ETRUSCHI – PIACERE E INTRATTENIMENTO
Lo spoglio dei sepolcreti etruschi che, pur notoriamente colmi di ricchezze, erano stati considerati terre sacre fino al Medio Evo, fu ufficializzato dal re degli Ostrogoti Teodorico il quale, con un editto in cui dichiarava legittimo “riportare all’utilizzazione umana i tesori che giacciono celati sottoterra, per non lasciare ai morti ciò che può ancora servire ai vivi”. Da quel momento, più o meno legalmente, cominciarono a uscire dalle necropoli i bronzi, gli ori ed i vasi che oggi si trovano un po’ dappertutto, dispersi per musei e collezioni private.
Delle ricchezze degli Etruschi erano già assai ben informati gli antichi: ne parlano tra gli altri Livio, Terenzio Varrone e Plinio il Vecchio, e si sa che i Romani dell’età imperiale amavano collezionare gli oggetti preziosi dei loro predecessori. Tuttavia, è stato soprattutto nel XX secolo che gli archeologi hanno potuto disegnare un quadro preciso della provenienza di queste ricchezze: il ferro dell’Elba, il rame e lo stagno della Campiglia, le risorse agricole dell’Etruria e dell’Emilia, che essi sapevano potenziare con la loro conoscenza delle tecniche d’irrigazione e bonifica, ed infine il commercio di transito, con il quale gli Etruschi facevano da mediatori tra i Paesi del Nord Europa, produttori di pelli, ambra e oro, e quelli orientali che vendevano raffinati manufatti.
Sono state infatti riportate alla luce le miniere della zona di Massa con i resti dei forni per la fusione del rame, mentre gli scavi di Populonia hanno evidenziato l’esistenza di una zona industriale per la lavorazione del ferro alle spalle del porto, dove il minerale veniva imbarcato. Intorno a Chiusi sono stati riaperti i cunicoli sotterranei che controllavano il regime delle acque di superficie, mentre gli scavi di Spina hanno confermato l’asserzione di Plinio il Vecchio, secondo il quale gli Etruschi avevano regolato le piene del Po con un sistema di canali scolmatori.
LE CLASSI SOCIALI DEGLI ETRUSCHI
Come gli Etruschi impiegassero queste ricchezze non è mai stato un mistero: i grandi cicli pittorici tombali, in primo luogo di Tarquinia, parlano senza possibilità di equivoci dell’amore del popolo etrusco per il lusso e i piaceri della vita, tra banchetti, abiti lussuosi e raffinati passatempi.
Ciò che è cambiato oggi è forse il giudizio morale sull’edonismo degli Etruschi, che scandalizzava i più austeri contemporanei Greci e Romani. Consapevoli del flusso della storia, questi ultimi proiettarono il loro pensiero e la loro arte come un ponte tra il passato e il futuro, eternandosi in documenti e monumenti; gli Etruschi invece, a parte le necropoli costruite nell’illusione di perpetuare la vita oltre la morte, abitarono in città di legno e terracotta, piene di musica e di colori, ma di cui non è quasi rimasta traccia. Ricettivi e intraprendenti quando si trattava di accumulare ricchezze, rivelavano una sorta di mollezza orientale nel dilapidarle in oggetti esotici e raffinati che elevavano la loro qualità di vita.
Del resto, in molte altre cose erano diversi dai loro contemporanei: persino in campo sociale riuscirono contraddittoriamente ad essere al tempo stesso conservatori e tolleranti. Si pensi, ad esempio, alla cosiddetta Tomba degli Scudi, costruita nel IV secolo a Tarquinia dalla famiglia Velcha, in cui il capostipite viene raffigurato assiso sulla sedia curule tra processioni e banchetti inerenti alle funzioni della magistratura, a cui tutti i membri della dinastia erano votati: tale tomba rappresenta il trionfo del rango aristocratico. Del resto sappiamo che Mecenate, l’amico prediletto di Augusto, in tempi in cui l’Etruria era già stata assorbita come nazione dallo Stato romano, esibiva nell’atrio l’affresco del suo albero genealogico che lo attestava discendente della nobilissima Gens Cilnia di Arezzo.
Se tale spiegazione sembrerebbe mostrare l’esaltazione dell’aristocrazia etrusca, Posidonio di Apamea, che visitò l’Etruria nel II secolo a.C., si meravigliava perché “i domestici hanno dimore particolari di ogni genere, come è di regola per gli uomini liberi”. Gli scavi hanno in effetti confermato la probabile esistenza di abitazioni individuali per il ceto servile.
Ora, non è semplicissimo indicare come fossero veramente costituite presso gli Etruschi le classi sociali. Sicuramente schiavi erano i lavoratori delle miniere e gli addetti alle opere di bonifica del territorio, ma la vasta folla dei lavoratori dei campi, degli artigiani e anche dei servi domestici era invece equiparabile, secondo lo storico Heurgon, ai “penesti” greci, uomini liberi costretti però dal ceto dominante ai lavori agricoli e al servizio militare.
C’era inoltre la classe privilegiata degli “etera”, legati ai principi come i clienti romani e destinati a seguirli in guerra, poiché la leva militare era per gruppi familiari. Appare comunque dalle iscrizioni tombali che i matrimoni misti tra le classi sociali erano frequenti e le ascese talvolta rapide: dal V secolo a.C. si formò infatti una classe media di trafficanti e artigiani.
I PIACERI DEGLI ETRUSCHI
Poiché in Etruria le città erano il centro motore delle attività commerciali e agricole, era qui che ogni giorno confluiva una folla spesso cosmopolita: tra le case adorne di lastre di terracotta dipinta e templi pesantemente ornati di sculture, fin dal primo mattino si aggiravano i servi che facevano le spese per le dimore patrizie, le donne che sceglievano al mercato le lane di Mileto o i vasetti di Corinto pieni di unguenti profumati, i pastori che al suono del flauto conducevano le loro greggi.
Passeggiavano per strade e piazzette lastricate, tra le botteghe che si aprivano sulla via e che ospitavano cuoiai e orefici, falegnami e tintori, vasai di origine greca e i loro imitatori locali, bronzisti e numerosi artigiani di strumenti musicali.
La musica inondava le strade: gli Etruschi ne andavano pazzi e avevano svariate lire e cetre, ma soprattutto flauti di origine frigia, spesso doppi, denominati tibiae. Erano melodie orientali e voluttuose quelle che accompagnavano i banchetti, dove i musici non mancavano mai, riccamente vestiti di corti abiti ricamati e spesso accennanti passi di danza, come nella cosiddetta Tomba del Triclinio, oggi visibile presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Si suonavano però anche motivi fortemente ritmati: testimonia infatti Aristotele, particolarmente scandalizzato a riguardo, che gli Etruschi praticavano il pugilato, frustavano i servi e cucinavano al suono del flauto, che evidentemente scandiva il ritmo. Ad attestare l’uso della musica nella preparazione dei pasti abbiamo gli affreschi della cosiddetta Tomba Golini di Orvieto: sul muro di ingresso è dipinto un bue squartato, appeso per le zampe a una trave e con la testa staccata e appoggiata a terra, mentre poco lontano penzolano una lepre, una cerva e coppie di volatili. Un macellaio è intento a tranciare la carne con una mannaia e un altro servo, assistito da un flautista che gli sta dietro a dargli il tempo, frantuma qualcosa in un mortaio con le mani protette da due guantoni: deve trattarsi di uno di quei piatti elaborati, a base di pesce e di arrosto di maiale, alle spezie e al rosmarino, per cui gli Etruschi andavano pazzi.
I BANCHETTI ETRUSCHI
I banchetti erano il momento culminante della giornata degli Etruschi, che scandalizzavano i loro contemporanei per l’abitudine di pranzare lussuosamente due volte al giorno. Scrive infatti Posidonio, filosofo greco del II secolo a.C.: “Poiché risiedono in una terra fertile di frutti di ogni sorta, che diligentemente coltivano, godono di un’abbondanza di prodotti agricoli che non soltanto bastano al loro mantenimento, ma li spingono a un lusso eccessivo e alla mollezza. Si fanno apparecchiare due volte al giorno tavole sontuose, con tovaglie ricamate a fiori e molti vasi d’argento, e si fanno servire da un nugolo di servi abbigliati con vesti più ricche di quanto sì convenga allo stato servile”.
Le lastre di terracotta che adornavano le case, i bassorilievi delle urne funerarie e le pitture tombali ci hanno tramandato decine di immagini dei banchetti etruschi: a Tarquinia la Tomba delle Leonesse e quella dei Leopardi mostrano, su uno sfondo di alberi e giardini, uomini e donne sdraiati insieme su triclini conviviali, mentre brindano assistiti da numerosi servi, davanti a tavole apparecchiate con coppe, brocche e tazze di bronzo, argento o ceramica. Gli uomini vestono tuniche leggere ricamate e ai piedi indossano i celebri calcei repandi, che gli Etruschi esportavano fino in Grecia: una sorta di polacchine molto alte dietro e con la punta ricurva sul davanti. Le donne ingioiellate, avvolte in leggeri abiti variopinti, coi capelli arricciati, talvolta coperti dal classico copricapo a cono chiamato “tutulus”, scherzano con i loro cavalieri o giocano al “cottabos”, un gioco consistente nel colpire un bersaglio lanciando il vino dalla coppa.
Intorno a loro si danza: danzano tra gli alberelli dei personaggi maschili nella cosiddetta Tomba della Caccia e della Pesca, danza sfrenatamente tra i flautisti e le cetre una coppia di ballerini nella Tomba delle Leonesse, mentre nella Tomba del Triclinio anche i suonatori accennano passi di danza.
I GIOCHI DEGLI ETRUSCHI
Spesso compaiono dei giocolieri: nella tomba che da essi prende il nome è raffigurata un’equilibrista in vesti sontuose che regge sul capo un candelabro verso il quale un giovane sta lanciando degli anelli. Del resto i giochi, spesso funebri, erano insieme ai banchetti, l’altra grande passione degli Etruschi. Per assistere alle gare atletiche essi non avevano teatri stabili: nella cosiddetta Tomba delle Bighe, del IV secolo a.C., compare una tribuna di legno retta da armature sulla quale prendono posto gli spettatori, davanti alla quale sfilano i carri e gi esibiscono lottatori, pugili, corridori ed i saltatori.
La cosiddetta Tomba delle Olimpiadi mostra un programma completo dei giochi etruschi e la scena drammatica di una corsa di bighe nella campagna: un auriga si è rovesciato, i cavalli scalciano all’aria mentre alcune donne urlano.
Talvolta i giochi sono cruenti come quello del Phersu, raffigurato anch’esso nella Tomba delle Olimpiadi: qui un uomo, forse un condannato a morte, vestito di un solo perizoma e con la testa avvolta in un sacco, combatte alla cieca armato di una mazza contro un mastino che lo ha già colpito in più parti. Secondo gli storici questo gioco, derivato dall’antica tradizione etrusca di uccidere i nemici vinti, ispirò ai Romani le gare dei gladiatori. Compare talvolta nelle scene un giudice mascherato che ha sempre un nome scritto vicino: Phersu. Questo nome divenne in latino “persona”, cioè maschera, e sembra essere alle origini del teatro italico.
LE FAMIGLIE ETRUSCHE
Sia ai giochi sta ai banchetti, dove stavano sdraiate insieme agli uomini, partecipavano in Etruria anche le donne: questa usanza, diversa dalle abitudini dei Greci e dei Romani, presso i quali le donne erano piuttosto segregate, scatenò la malignità degli storici antichi e perfino Plauto, nella Cistellaria, afferma che le Etrusche si facevano la dote prostituendosi. Ancor più dure le parole di Teopompo, loquace ed un po’ inattendibile scrittore della metà del IV secolo a.C.: “Presso i Tirreni le donne sono tenute in comune, hanno molta cura del loro corpo e si presentano nude spesso fra gli uomini, talora fra di esse, in quanto non è disdicevole mostrarsi nude. Stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono forti bevitrici e molto belle da vedere. I Tirreni allevano tutti i bambini, ignorando chi sia il padre di ciascuno di essi. Non è riprovevole per i Tirreni essere visti abbandonarsi in pubblico ad atti sessuali. Sono tanto alieni dal considerare vergognosa questa condotta che quando il padrone di casa sta facendo all’amore e si chiede di lui, i servi danno impudicamente a tal genere di occupazione il suo vero nome”.
In realtà le coppie scolpite sui sarcofagi (splendido il Sarcofago degli Sposi esposto presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia) e la struttura stessa delle tombe familiari testimoniano una società con matrimoni solidi e discendenze ben certe. È altrettanto certo però che in Etruria le donne avessero una posizione sociale più importante e meglio consolidata che in Grecia e a Roma. Le donne infatti partecipavano a banchetti e spettacoli insieme agli uomini e spesso davano anche il loro nome ai figli; potevano persino intervenire nelle decisioni politiche, come fece la moglie di Tarquinio Prisco, Tanaquilla, che guidò il marito fino al trono di Roma.
Le donne etrusche dovevano avere anche una certa autonomia economica se, ancora nel VII secolo, nella Tomba Regolini Galassi di Caere, la stanza principale era dedicata a una donna, Larthia, che vi fu sepolta coperta di gioielli. Molti vasi d’argento rinvenuti in vari luoghi erano forse la dote delle ragazze, perché portano incisi nomi di donna, e un’altra donna, Culni, fu sepolta sempre a Cerveteri con una collezione di 150 vasi attici che ne rivelano la buona cultura.
Della disponibilità economica delle donne etrusche parlano anche i loro corredi personali, a partire dalle vesti di lino ricamato o di lana di Mileto: l’uso di tale stoffa, secondo il siciliano Timeo, contraddistingueva i popoli più corrotti ed edonisti, come i Sibariti, che erano fornitori agli Etruschi di questi prodotti di lusso.
L’ARTE ETRUSCA
Giustamente celebre è l’oreficeria etrusca: le fibule, le collane, i bracciali a filigrana d’oro e a granulazione sono il prodotto di una tecnica mirabile al servizio di notevoli capitali. Erano prodotti per le donne anche i pettini scolpiti in avorio, gli specchi di bronzo abbelliti da incisioni di artisti geniali, le ciste (piene di strigili, alabastri e anforette per unguenti) che, sbalzate a rilievo e accuratamente rifinite, sono di per sé oggetti d’arte, come la Cista Ficoroni prodotta a Preneste ed esposta oggi presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Ed è proprio qui, nel mettere l’arte al servizio di tanti oggetti di uso quotidiano che poi venivano destinati alle tombe, nel privilegiare un altissimo artigianato piuttosto che la ricerca innovativa dei Greci, che si riconferma l’originalità dell’etica etrusca, tutta incentrata sulla qualità della vita individuale che si sperava di prolungare oltre la morte.
In realtà era proprio quello che temevano: le rivelazioni dei Libri Fatales attribuivano alla loro nazione dieci secoli di vita di lunghezza variabile e il chiodo che ogni anno piantavano nel tempio della dea Northia, a Volsinii, scandiva per loro l’implacabile passare del tempo. Non potevano fare nulla per fermarlo, perché erano ossessivamente convinti dell’esistenza di un Fato immutabile, che inflessibile regolasse il corso della vita e della storia: così essi correvano consapevoli verso la loro fine, amando disperatamente la vita ed i piaceri ad essa connessi, dall’arte al cibo.
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