Etruschi – Politica e commercio

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ETRUSCHI – POLITICA E COMMERCIO

Le città degli Etruschi: Tarquinia, Cere, Vulci, Volsinii e, più a nord, Vetulonia, Volterra e, oltre Appennino, Felsina e Spina. Città del mito più che della storia, nomi che oggi evocano sterminati sepolcreti, ma che indicavano un tempo spazi urbani densi di attività, di cui sono rimaste poche rovine irriconoscibili.

Se molto infatti si percepisce dei costumi funerari etruschi, è ben più arduo invece per gli studiosi ricostruire il tessuto economico, politico e sociale di un popolo che pur dominò il centro Italia per secoli e che fu in stretti rapporti con tutte le potenze dell’epoca, lasciando tracce profonde nella civiltà italica.

LA PROVENIENZA DEGLI ETRUSCHI

Da dove venivano? Già Erodoto e Dionigi di Alicarnasso avevano posto il problema delle origini degli Etruschi, problema che per secoli ha diviso gli storici tra fautori di una provenienza orientale, sostenitori di una discesa dal nord e quelli convinti di una preistoria italica. La critica moderna ha però spostato l’obiettivo: la fastosa civiltà dei templi, delle tombe monumentali, dei gioielli raffinati che conosciamo, secondo il grande etruscologo Massimo Pallottino, non può essere comparsa all’improvviso nel VII secolo a.C., ma doveva essere bensì la continuazione della precedente cultura villanoviana che, nei luoghi dove poi sorsero le città etrusche, già costruiva case a capanna e tombe a pozzetto secondo moduli che preludevano allo stile tirrenico.

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Gli Etruschi, quindi, come nazione culturale e politica, si svilupparono quasi certamente in Italia, anche se, dando ragione a Erodoto, alcuni di loro possono esser riconosciuti (con il nome di Tirrenoi o Rasenna) tra quei “popoli del mare” che in antico si muovevano per il Mediterraneo.

Quel che è certo è che già nel VII secolo, su alture poco distanti dal mare, essi avevano fondato alcune città, ed esercitando commercio e pirateria detenevano il potere indiscusso sul Tirreno settentrionale, a cui avevano per l’appunto anche collegato il loro nome.

GLI INSEDIAMENTI DEGLI ETRUSCHI

La loro civiltà fu sempre tipicamente urbana, se per questo s’intende la città come centro dell’organizzazione del territorio. In Itala, come dice lo studioso Heurgon, furono loro a inventare la città come entità materiale e spirituale insieme, retta da leggi, delimitata nello spazio da regole rigide e consacrata alle divinità da minuziosi riti di fondazione.

I cicli pittorici delle necropoli di Tarquinia e gli innumerevoli oggetti che gli Etruschi ponevano nelle tombe a conforto dei defunti ci hanno abbondantemente informato sui passatempi e sul loro stile di vita. Solo gli studi più recenti, gli scavi degli abitati e l’interpretazione di nuovi documenti hanno però permesso di avere un’idea dell’aspetto delle città, delle classi sociali che ne detenevano il potere politico e delle fonti della loro ricchezza.

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Fatalisti fino all’ossessione, la loro costante preoccupazione era di interpretare la volontà divina. Quando si fondava una città, il luogo (quasi sempre un’altura) veniva prescelto in base a presagi favorevoli; giungeva poi l’augure, in toga ricamata di porpora e calzari a cinghie, e determinava il tracciato delle due strade perpendicolari, il cardo (nord-sud) e il decumano (est-ovest). Infine, coperto il capo con un lembo di tessuto in segno di rispetto, guidando un aratro di bronzo, egli segnava i confini con un solco la cui terra veniva buttata all’interno: solco e terra simboleggiavano mura e fossato, cioè quel limite (pomerium) che non si poteva varcare armati, pena la morte. Si pensi, in tal senso, alla leggendaria fondazione di Roma, con Remo a saltare il pomerium ed il fratello Romolo ad ucciderlo perché reo di sacrilegio.

Sorsero così, talvolta sul luogo di abitati preesistenti, prima Tarquinia, sul fiume Marta, poi Caere, detta anche Cisra, su una catena di colli costieri, Vetulonia su un lago interno, Roselle, Volterra e, davanti all’Elba, Populonia. Tranne quest’ultima, erano tutte città un poco distanti dal mare per difendersi da incursioni nemiche e tutte poste su alture e cintate, più tardi, da poderosi bastioni di mura, che abbracciavano anche terreni di pascolo e di coltivazione, preziosi in caso di assedio.

Successivamente, la rete di città si estese all’Etruria interna comprendendo Chiusi, Volsinii e Veio.

I TEMPLI ETRUSCHI

Erano città molto diverse da quelle dei Greci e dei Romani, di cui ci sono rimasti i centri monumentali: quelle etrusche erano effimere e colorate, costruite per vivere comodamente e non per essere conservate ai posteri.

Sull’acropoli, un po’ distanti dal centro, spiccavano gli edifici sacri: il tempio, anzitutto, piuttosto tozzo e squadrato, come lo descrisse poi Vitruvio, con colonne tuscaniche sulla fronte e cella tripartita all’interno, poggiante su un basamento di pietra a gradini. La sua struttura (caratteristica che persisterà fino all’Ellenismo) era di travi lignee che reggevano pareti di graticci ricoperti di argilla: esso era tutto vivacemente dipinto e rivestito di lastre di terracotta recanti a rilievo scene di danza o di guerra, in uno splendore barbarico di colori violenti, dal rosso al blu, dall’ocra al violetto.

In cima al triangolo del frontone, il cui profilo era ingentilito da una serie di fiori di loto e palmette, si ergevano contro il cielo statue di divinità (acroteri) a grandezza naturale in terracotta dipinta: a Veio, in cima al tempio dedicato a Minerva, l’unico coroplasta etrusco il cui nome sia stato tramandato, il celebre Vulca, aveva collocato una statua di Apollo avanzante a grandi passi contro Eracle, mirabile testimonianza di un gruppo in parte perduto (oggi conservato presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia).

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Il tetto a capanna a due spioventi, come nelle case, era di tegole piatte di Corinto e lungo le due pareti laterali dagli embrici si lanciavano in aria figure di menadi, sirene, meduse e demoni; erano le antefisse, stampate e colorate, che avevano una funzione di protezione contro le forze del male.

Vicino al tempio si apriva solitamente il “mundus”, una fossa profonda nel terreno che serviva per le libagioni agli dei inferi e poco lontano, su una terrazza da dove gli auguri scrutavano i presagi del cielo, si ergeva rivolto a oriente un altare agli dei Celesti, usato per i sacrifici che in antico pare fossero anche umani. D’altronde, un fondo di barbarica crudeltà gli Etruschi dovettero conservarlo anche in età storica se Erodoto narra che, dopo la battaglia di Alalia nel 535 a.C., i Ceriti lapidarono in piazza i prigionieri focesi, salvo poi ricorrere all’oracolo di Delfi per i riti di purificazione.

Oltre a questi non c’erano nelle città etrusche altri edifici monumentali: non terme, non teatri (che si costruivano in forma temporanea, con impalcature mobili), non piazze solenni, poiché, esclusi i primi tempi monarchici, le città furono sempre rette da ristrette oligarchie che non avevano luoghi di raduno particolari.

PALAZZI E CASE DEGLI ETRUSCHI

Non è nemmeno facile individuare, tra le fondamenta delle più spaziose costruzioni, quelle in cui si gestiva il potere. Uno dei pochi edifici di tal genere, identificato nel XX secolo da una equipe archeologica americana, è il cosiddetto Palazzo di Murlo (presso l’odierna Siena), sorto nel VII secolo e riedificato nel 580 a.C. Ha pianta quadrata con un cortile centrale, porticato su tre lati, simili all’atrium che Vitruvio afferma essere derivato ai Romani dagli Etruschi. Sul lato senza colonne si apre una stanza che aveva funzioni, come il tablinium romano, di pranzo e ricevimento. A Murlo, inoltre, sul tetto si levavano statue fittili monumentali di personaggi seduti, forse immagini degli antenati a cui era dedicato un tempietto poco lontano, e i muri del portico erano ricoperti di lastre a rilievo con scene di banchetti, danze, nozze, alla presenza degli Dei.

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Se si eccettua l’inusitata ampiezza del cortile, forse destinato a cerimonie, la casa aristocratica di città degli Etruschi non doveva differire molto da quella di Murlo, derivando entrambe da un modello egeo/anatolico: dall’atrio porticato, superato il vestibolo su cui si aprivano le stanze della servitù, si entrava nel tablinium e poi negli altri locali. Delle case etrusche, sia ricche sia povere, non sono però rimaste altro che le fondamenta di pietra: il resto, pareti di mattoni, lastre scolpite e colorate che adornavano anche le dimore della gente del popolo, strutture lignee, tutto è stato consumato dal tempo, e oggi ci è difficile immaginare come fossero queste città variopinte e animate.

LE INFRASTRUTTURE DEGLI ETRUSCHI

Gli Etruschi non avevano per gli abitati il gusto del monumentale e dell’eterno che mostrarono nelle tombe. È però possibile comprendere la loro abilità ingegneristica esaminandone le infrastrutture.

A Marzabotto, l’etrusca Misa, sorta come colonia nel VI secolo a.C. a sud di Felsina e concepita per un’espansione che poi non avvenne, sono perfettamente visibili le strade e le fondazioni in pietra delle case e dei templi. Gli ingegneri dell’epoca si erano preoccupati di costruire in alto una cisterna che rifornisse d’acqua i pozzi dei cortili e tutte le strade, sia quelle principali larghe quindici metri e fiancheggiate da marciapiedi, sia le stradette di cinque metri dei quartieri popolari (su cui si aprivano abitazioni di due, tre vani con cortili e botteghe) avevano cunicoli di scolo laterali, utilizzati per le acque piovane e anche per i rifiuti domestici.

Non essendoci sul posto strutture abitative preesistenti, l’impianto urbanistico aveva anche previsto dei quartieri industriali: sono ancora visibili le tracce di un’officina metallurgica e di una fabbrica di ceramiche, con il relativo forno e deposito dì argilla.

LA DODECAPOLI ETRUSCA

Le città più importanti, per quanto si può dedurre dalle necropoli, dovevano avere, tra il VII e il VI secolo a.C., intorno ai 25.000 abitanti. Erano città-stato come quelle greche e in origine erano rette da una specie di re, il lucumone, con funzioni giuridiche e sacerdotali. Livio cita Porsenna, re di Chiusi, che diede tanto filo da torcere ai Romani e Virgilio ricorda la crudeltà di Mesenzio, re di Caere.

Anche Roma, che entrò nel VI secolo nell’orbita etrusca, ebbe re etruschi, i Tarquini, che le diedero struttura urbana e bonificarono il Palatino con un sistema di fogne che scolavano nei Tevere; la dotarono inoltre del Tempio di Giove Capitolino, del Circo Massimo e della Cloaca Massima, che ancor oggi smaltisce una parte delle acque della città. Secondo Dionigi di Alicarnasso questi re partecipavano alle solennità sedendo su un trono d’avorio, abbigliati con una tunica d’oro e un mantello di porpora, la corona in capo e uno scettro sormontato da un’aquila in mano.

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Le monarchie etrusche, però, non durarono per sempre: in alcune città prima e in altre dopo, intorno al VI secolo a.C., il potere passò all’oligarchia delle grandi famiglie, che eleggevano tra loro i magistrati annuali. Si sa molto poco delle magistrature politiche e religiose, tranne il fatto che ereditarono i simboli materiali del potere regio; è ben più nota la circostanza che le città stato si alleavano tra loro in numero di dodici intorno ai Santuari.

La più importante fu la dodecapoli dell’Etruria centrale, che teneva riunioni annuali al santuario di Volsinii: in queste occasioni si inauguravano fiere e mercati, si svolgevano giochi pubblici e spettacoli di danza e canto e si eleggeva il Praetor Aetruriae, la cui insegna era il fascio composto da una scure e da dodici verghe, simbolo del potere giudiziario delle dodici città.

Quando poi gli Etruschi, alla metà del VI secolo a.C., si espansero nella Pianura Padana e in Campania, si ha notizia di una dodecapoli settentrionale intorno a Felsina e di una associazione campana intorno a Capua.

Furono sempre leghe a carattere religioso più che politico: infatti, nel momento del declino, quando l’Etruria era stretta come in una morsa tra i Galli e i Greci, le città-stato non seppero combattere unite e finirono per soccombere a una a una all’organizzazione militare romana.

COMMERCIO E NAVIGAZIONE DEGLI ETRUSCHI

Attorno al VI secolo a.C., quando l’Etruria era al culmine della sua storia, l’aristocrazia non disdegnava di arricchirsi con il commercio marittimo e con i proventi di miniere, fabbriche e aziende agricole. Alcuni degli uomini più nobili furono veri e propri “avventurieri”, capostipiti di aristocrazie locali: Dionigi di Alicarnasso, ad esempio, racconta che Tarquinio Prisco, figlio del greco Demarato, non riuscendo a emergere nella natia Tarquinia, partì con la moglie e i suoi seguaci alla volta di Roma, divenendone re grazie ai prodigi favorevoli e alle sue imprese in guerra.

Una delle più note tombe etrusche, la Tomba Francois di Vulci, mostra un episodio dell’attacco a Roma di due capitani di ventura: Aulo e Celio Vibenna. Nell’affresco è raffigurato il loro amico Mastarna che libera Celio fatto prigioniero dai Romani: Mastarna diverrà poi re con il nome di Servio Tullio e Tito Livio ricorda la sua costituzione che, simile a quelle contemporanee della Grecia, trasferiva parte del potere legislativo ai plebei.

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Gran parte delle ricchezze e del potere che i nobili Etruschi ostentavano nelle città derivava dalle imprese marittime. Che fossero pirati è nella leggenda: racconta un inno omerico che il dio Dioniso giovinetto se ne stava un giorno sulla riva del mare, quando all’improvviso arrivò una nave di pirati tirreni: si gettarono sul giovane, credendolo il figlio di un re, e lo portarono a bordo per chiedere il riscatto, ma il dio fece tali prodigi, trasformando la nave in un vigneto e facendo scorrere fiumi di vino, che i Tirreni, terrorizzati, si buttarono in mare e furono trasformati in delfini.

La pirateria nell’antichità non era comunque considerata disonorevole. I Tirreni avevano già questa fama quando, secondo Ellanico di Lesbo, insieme a Pelasgi, Micenei e altri popoli del mare, navigavano per il Mediterraneo alla ricerca di metalli; già da allora gli Etruschi possedevano l’arte della bronzistica e dell’oreficeria che avevano appreso in Anatolia, e quando in Sardegna e in Toscana trovarono giacimenti minerari ebbero l’opportunità di stanziarsi in modo permanente.

Presero a frequentare il Tirreno, seguiti dai Fenici che portavano i manufatti della Siria e dell’Egitto e l’argento di Tartesso, in Spagna. Più tardi giunsero i Greci, ma dal IX al VII secolo a.C., il periodo in cui si formò la nazione etrusca, essi erano i soli a navigare tra la Sardegna, l’Elba e le coste della Toscana, lasciando ovunque tracce del loro passaggio.

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Le agili navi mercantili etrusche avevano uno scafo arrotondato (diverso da quelle dei Greci che l’avevano diritto) e dotato di uno sperone sotto la prua per difendersi da eventuali assalitori: esse alzavano vele caratteristiche fatte di strisce o riquadri di tessuto colorato, ed esportavano il rame e il ferro dell’Elba o della Toscana, l’argento e il piombo della Sardegna, i vasi di bucchero da Caere.

Dai Paesi del nord ricevevano via terra l’oro e l’ambra, mentre sulle navi tornavano a casa carichi di anfore di olio e di vino, di lane preziose di Mileto, di “ariballoi” corinzi pieni di profumi e unguenti e, infine, di quelle ceramiche greche che di lì a poco inonderanno i territori etruschi.

L’EVOLUZIONE DEGLI ETRUSCHI

Nel VII secolo a.C. la civiltà etrusca esplode quasi all’improvviso: si arricchiscono le città vicino al mare, si mette a coltura il territorio, all’Elba e in Toscana si scava su larga scala il rame e il ferro.

La classe aristocratica, ricchissima, apprende allora a vivere nel lusso, a circondarsi di oggetti rari, come mobili intarsiati, arazzi, uova di struzzo incise, ciste di avorio, gioielli di cui furono artefici insuperati. I nobili costruirono necropoli monumentali dotando le tombe di preziosi manufatti di stile orientale: nel tumulo Regolini Galassi di Caere, come corredo della principessa Larthia, il cui scheletro fu ritrovato coperto di gioielli, si rinvennero (oltre a innumerevoli argenti e bronzi) uno schienale d’oro per trattenere il mantello, sei fibule, due collane, sette pendagli e altri oggetti d’oro massiccio.

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È il cosiddetto “periodo orientalizzante”, ossia il momento in cui gli Etruschi si trovano nell’orbita del commercio internazionale e, saldamente stabiliti alla fonte delle materie prime, mettono a frutto negli scambi la loro grande capacità di apprendere e si adeguano alla moda che allora veniva dall’Oriente.

Presto anche gli stranieri conobbero la strada dell’Etruria: le città più importanti si dotarono di empori commerciali sul mare, come Pyrgi, che comunicava con Caere mediante una strada di dodici chilometri, o Gravisca, l’emporio di Tarquinia e, più tardi, Spina, alla foce del Po. I mercanti fenici, greci, sardi ed egizi attraccavano alle banchine dei porti, scaricavano, altercavano in una babele di lingue mediterranee e scambiavano i loro prodotti. Gli stranieri potevano anche risiedere negli empori: avevano i loro quartieri e i loro templi, come quello della fenicia Astarte a Pyrgi, dove furono rinvenute le famose lamine d’oro con testo bilingue etrusco-fenicio, che hanno permesso di avanzare nella conoscenza della lingua. (visibili presso il Museo Etrusco di Villa Giulia).  

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Con i mercanti arrivarono gli artigiani: il nobile Demarato, esiliato da Corinto, si portò dietro a Tarquinia un’intera scuola di ceramografi. Gli Etruschi, ricettivi com’erano, appresero a lavorare la ceramica secondo lo stile dei Greci, crearono gli stessi profumi e, nel VI secolo a.C., intrapresero anche la produzione di olio e di vino di cui poi divennero esportatori.

Mantennero però costanti alcune loro caratteristiche, come il gusto per le costruzioni effimere e colorate, l’amore per il lusso e le comodità e soprattutto una religione fatalistica che prediceva loro una fine incombente. In effetti vivevano godendo della loro ricchezza come se avessero creduto di essere destinati a durar poco: ogni anno, nel tempio della dea Nortia a Volsinii, si piantava un chiodo su un’asse di legno, ben sapendo che quando fosse stato tutto pieno sarebbe venuta la fine. Gli stessi sacri Libri Fatales predicevano loro che sarebbero durati dieci secoli a partire dal 907, ma il secolo si misurava sull’età dell’uomo più vecchio che era nato il primo giorno.

Questo senso della fine imminente, se da un lato induceva gli Etruschi a costruire sepolcreti capaci di procurare l’immortalità, dall’altro non li distraeva dalle frenetiche attività con cui si guadagnavano un così largo benessere. Minacciati dalla concorrenza straniera sul Tirreno, alla fine del VII secolo da marinai si trasformarono in metallurghi, ingegneri e agricoltori, lanciandosi all’occupazione dei territori interni della penisola.

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