere con quella punica, ma dal canto loro i Cartaginesi disponevano di circa ottanta elefanti, con i quali si ripromettevano di scompaginare le linee nemiche.

Prima dello scontro Annibale chiese a Scipione un colloquio tentando di indurlo ad un’equa pace, che fosse onorevole per ambedue i contendenti, ma Scipione oppose un categorico rifiuto a ogni proposta di compromesso. A quel punto, iniziò la battaglia. Gli elefanti cartaginesi furono subito lanciati all’attacco, ma stavolta i Romani erano ben preparati ad assorbirne l’impatto: essi avevano infatti lasciato tra le proprie file ampi spazi vuoti perché i pachidermi vi si incanalassero e, quando ciò avvenne, cominciarono a ferirli coi giavellotti, sicché molti elefanti, tormentati dal dolore, cercarono di mettersi in salvo facendo un brusco dietrofront e scaraventandosi contro la fanteria punica che li seguiva, scompigliandola.

La fanteria pesante romana entrò a quel punto in azione e, dopo una mischia feroce, ebbe il sopravvento sul grosso delle forze nemiche. Allo stesso tempo la cavalleria romana, coadiuvata da quella numidica, caricò i Cartaginesi con tale impeto da decidere l’esito della battaglia, devastando il pezzo forte dell’esercito punico.

Alla città sconfitta non rimase dunque che accettare le durissime condizioni di pace impostale da Roma: Zama aveva pienamente vendicato l’onta di Canne.

LA FINE DI ANNIBALE

Da quel momento, la vita di Annibale non fu che un lento calvario. Il Senato romano, avendo appreso che egli tramava ai danni di Roma con Antioco, re di Siria, mostrò l’intenzione di chiedere al Governo cartaginese di consegnargli Annibale. Quest’ultimo fuggì e andò a rifugiarsi proprio presso quel monarca, spingendolo alla guerra contro i Romani, riuscendo a persuadere Antioco che però ne venne clamorosamente sconfitto.

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Annibale comprese che il suo tempo era ormai giunto al termine, poiché sapeva bene che i Romani avrebbero chiesto la sua testa anche al re di Siria. Cerco di fuggire di nuovo e di rifugiarsi presso Prusia, il re di Bitinia, ma i Romani rivolsero a quest’ultimo la medesima richiesta. Annibale comprese che il suo ospite non avrebbe osato opporre un rifiuto, e a quel punto si fece forza, comprendendo di essere ormai alla fine dei suoi giorni, ed ingoiò il potente veleno che portava dentro ad uno dei suoi anelli.

Era il 183 a.C.: Annibale chiudeva a 64 anni la sua tempestosa esistenza, che lo porterà ad essere ricordato come il più temibile avversario mai affrontato dai Romani, mai così vicini alla caduta dell’Urbe per mano di un singolo condottiero.

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