IL VITTORIANO
Il 1911 risultò indubbiamente un anno faticoso, anche se denso di soddisfazioni, per l’alta ufficialità romana, che si ritrovò parecchio indaffarata nei cerimoniali per le solenni inaugurazioni del Palazzo di Giustizia ai prati di Castello, del Palazzo delle Belle Arti nell’omonima Esposizione Internazionale a Valle Giulia, della Mostra Etnografica nel recinto di Piazza d’Armi ed infine, il 4 giugno, del monumento a Vittorio Emanuele II, maestosamente addossato alla pendice settentrionale del colle capitolino.
La ricorrenza (il cinquantenario dell’Unificazione) imponeva a Roma lo sforzo di apparire all’altezza della missione assegnatale quale Capitale della nuova Italia: in tal senso, i monumenti simbolici, le costruzioni fastose e le spettacolari cerimonie con il continuo sventolio delle bandiere volevano rappresentare le manifestazioni dell’avvento di una nuova stagione storico-politica e della resurrezione di una genialità artistica capace di rivaleggiare, nelle intenzioni, con le testimonianze dell’Urbe imperiale e papale, o quantomeno di confermare una certa impronta di grandezza e di gloria.
Il “Palazzaccio”, progettato dall’architetto Guglielmo Calderini, doveva celebrare, con le sue decorazioni faraoniche, l’idea di Giustizia del giovane Stato che aveva prontamente emanato il nuovo Codice Penale. Il Palazzo delle Arti, elaborato da Cesare Bazzani e coronato di ghirlande e Vittorie, voleva evidenziare il primato italiano e la sollecitudine della moderna Nazione per le aspettative culturali. L’Esposizione Etnografica (o, come venne pomposamente chiamata, “Italopoli”), grazie all’effimera architettura dell’Ingresso d’Onore (di Venturi o Foschini), allo scenografico Foro delle Regioni progettato da Marcello Piacentini, ed al contorno dei pittoreschi padiglioni regionali doveva offrire la festosa immagine della “poliedrica anima” di un’Italia finalmente riunita.
IL PRIMO IMPATTO DEL VITTORIANO
Era però soprattutto il monumento a Vittorio Emanuele II a riassumere in sè e sublimare tutte le ambizioni rappresentative: non a caso, il sigillo di ratifica a questa realtà lo appose enfaticamente l’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti che, nel discorso inaugurale, definì il Vittoriano “marmoreo inno alla Patria, gigantesca epopea scritta sopra pagine di marmo e di bronzo che sfidano i secoli”.
In verità il monumento, una volta liberato delle armature e al momento della caduta del velario che copriva la grande statua equestre del primo Re d’Italia, si presentò fin dall’inizio agli augusti invitati, al corteo dei sindaci dei Comuni italiani, alla legione dei reduci delle patrie battaglie, e alla marea degli scolaretti romani plaudenti, come una macchinosa collina artificiale di marmo addobbata di bronzi dorati, difficile da “ascendere” e da abbracciare in un unico colpo d’occhio.
In tal senso, se esagerato poteva suonare il richiamo autorevole giolittiano alla “epopea”, certamente più appropriata appariva l’aggettivazione di “gigantesca”, attribuibile all’interminabile impresa realizzativa, tribolata perché protrattasi, fra indugi, soste e riprese, per ventisei anni. Ci si trovò infatti costretti a gestire la moltiplicazione delle dimensioni previste in quanto il fianco del colle capitolino, che avrebbe dovuto offrire il solido appoggio alle fondazioni del monumento, era invece risultato un fragile cumulo traforato da gallerie ramificate e sovrapposte, al cui interno si nascondeva persino l’avanzo fossile di un elefante preistorico.
IL PRIMO PROGETTO DEL VITTORIANO
Tre mesi dopo la morte del Padre della Patria, e sull’onda montante della commozione e del rimpianto, la sofferta ed al tempo stesso esaltante vicenda del monumento nazionale a Vittorio Emanuele Il ebbe inizio con la presentazione alla Camera di un Disegno di Legge proponente l’istituzione di una Commissione Reale allo scopo di raccogliere le offerte in denaro provenienti da sottoscrizioni private, di fissare l’entità del contributo finanziario dello Stato per la realizzazione del monumento, di determinare il luogo su cui sarebbe sorto e il genere stilistico che avrebbe dovuto contrassegnare il monumento stesso.
Nominata la Commissione, un successivo progetto legislativo (21 giugno 1880) ipotizzò l’erezione del monumento celebrativo a Piazza delle Terme, in forma di arco di trionfo. La non approvazione di tale proposta portò alla decisione (25 luglio 1880) di bandire un concorso che “invitava il mondo civile ad una gara di concetti più che di opere”: in tal senso, al fine di lasciare la massima libertà agli artisti di ideare le fantasticherie più straordinarie, si ritenne opportuno non specificare né il genere del monumento né la località dove avrebbe dovuto innalzarsi.
Alla data di scadenza (25 settembre 1881), i 293 bozzetti presentati vennero raccolti nel Museo Agrario presso la Chiesa di Santa Susanna. La Commissione, trovatasi a disagio di fronte al nutrito repertorio di obelischi, colonne, archi e portici trionfali soffocati di statue, dichiarò che nessuno dei progetti fosse meritevole di essere realizzato, ma stabilì ugualmente di assegnare il primo premio all’architetto francese Enrico Paolo Nénot, il secondo al bozzetto elaborato da Pio Piacentini ed Ettore Ferrari, e il terzo allo scultore Stefano Galletti.
IL SECONDO PROGETTO DEL VITTORIANO
L’esito fallimentare del primo concorso servì a convincere la Commissione della necessità di tornare a indicare il luogo sul quale il monumento dovesse costruirsi: tale luogo non poteva non avere un significato altamente simbolico, tanto che alla fine, forse anche per le pressioni del Presidente del Consiglio Agostino Depretis, prevalse la scelta del colle del Campidoglio.
Il 12 dicembre 1882 si pubblicò il nuovo bando di concorso, nel quale veniva stabilito che il monumento dovesse sorgere sul versante settentrionale del colle capitolino e sul prolungamento dell’asse di Via del Corso. Si stabilì anche che il monumento stesso si sarebbe dovuto comporre della statua equestre in bronzo del defunto Re, inserita in “un fondo architettonico costituito da un portico, o loggia, o altro partito, di qualunque forma piacesse al concorrente”, avente lo scopo di coprire la chiesa e il convento di Santa Maria in Ara Coeli. Si stabilì infine che il fondo architettonico (largo almeno 30 metri, con un’altezza non inferiore ai 29 metri) dovesse essere integrato da scalee per accedere alla “spianata” del monumento medesimo, fissata alla quota di 27 metri dal livello di Piazza Venezia.
La designazione dell’altura settentrionale del Campidoglio non piacque, tra gli altri, agli accademici di San Luca, alla Commissione Archeologica del Comune di Roma e allo storico Ferdinand Gregorovius, poiché intervenire in quel luogo significava distruggere il tessuto edilizio e sociale di un vecchio quartiere popolare, abbattere emergenze architettoniche quali il chiostro dell’Ara Coeli, la Torre di Paolo III, il piccolo viadotto che si staccava dalla torre, il Palazzetto Venezia e la chiesa di Santa Rita.
A sostenere l’opportunità della scelta del colle capitolino, quale cuore della capitale d’Italia e dunque sede più adatta per il monumento, scese però in campo Camillo Boito che, dall’alto della sua dottrina di esperto del restauro, reputava un beneficio per l’igiene lo sventramento di una porzione cittadina “piena zeppa di casacce e stamberghe, pigiate, accatastate, luride, puzzolenti”, al fine di trasformare il monumento in una chiara “affermazione bronzea e marmorea della creazione della nuova Italia”.
Lo scopo era quindi quello di rivaleggiare con la Roma più Antica, con il rischio però (come scrisse Primo Levi nell’aprile 1904) che, “non essendo il genio artistico dell’Italia nuova ancora in grado di competere con le colossali creazioni delle due Rome già vissute, il confronto stesso provocasse più la pietà che il compiacimento per l’autore di quel qualsiasi, anche in se stesso notevole, progetto che venisse scelto ed attuato”.
LA SCELTA DEL VINCITORE
Al momento del concorso, però, nessuno degli artisti partecipanti si sentì particolarmente intimorito dal reverenziale rapporto con il Campidoglio, tanto che ognuno dei 98 progetti presentati tendeva in qualche modo a fare del monumento il santuario della Terza Italia e l’ambizioso elemento di congiunzione della Roma nuova con la Roma pagana e la Roma cristiana.
Nel febbraio 1884 la Commissione reale (di cui facevano parte anche gli architetti Boito e Ceppi, gli scultori Monteverde e Salvini e il pittore Morelli) esprimeva la propria preferenza per il progetto del conte Giuseppe Sacconi (un grande portico poggiante su alti contrafforti allusivi della forma compatta di un arco), per quello di Manfredo Manfredi (un impianto concentrico ruotante intorno al perno della statua equestre) e per quello del tedesco Schmidt (una sorta di Partenone affiancato da colonnati e preceduto dal solito gruppo equestre).
I tre prescelti vennero quindi chiamati a realizzare, nel termine di quattro mesi, una traduzione in gesso dei loro progetti (modelli alla scala di un quarantesimo del vero). Finalmente, il 24 giugno del 1884, il primato venne assegnato all’elaborato di Giuseppe Sacconi.
Si chiudeva così con la vittoria di un nobile ma sconosciuto architetto marchigiano, e con la contemporanea diffusione del bando di concorso per il bozzetto della statua equestre, il capitolo dei preliminari della costruzione del Vittoriano, che fra un’incertezza ed un ripensamento era già durato circa 6 anni.
LE PROBLEMATICHE REALIZZATIVE
Con la posa della prima pietra del monumento (22 maggio 1885), gli aspetti stimolanti dell’iniziale entusiasmo lasciarono il posto alle problematiche realizzative che aprirono il capitolo, ben più prosaico, degli ostacoli rappresentati dai lenti procedimenti delle espropriazioni e dalle difficoltà di approntamento di un cantiere che subiva continue modifiche a causa del progressivo sprofondamento del piano di posa delle sostruzioni.
A questi intralci si accompagnavano le incertezze dovute alla mancanza di un preciso e dettagliato progetto compositivo. Giuseppe Sacconi aveva difatti elaborato un’idea della mole da edificare, ma non aveva preparato gli studi particolareggiati dei singoli elementi che costituivano l’insieme della stessa. L’architetto, a causa della precaria stabilità del terreno (ed anche perché probabilmente ossessionato dal timore di essere allontanato dalla direzione dell’opera qualora avesse fornito tutti i disegni esecutivi), preferiva procedere passo dopo passo, trattando caso per caso i problemi tecnici che si presentavano ed affrontando giorno per giorno la soluzione degli stessi. La massiccia mole, quindi, cresceva episodicamente, lievitando nelle dimensioni e complicandosi di variazioni architettoniche e decorative senza un organico piano di definizione, tanto che dopo quattro anni dall’inizio dei lavori non era stato ancora deciso quale nobile materiale avrebbe rivestito le grezze murature che andavano sorgendo.
Secondo alcune fonti, Giuseppe Sacconi aveva inizialmente pensato al tradizionale travertino romano, ma non aveva tenuto conto, da parlamentare qual era, delle pressioni che altri parlamentari più “faccendieri” ed influenti di lui avrebbero potuto esercitare sulla scelta di questa determinante componente sull’effetto conclusivo del monumento. Infatti, il marmo per il Vittoriano giunse stranamente dal bresciano, riserva elettorale dell’eminente ministro Zanardelli: si tratta del botticino, scavato a Rezzato e Mazzano.
LA STATUA EQUESTRE DEL VITTORIANO
Intanto, mentre andavano proliferando le scalee, emergeva la forma ad emiciclo del sommoportico e si consolidavano le masse dei fermi laterali dei propilei, rimaneva sempre insoluta la questione della statua equestre che doveva prendere posto al centro dell’immensa esedra. In altri termini, accettata ormai come definitiva la nuova configurazione del contenitore (i cui disegni vennero presentati il 31 maggio 1895), mancava ancora il contenuto.
L’architetto aveva preteso che nella composizione della statua equestre di Vittorio Emanuele sì dovesse tener conto “dei vari punti di vista delle linee dell’edificio e dell’indole altamente monumentale dell’opera”. Si era, cioè, principalmente occupato della quinta marmorea e poco dell’augusto inquilino che doveva risiedere da protagonista dentro l’architettura, pur dichiarandosi incline a un’opera statuaria di carattere simbolico.
La Commissione incaricata di giudicare i bozzetti della statua equestre scelse, nell’aprile 1889, un cavallo e un cavaliere modellati con estremo realismo dallo scultore Enrico Chiaradia. Il conte Giuseppe Sacconi ritenne l’oggetto di questa scelta inadatto ad armonizzarsi con le linee del monumento, e da quel momento si adoperò affinchè la scultura vincitrice non trovasse sistemazione nel monumento. Il parere dell’architetto trovò favorevole eco nell’intervento di Angelo Conti che, sulle pagine di “Nuova Antologia”, definì la statua come “un brutto cavallo: nessuna nobiltà di composizione e di movimenti, nessuna idealità nel gruppo, completa assenza di un pensiero e di un sentimento, questo è il cavallo che speriamo di non veder galoppare dinanzi al bellissimo portico antico di Giuseppe Sacconi”.
Sacconi, per accentuare “l’insanabile dissidio estetico” del galoppo del cavallo del Chiaradia nella “calma solenne del portico e delle scalee”, rimetteva in discussione la soluzione formale dell’alto basamento posto a sostegno del gruppo equestre. Folgorato e affascinato dal suggerimento di Giovanni Bovio di creare un “Altare della Patria” ai piedi della statua del Re, l’architetto cominciò a dar corpo alla suggestiva idea insinuando la sconvenienza della collocazione, sul fronte dell’alto stilobate, dei previsti rilievi storici raffiguranti la Breccia di Porta Pia e il Plebiscito, proponendo in alternativa una grande allegoria rappresentante i cortei trionfali delle Città Italiche o dei Grandi Italiani convergenti, da destra e da sinistra, verso la Dea Roma.
Una volta affermatasi questa nuova ideazione della fascia dello stilobate, il Sacconi sperava che sarebbe risultato facile dimostrare come un altare di tale sacralità non poteva certo innalzarsi sotto gli zoccoli e la pancia dello scomposto “cavallaccio” del Chiaradia.
DOPO LA MORTE DI GIUSEPPE SACCONI
Giuseppe Sacconi, però, morì nei pressi di Pistoia nel settembre 1905, e non fece neppure in tempo a sostenere la sua convinzione sull’opportunità di mettere al di sopra della nuova ara una statua appiedata di Vittorio Emanuele II incoronato dalla Vittoria.
Intanto, però, il colosso equestre del Chiaradia era cresciuto fino all’altezza di 12 metri nell’improvvisato laboratorio allestito all’interno del Mausoleo di Augusto, trasformato ai tempi nell’Anfiteatro Corea. A poco erano servite le correzioni apportate al cavallo dallo scultore Emilio Gallori, nel tentativo di adattare la statua al carattere dell’opera sacconiana.
Così gli architetti Gaetano Koch, Pio Piacentini e Manfredo Manfredi, chiamati il 16 novembre 1905 a succedere nella direzione dei lavori e a interpretare con fedeltà il pensiero del Sacconi, si trovarono nella spiacevole situazione di ereditare un gruppo equestre e un Altare della Patria che erano diventati altrettanti monumenti dentro il Monumento. Anche l’incarico di non tradire lo spirito sacconiano, ispirandosi “al sentimento di massima riverenza”, non era impegno di poco conto, dal momento che il conte aveva lasciato degli incerti disegni.
Nel giugno 1908 venne bandito il concorso per il grande fregio scultoreo che doveva ornare lo stilobate del monumento equestre, ovvero l’Altare della Patria. Per i soggetti si riproponevano i temi della Breccia di Porta Pia e del Plebiscito accanto a quelli nuovi dei Precursori del Risorgimento e di una “raffigurazione a libera scelta”. Un anno dopo venivano premiati due bozzetti: quello di Angelo Zanelli, che con libera scelta aveva pensato al “Trionfo delle opere di pace” e alla “Apoteosi della guerra”, e quello di Arturo Dazzi che aveva inteso raffigurare “l’anelito dei grandi italiani di ogni tempo verso Roma, da Giulio Cesare a Garibaldi”. Dal successivo confronto tra i due uscì vittorioso lo Zanelli.
Ancora nel 1908 si dava corso alla competizione por le Quadrighe e le statue delle Regioni, e nel 1913 si apriva il concorso per i mosaici delle lunette dei propilei, che vedeva prevalere i bozzetti dei pittori Antonio Rizzi e Giulio Bargellini.
I COMMENTI SUL VITTORIANO
La costruzione dell’opera era stata lunghissima, quasi interminabile. Nel corso della costruzione erano infatti precocemente mancati: Umberto I che aveva murato la prima pietra del monumento, lo stesso Sacconi minato da una paralisi progressiva, il Chiaradia modellatore della statua equestre, il Bovio ideatore dell’Altare della Patria, l’onorevole Depretis che aveva imposto il colle capitolino, l’architetto Giulio Crimini collaboratore del Sacconi, lo scultore Cantalamessa Papotti che aveva eseguito una Vittoria delle colonne trionfali, ed anche l’architetto Gaetano Koch. Per giunta, il modello definitivo del monumento era finito distrutto nell’incendio del padiglione delle Arti Decorative all’Esposizione di Milano del 1906.
Il giorno dello scoprimento della mole (4 giugno 1911), quando sembrò che il Sacconi fosse “riuscito nella sua impresa con piena vittoria”, si inaugurava pure l’interminabile e contraddittorio capitolo delle definizioni assegnate al monumento.
Tra quelle elogiative si potrebbe scegliere una di memoria latina come “nuovo Capitolium fulgens”, per passare a quelle del tipo “il monumento trionfale di una filosofia”, “il più bel monumento civile dell’epoca moderna”, o il “monumento assertore della Terza Italia nella Terza Roma”. Il Bistolfi lo definì “opera grande, destinata a rappresentare nell’avvenire, non solo il pensiero civile del nostro tempo, ma anche la nostra anima artistica”, mentre Primo Levi lo esaltò come “poema della storia e della pietra”. Al Sacconi toccò addirittura l’attributo di “Palladio della Terza Italia”, e Corrado Ricci lo celebrò come “il poeta della gloria per la realizzazione del monumento di Roma e come il poeta della morte per aver eseguito la Cappella Espiatoria di Monza”.
L’album delle recensioni negative potrebbe aprirsi con la definizione di Rastignac “uno degli errori più caratteristici del fatuo parlamentarismo nazionale”, per continuare con quella di Enrico Ferri (“una classica ruminatura”) e di Emilio Cecchi (“un tema di purissima armonia finito in un grido rauco”). Divenne però assai celebre soprattutto la dichiarazione espressa, con disprezzo futurista, da Giovanni Papini: “bianco ed enorme pisciatoio di lusso che abbraccia dentro i suoi colonnati un pompiere indorato e una moltitudine di statue banali fino all’imbecillità”.
Giuseppe Sacconi, come molti altri architetti, era alla ricerca di quello “stile nuovo e nazionale” invocato da Boito e di quell’unificazione di linguaggio che dovevano testimoniare, in architettura, il segno dell’unificazione politica e dell’indipendenza nazionale. Egli sperò di trovare la chiave risolutiva di questa aspirazione negli elementi di un’architettura trionfalistica e magniloquente, capace di dare spessore a evanescenze ideologiche e pretesti simbolici. Alla fine, il Vittoriano risultò uno dei prodotti emblematici del vuoto monumentalismo dell’architettura dell’Unità d’Italia: un eclettico coacervo di gratuite annessioni stilistiche, quali riflesso dell’unità di una Patria astratta, esteriore, nominale, formatasi sull’esaltazione del mito risorgimentale.
Chi, come Angelo Conti, dichiarava la convinzione che quest’opera avrebbe sfidato “anche la barbarie e che i posteri la conserveranno come un luminoso retaggio di bellezza e di gloria” si dimostrò un cattivo profeta: l’opera, che allora veniva considerata come il testimone marmoreo da passare alle generazioni a venire, risulterà invece una delle eredità più rifiutate e rinnegate dai Romani, che lo hanno soprannominato “la torta nuziale” o “la macchina da scrivere”.
Ciò nonostante, è pur vero che, nel bene e nel male, il Vittoriano è ormai uno degli elementi costituenti l’immagine di Roma. Basta salire i gradini per poterci soffermare sulle sue “pagine di bronzo e di marmo”: l’Allegoria del Sacrificio modellata da Bistolfi, la Concordia del Pogliaghi, la Forza del Rivalta, il Diritto dello Ximenes, il Pensiero del Monteverde e l’Azione dello Jerace. Potremo osservare con occhi meno preconcetti le Vittorie dorate dell’Apolloni, del Rutelli e dello Zocchi; le Vittorie sulle prue rostrate di Rubino e di De Albertis; i rilievi dello Zanelli; le due fontane alla base, il Tirreno del Canonica e l’Adriatico del Quadrelli. Salendo infine con i moderni ascensori fino alle Quadrighe del Fontana e del Bartolini, potremo non solo comprendere le inimmaginabili dimensioni di questi bronzi, ma anche godere di uno straordinario punto di osservazione per abbracciare tutto il panorama della Città Eterna.
—
Se l’articolo del nostro blog vi fosse piaciuto, potreste decidere di partecipare ad una delle visite guidate organizzate dall’Associazione Culturale Rome Guides. Contattateci per creare l’itinerario perfetto per le vostre richieste.