ETRUSCHI – AGRICOLTURA E INDUSTRIA
Nell’anno 415 d.C., fuggendo da una Roma devastata dai Goti di Alarico, Rutilio Namaziano navigava sul Tirreno lungo le coste di quella che un tempo era stata l’Etruria: “Vediamo i radi tetti di Gravisca, che spesso d’estate è invasa dai miasmi delle paludi, ma i suoi dintorni boscosi verdeggiano di fitte foreste e l’ombra dei pini trema sulle onde che si frangono sul lido”.
Non molto diverso doveva apparire il paesaggio ai mercanti del VII secolo a.C. che tornavano in patria sulle loro agili navi stipate di prodotti esotici. Le grandi città etrusche, come Caere, Tarquinia, Vetulonia e Vulci erano nel pieno del loro splendore; per scampare agli assalti dei pirati e per evitare i miasmi delle paludi sorgevano a qualche distanza dalla costa, ma sul mare avevano i loro porti attrezzati e gli empori commerciali frequentati da tutte le genti del Mediterraneo, che si mescolavano agli Etruschi, pur conservando i loro costumi e i loro culti.
Per le vie marittime, però, la concorrenza si faceva sempre più accanita: Greci e Fenici, a partire dal VI secolo, avevano invaso le rotte commerciali, e gli Etruschi, con quella flessibilità che li contraddistinse sempre, si volsero a sfruttare le risorse del territorio, che erano di natura mineraria ed agricola.
LA SIDERURGIA ETRUSCA
Proprio l’esistenza di miniere di rame e la successiva scoperta del ferro avevano stabilito da tempo stretti legami tra l’Etruria, la Sardegna e l’Isola d’Elba. Populonia sorse sul mare tra I’VIII e il VII secolo, forse allo scopo di commerciare il rame della vicina Campiglia, e miniere del medesimo minerale si trovavano presso la costa, da Luni a Grosseto e, all’interno, nelle Colline della Tolfa. La zona era ricca anche di piombo argentifero, stagno ed ematite. Dovunque sono ancora visibili le miniere etrusche: il monte Valerio è ancor oggi forato da stretti cunicoli sotterranei scavati per l’estrazione dello stagno, che, piuttosto raro, serviva insieme al rame alla fusione del bronzo, e sul posto sono state anche trovate alcune lucerne fittili da minatore fatte a scodella, con un foro per la sospensione.
Il minerale era portato a giorno con pozzi verticali e alla superficie doveva aver luogo la frantumazione e una prima cernita, poiché sono state trovate le discariche delle scorie.
Più in basso, allineati a mezza costa nelle vallette, in talune zone sono ancora visibili i forni per la raffinazione del metallo, ossia tronchi di cono del diametro di m. 1,80 alla base, rivestiti internamente di mattoni refrattari spessi 10 centimetri, tagliati orizzontalmente a metà da un tramezzo di pietra a grossi buchi. Nella camera superiore si ammassava Il materiale, in quella inferiore si faceva fuoco con legna e carbone e si raccoglieva il rame che colava dai buchi trasportandolo poi, grazie a un camminamento, sulla strada a fondovalle.
Vetulonia diventò in breve tempo il centro principale per la lavorazione del bronzo: i suoi metallurghi sapevano bene quanto stagno aggiungere al rame per ottenere un materiale più tenero per l’incisione a freddo o più resistente per le fusioni. Da qui e da Vulci vennero i preziosi manufatti bronzei dell’Etruria, come le urne cinerarie e le ciste portaprofumi del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e del Museo Gregoriano Etrusco nella Città del Vaticano.
POPULONIA
Populonia invece mantenne sempre il suo carattere industriale: il porto, l’abbondanza dei minerali e l’esistenza in zona del macigno refrattario per i forni ne fecero subito un grosso centro di esportazione. Dal VI secolo a.C., con l’estrazione del ferro dell’Elba su vasta scala, l’attività divenne decisamente frenetica: sull’isola il minerale si scavava a cielo aperto, e notte e giorno funzionavano le fornaci per la raffinazione. questa operazione però fu ben presto spostata a Populonia, che alla zona del porto e a quella abitativa aggiunge così una zona industriale, che Strabone nel I secolo vide ancora in parte in attività.
La lavorazione del ferro però era piuttosto primitiva: il materiale veniva ridotto a piccole masse spugnose, ottenute liquefacendo il minerale in contenitori di refrattario posti sulle alture. Le scorie, più leggere, galleggiavano e venivano fatte scivolare lungo il pendio, mentre per recuperare il ferro si doveva attendere il raffreddamento e distruggere i forni, nessuno dei quali è perciò stato conservato intero.
La produzione era tanto abbondante che la zona industriale della città si espanse fino a coprire le necropoli più antiche, dove spesso si usarono i cumuli delle tombe come alture per l’erezione dei forni. Le scorie in breve formarono colline che sommersero il terreno per 200.000 metri quadri e si è calcolato che ammontassero a due milioni di tonnellate, escludendo parecchio minerale intatto che, forse caduto dalle navi, si è trovato nella zona del porto. Queste colline erano ancora tanto ricche di ferro che la Ilva cominciò a sfruttarle ai tempi della prima guerra mondiale e sono state fino a poco tempo fa una fonte di minerale per alcune manifatture.
LE COLTIVAZIONI DEGLI ETRUSCHI
L’attività marinara e mineraria fini per incidere sul paesaggio toscano e laziale: se la precedente civiltà villanoviana aveva sfruttato il suolo indiscriminatamente, gli Etruschi furono invece idraulici, agrimensori, coltivatori di specie erbacee e legnose e piantatori di foreste.
Pur non sapendo nulla della malaria, avevano osservato che la malattia compariva nelle zone paludose e avevano messo a punto un sistema per livellare il suolo e drenarne l’acqua. Delle bonifiche etrusche nell’alto Lazio è stata distrutta ogni traccia, ma si possono ancora visitare i “cunicoli di Chiusi”, un sistema di canali sotterranei che facevano affluire in profondità l’acqua in eccesso nel terreno, convogliandola poi nei fiumi ed evitando ristagno ed erosione del suolo.
Se la costa era all’origine selvaggia e malsana, con boschi di macchia mediterranea abitati da cinghiali e serpenti, come apparve a Tiberio Gracco ancora nel 133 a.C., gli Etruschi scoprirono ben presto le possibilità agricole delle ampie pianure alluvionali e delle colline e le ricchezze delle foreste montane di pini, querce, faggi, frassini e soprattutto di abeti. Questi ultimi furono usati ampiamente per gli scali delle navi, mentre l’altro legname alimentò la produzione mineraria. I terreni scoperti furono però reintegrati con vasti castagneti artificiali usati per l’alimentazione, mentre quasi ovunque l’olivastro e i vitigni selvatici furono sostituiti dalla coltura della vite e dell’olivo che gli Etruschi avevano conosciuto attraverso i Greci. Anfore di olio e vino (apprezzatissimo il moscato dolce di Luni) presero ad ammassarsi accanto ai pani di bronzo e ferro a bordo delle navi mercantili destinate all’esportazione.
Le pianure alluvionali interne furono divise in ampie proprietà agricole che facevano capo alle famiglie dell’aristocrazia di Perugia, Cortona, Arezzo, Volterra, Chiusi. Come per la fondazione delle città, c’erano minuziose cerimonie per la determinazione dei confini, che erano considerati sacri e indicati da cippi di pietra. E in campagna, fra gli Etruschi, spiccava un determinato tipo di sacerdote, chiamato Aquilex (oggi lo chiameremmo rabdomante) che, in base alle particolarità della vegetazione, indicava dove scavare i pozzi artesiani.
Nei terreni così guadagnati gli Etruschi producevano, oltre alla vite e all’ulivo, molto grano, specie farro, che dava un raccolto di 15 volte la semente; con esso confezionavano le “clusinae pultes”, focacce che erano il loro principale alimento, e anche del pane bianco per le mense dei ricchi.
Varrone dice che l’Italia era piena di alberi da frutta, ma non indica quali; si sa al contrario dai testi etruschi che il susino e il pero selvatici, il fico nero e anche le felci, il rovo e la rosa canina erano considerati di cattivo augurio e perciò estirpati. Nei dipinti appaiono invece come commestibili gli asparagi, i carciofi e i melograni.
Nei dintorni di Tarquinia, poi, ampi campi di lino fornivano materiale per fabbricare tessuti, vele e reti da pesca.
LA PASTORIZIA E LA CACCIA PER GLI ETRUSCHI
Secondo l’etrusco Saserna, che scrisse alla fine del II secolo a.C. un’opera di agricoltura, i proprietari rurali fabbricavano in casa tutti gli utensili, dalle falci alle roncole, e avevano cave di argilla che alimentavano i loro vasai.
Erano anche i padroni dei pascoli del litorale dove scorrazzavano robusti buoi; c’erano pecore dal cui latte si producevano a Luni gigantesche forme di pecorino, e branchi di maiali che, secondo il costume etrusco, erano addestrati a seguire il porcaro al suono del flauto.
Con picche, giavellotti e scuri si cacciavano cinghiali, lepri e cervi; pare che alcuni Etruschi si dilettassero ad attrarre la selvaggina col suono del corno nelle reti fabbricate a Falerii.
Anche la pesca doveva essere attività molto ben conosciuta. Nella Tomba della Caccia e della Pesca di Tarquinia, ad esempio, si ammira un favoloso paesaggio di palude dove un branco di anitre selvatiche si leva in volo, mentre su una barca che solca le acque tra i delfini un pescatore tira a bordo le reti e due giovani stanno per tuffarsi da una roccia vicina. A Pyrgi, il grande porto di Caere, si praticava la pesca del tonno e, secondo Strabone, gli Etruschi avevano popolato i laghi di Bolsena, Bracciano e Vico di lucci e orate e pesci di mare che si possono abituare all’acqua dolce.
LE ACQUE DEGLI ETRUSCHI
Una tale dovizia di prodotti agricoli e minerari fu presumibilmente collegata a un notevole “boom demografico”. Dal VII al VI secolo a.C. la popolazione etrusca crebbe infatti a dismisura: non bastando al benessere di tutti le risorse delle città e del territorio, alcuni gruppi diedero inizio a vere e proprie imprese coloniali che si svilupparono soprattutto in due direzioni, a sud in Campania verso Capua ea nord, lungo le valli dell’Ombrone e dell’Arno e poi del Reno, nella Pianura Padana fino alla costa adriatica.
I fiumi a quell’epoca dovevano essere, in certe stagioni, più ricchi d’acqua e più navigabili di oggi: in una tomba vicino a Caere è stato trovato, scavato in un tronco d’albero, il fusto di una nave destinata di certo alla navigazione d’acqua dolce.
Per la penetrazione in nuovi territori, le vie fluviali erano in effetti più indicate di quelle terrestri. Gli Etruschi non ebbero mai infatti il capillare sistema stradale creato dai Romani: le vie etrusche erano tronchi piuttosto brevi, nati per unire città vicine, pavimentate solo nei pressi del centro abitato, mentre per il resto non erano altro che piste battute, affondate nei secoli sotto il peso del traffico. Se ne possono riconoscere dei tratti vicino a Veio nei cosiddetti “cavoni” che, incassati nella roccia tufacea e ricoperti al di sopra dalla vegetazione, appaiono ancor oggi molto suggestivi.
In aggiunta a ciò, nonostante fossero esperti ingegneri, gli Etruschi non eccelsero mai nella fabbricazione dei ponti: in età arcaica erano in genere strutture di legno poggianti su fondamenta di pietra. Gli Etruschi erano invece insuperabili nel sistema di regolazione delle acque, di cui hanno dato prove mirabili: la leggenda del lago di Albano è la prova della loro autorità in materia. Ce ne parlano Livio, Cicerone, Valerio Massimo e Plutarco; quest’ultimo narra come, nell’autunno del 398 a.C., durante l’assedio di Veio da parte di Roma, mentre fiumi e torrenti erano in secca, le acque del Lago di Albano cominciarono a crescere e straripare fino ad inondare la campagna. Di fronte alla catastrofe, si mandarono messi ad interrogare l’Oracolo di Delfi, ma prima ancora che essi tornassero fu catturato nei pressi di Veio un aruspice che, invocando come suo complice del tradimento il Fato che l’aveva voluto prigioniero, svelò che Veio sarebbe caduta solo quando le acque fossero state fatte defluire. I Romani poi, seguendo le sue istruzioni, rimossero i ciottoli che ostruivano un canale sotterraneo dal quale le acque trascorsero nella campagna passando sotto Castel Gandolfo.
LA COLONIA DI SPINA
Fu dunque con tale esperienza alle spalle che gli ingegneri etruschi del VI secolo, varcati gli Appennini e fondata Misa e poi Felsina, si trovarono di fronte al problema di costruire una colonia commerciale marittima in quella zona insidiosa che sono le foci vallive del Po, dove acqua e terra si confondono.
A questa desolata terra di nessuno già facevano capo le vie fluviali che dalla Gallia e dai Paesi del nord portavano carichi di ambra, stagno, pelli e schiavi. Sul posto era già sorta Adria, emporio dei Veneti che diede il nome al mare Adriatico, dove gli Etruschi si fusero con la popolazione locale.
La colonia di Spina fu però fondata ex novo vicino al mare; divenne una città ricca e potente, chiave dei traffici con l’Oriente e luogo di scambio di vasi attici di altissima qualità con brocche, incensieri, candelieri di bronzo etruschi, ferro e sale.
Per quanto possa sembrare incredibile, di una città così ricca e potente, citata da tutti gli storici antichi, fino al XX secolo non era stata trovata alcuna traccia: tutto era stato sommerso dal mare di sabbia e fango portati dal Po che in questi luoghi aveva esteso il suo delta di 20 chilometri rispetto all’età romana.
Verso gli Anni Venti, però, gli antiquari e i curatori dei musei osservarono lo sviluppo di un intenso mercato nero di vasi greci e di bronzi etruschi di provenienza ignota. Solo nel 1922, quando il governo fece bonificare la Valle Trebbia, si scoprì che il traffico partiva dalla cittadina di Comacchio, nelle omonime valli, dove nottetempo i pescatori uscivano sulle loro barche e andavano per paludi “a pesca di vasi”. Gli archeologi, all’inizio degli scavi, si resero conto subito di essersi imbattuti in una gigantesca necropoli di 1200 tombe a fossa, alcune delle quali straordinariamente ricche; nel 1935, poi, un’altra necropoli di 1810 tombe fu rinvenuta in Valle Pega.
Solo nel 1956, grazie alla fotografia aerea, si scoprì con immenso stupore che il reticolo delle vie urbane che si incrociavano ad angolo retto era identificabile per il colore più scuro della vegetazione che cresce su fossi profondi o canali: Spina era infatti percorsa da veri e propri canali, in modo non dissimile dall’odierna Venezia.
Gli urbanisti Etruschi che la progettarono, infatti, si trovarono infatti di fronte al problema di creare una città in una zona paludosa, separata dal mare da un cordone di dune costiere su cui furono scavate le necropoli. Lo risolsero scegliendo un luogo sulla riva di quello che era allora il ramo maggiore del Po, alla confluenza di un ramo minore. Il tratto del fiume tenuto navigabile divenne il porto della città, da cui partivano canali minori che dividevano gli isolati, difesi dalle acque da file parallele di pali piantati nell’argilla. Da Spina partiva un sistema di canali navigabili che collegavano i rami del Po alle paludi interne e servivano da scolmatori in caso di piene.
Nonostante questo lavoro ciclopico, ci sono segni di alluvioni sui resti degli edifici; se però la gente continuava a viverci, ciò significa che la posizione era importante e le attività commerciali redditizie. Gli abitanti, e tra essi molti erano di origine greca, dovevano esser ricchi, anzi nuovi ricchi, perché solo il 15% dei nomi sulle tombe è di origine aristocratica. Anche se la maggior parte dei costosissimi vasi attici era destinata al commercio, gli Spineti potevano permettersi di metterne un gran numero nelle tombe: essi sono oggi esposti al Museo di Ferrara. Ovviamente, tali colossali lavori non vennero eseguiti dagli Etruschi con le loro mani: i sommozzatori che piantarono i pali, gli scavatori delle necropoli, i minatori delle cave tirreniche erano probabilmente poveri schiavi che vivevano in quegli inferni chiamati da Marziale e Giovenale “ergastula tuscia”.
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