IL PROCESSO A SCIPIONE
Nel 183 a.C., lo stesso anno in cui Annibale, braccato dai sicari romani, si toglieva la vita in Bitinia, Scipione l’Africano, colui che era stato per quasi vent’anni l’uomo più potente di Roma, moriva nella sua villa di Literno, una piccola città di provincia dove si era ritirato travolto da un colossale scandalo politico e giudiziario.
Ritenendosi ingiustamente perseguitato dai concittadini, aveva ordinato ai suoi di non tumulare il suo cadavere in patria, in quella tomba di famiglia, il Sepolcro degli Scipioni tuttora visitabile, che raccoglieva le glorie della più grande casata della Roma repubblicana.
La serie dei procedimenti di accusa che stroncò la potenza politica di Publio Cornelio Scipione detto “Africano” (e di suo fratello Lucio, soprannominato “Asiatico”) aveva avuto origine nella lotta tra due gruppi all’interno del Senato. Non si trattava di veri e propri partiti, ma piuttosto delle élites di potere, la cui base politica era costituita da vasti strati clientelari in Roma e nel resto d’Italia. Lo scontro tra le fazioni era senza esclusione di colpi: le armi preferite erano lo scandalo, il processo, la calunnia. Sebbene infatti lo storico Polibio giudicasse onesti gli uomini politici romani al confronto dei greci, la situazione nella Città Eterna assumeva talvolta risvolti imbarazzanti, tanto che si scriveva che “chi ruba a un cittadino termina i suoi giorni in catene, chi ruba allo Stato li termina nell’oro e nella porpora”.
Poiché molti cominciavano ad avere qualcosa da nascondere, era facile trovare materia per trascinare un avversario politico in tribunale. Più problematico era ottenerne la condanna, ma questo contava meno, poichè la cosa più importante era gettare fango e discredito sui propri avversari. Sia nei tribunali sia nei giudizi davanti al popolo entravano quindi in moto complessi meccanismi, fatti di protezioni, amicizie e scambi di favori.
SCIPIONE CONTRO CATONE
Publio e Lucio erano molto diversi: quest’ultimo, infatti, era un uomo di paglia cresciuto all’ombra del fratello. Entrambi però erano a capo dell’ala aristocratica e progressista del Senato, gruppo decisamente non omogeneo perché, radunando gli elementi più in vista della nobiltà, poteva prestarsi a spaccature interne dettate da invidia e gelosie personali. È indubbio, per esempio, che Tito Quinzio Flaminino e suo fratello Lucio, i vincitori della Macedonia, pur perseguendo la stessa politica degli Scipioni, certamente non avrebbero considerato un dramma l’indebolimento del prestigio di questi ultimi.
Al gruppo progressista si contrapponeva una fazione grettamente conservatrice, guidata da un uomo energico e non privo di un rude fascino contadino, privo di tradizioni familiari, dotato di una salute di ferro (morì alla veneranda età di 86 anni) e fermamente deciso a fare carriera speculando sulla morale e sulla difesa dell’ordine pubblico: Marco Porcio Catone.
L’urto tra i due partiti si tradusse ben presto in uno scontro personale” tra questi due personaggi: Scipione e Catone. Essi erano agli antipodi in tutto, rappresentando letteralmente due differenti concezioni della vita: anche il fisico, le tradizioni familiari, il modo di parlare e di comportarsi in pubblico li distinguevano nettamente.
PUBLIO CORNELIO SCIPIONE
Scipione usciva da una famiglia antichissima che vantava uomini di primo piano nella politica fin dall’inizio del IV secolo a.C.
Suo padre e suo zio erano stati tra i più abili e più sfortunati generali della Seconda Guerra Punica: essi avevano assicurato a Roma la supremazia nella Penisola Iberica, ma la loro opera era stata vanificata da un’improvvisa serie di insuccessi e dalla morte quasi contemporanea, in seguito alla quale tutte le basi prima conquistate avevano dovuto essere abbandonate.
Poiché il possesso della Spagna e delle sue miniere era indispensabile per i Romani, il comando fu trasferito all’unico uomo che sembrava allora capace e disposto ad assumerne l’enorme responsabilità, ossia a Publio: un giovane di venticinque anni, di bell’aspetto, fluente di chioma e di parole, capace di presentarsi al popolo, in tutti i suoi comizi, avvolto da un’aura quasi divina. Questi elementi sono della massima importanza per comprendere la figura di Scipione e la svolta che con lui si operò nella società e nella cultura romana: innanzitutto, per la prima volta si attribuì allora un comando militare, detto imperium, a un personaggio che non aveva compiuto una regolare carriera.
Ai tempi della Roma Repubblicana, l’elezione e l’investitura del magistrato fornito di imperium era un atto sacrale, regolato fin nei minimi particolari, che doveva trasferire ad una singola persona la forza congiunta della collettività e dei suoi dèi. È facile immaginare quanto di rivoluzionario ci fosse nell’idea di attribuire al giovane Scipione un imperium pari a quello di un console, senza che egli avesse né l’età né alle spalle una carriera che lo legittimasse a questo. Di fronte a questo giovanotto, i Romani accettavano l’idea che un uomo, per le sue qualità e per la speciale protezione degli dèi, fosse predestinato ad esercitare il comando.
Lo storico Livio afferma che Scipione non era soltanto mirabile per effettive virtù, ma anche per abilità di ostentarle con profitto fino dalla prima giovinezza. Spesso accreditava presso le masse e nell’esercito la voce di visioni notturne o di ispirazioni improvvise degli dei, in modo che i suoi piani e i suoi comandi fossero eseguiti senza esitazione come provenienti da un oracolo. Fin dai sedici anni aveva preso l’abitudine di non intraprendere alcuna azione, pubblica o privata, senza prima essere entrato nel Tempio di Giove Capitolino ed esservisi trattenuto da solo per qualche tempo: in tal modo, con notevole arguzia e strategica lungimiranza, iniziò a far circolare per le strade di Roma la voce di una sua particolare intimità col dio.
Si era persino divulgata la fama che fosse stato generato per intervento di un serpente divino, come si diceva anche di Alessandro Magno. Scipione non fu quindi soltanto un precursore di Silla, di Cesare e di Augusto, ma anche il primo erede occidentale del mito di Alessandro. Forte di questi auspici, in meno di otto anni Scipione capovolse le sorti della seconda guerra punica e trionfò a Zama su Annibale, uomo forse più geniale di lui e con il quale sempre mantenne una sorta di stima personale.
Quando, nel 201 a.C., Publio Cornelio Scipione tornò a Roma per celebrare il trionfo conducendo dietro il suo cocchio il vecchio re Siface in catene, egli era certamente l’uomo più potente di Roma e Roma era lo Stato più potente del Mediterraneo.
MARCO PORCIO CATONE
Catone era quello che i Romani chiamavano un homo novus: la sua famiglia non aveva infatti tradizioni antiche e veniva da una cittadina di provincia. Era tarchiato e robusto, capelli rossi ed occhi azzurri, certamente non di bell’aspetto, tanto che i suoi detrattori lo definivano “talmente brutto che non lo avrebbero accolto nemmeno nell’Ade”.
In politica, Catone si fece strada grazie all’abilità oratoria, semplice e secca. Cominciò perorando cause nei tribunali dei villaggi, senza farsi pagare, in modo da creare nei clienti obblighi di gratitudine. In tal modo riuscì ad acquistarsi la protezione del nobile romano Valerio Flacco, che in Sabina possedeva terre confinanti con le sue. Fu proprio Flacco ad introdurlo nei circoli politici e forensi dell’Urbe, facendolo eleggere alle prime cariche, dapprima come ufficiale dell’esercito e quindi come questore.
Fu nel 204 a.C., secondo Plutarco, che Catone si associò all’opposizione conservatrice partecipando a una denuncia contro la gestione finanziaria della spedizione africana da parte di Scipione. Si rimproverava a quest’ultimo di circondarsi di una corte di amici, artisti e intellettuali alla maniera dei sovrani ellenistici, di frequentare palestre e spettacoli e di distribuire troppi soldi ai militari di truppa. Scipione, che si trovava ancora in Sicilia, fu però prosciolto in istruttoria e poté salpare per l’Africa dove, due anni dopo, sbaragliò definitivamente i Cartaginesi.
A dispetto dei natali più umili, però, non si deve pensare che Catone fosse incapace di fare propaganda a se stesso. Catone curava infatti la propria immagine pubblica con un senso di autopromozione non meno sviluppato di quello di Scipione: semplicemente, egli si indirizzava verso ambienti diversi. Tutti i suoi detti famosi vennero coniati per colpire la mentalità di un ceto medio contadino e piccolo borghese. Ostentava vestiti semplici e poco costosi, diceva di aver sempre bevuto lo stesso vino e mangiato lo stesso pane dei suoi schiavi; mostrava disprezzo per la cultura se non nelle forme più tradizionali e obsolete, si disinteressava delle opere d’arte e ne ordinava la vendita immediata se ne riceveva in regalo o in eredità; pur conoscendo il greco, fingeva di non saperlo parlare e si serviva di interpreti. Una delle sue frasi preferite era: “il fattore non deve saperla più lunga del padrone”.
Non doveva essere molto semplice avere a che fare con lui. Catone era un misogino e ostentava perbenismo: una volta affermò di essersi pentito solo tre volte nella sua vita, una delle quali per aver confidato un segreto a sua moglie, ed arrivò persino a radiare dalla Curia un senatore colpevole di aver abbracciato la moglie in presenza della figlia. Durante la sua censura dimostrò una grande severità contro gli uomini d’affari e gli appaltatori; tuttavia, nella vita privata si diede con gran foga a guadagnare quanto più denaro possibile, ed era noto per l’abilità delle speculazioni, che metteva in atto tramite prestanome, in quanto vietate per legge ai senatori.
Nella vita politica diede prova di onestà individuale, ma fu un campione di partigianeria. La sua azione non riuscì ad arginare il malcostume perché non voleva colpirlo alla base ma solo nelle manifestazioni esteriori: tipiche furono le sue leggi contro il lusso e i gioielli delle donne, che si rivelarono come molto fumo e poco arrosto. Tutta la sua opera di riforme era guidata dal più retrivo moralismo e indirizzata contro singole persone per invidia, opportunismo e rivalità personali, ma era del tutto priva di un disegno politico unitario.
Anche in politica dichiarò guerra alla corruzione in nome dei costumi del buon tempo antico, ma si ha l’impressione che questa guerra tendesse più a suscitare consensi in un ceto medio egoista e culturalmente arretrato che a colpire realmente la corrotta struttura oligarchica dello Stato. Le malelingue dissero che quella di Catone non fosse una lotta ideologica, ma una tenzone privata nata dall’invidia che in lui suscitava il senso di inferiorità del campagnolo di fronte alla signorilità di uno Scipione o di un Flaminino.
Per comprendere al meglio la situazione, Catone fu probabilmente un uomo che predicò bene e razzolò male (o quantomeno, non all’altezza della predica). Verso la fine della sua vita, il nemico principale di Scipione e di Flaminino diventò il principale sostenitore dello strangolamento di Cartagine; l’implacabile accusatore dei nobili e della loro corruzione divenne il bersaglio dei moralisti di turno e degli avversari politici, arrivando ad assurgere a vittima della stessa raffinata tecnica di “massacro mediatico” da lui stesso perfezionata parecchio tempo prima. Non per altro, fu condotto in tribunale almeno cinquanta volte, riuscendo spesso ad evitare la condanna per il rotto della cuffia.
I CONTRASTI FRA SCIPIONE E CATONE
L’opposizione dei conservatori, allora capeggiati da Quinto Fabio Massimo, contro Scipione risale addirittura ad un periodo precedente alla vittoria su Annibale. La battaglia di Zama e il trionfo assicurarono a Scipione una popolarità immensa e un primato quasi senza contrasti, così saldamente fondato che ci vollero quindici anni di sforzi per scalzarlo. Tuttavia i contrasti iniziarono fin da subito, accentuati dal fatto che Scipione, grande generale e uomo di ampie vedute, non fosse un politico furbo e adatto alla schermaglia quotidiana.
Quali furono, nel dettaglio, i motivi immediati che alienarono a Scipione l’animo di una parte della sua base politica?
Il ceto medio romano, contadini e piccoli proprietari terrieri, desiderava, dopo la vittoria su Cartagine, ampliare i domini in Italia e non essere coinvolto in nuove guerre per poter sfruttare finalmente la supremazia conquistata nella penisola. Questo voleva dire, in sostanza, mantenere rigidamente le differenze di diritti tra i Romani e gli alleati latini e italici: in soldoni, equivaleva a riservare solo ai primi i vantaggi della vittoria, spadroneggiare sui confederati ed opprimere le città che, volenti o nolenti, si erano schierate con Annibale. Tutto ciò comportava una violenta opposizione a ogni fermento culturale nuovo, il rifiuto totale della cultura ellenica, che ormai investiva da ogni lato il Paese.
I conservatori pescavano al fondo degli istinti di difesa del corpo sociale. L’indirizzo politico che Scipione e il suo gruppo avevano impresso allo Stato contrastava con gli interessi degli agrari. Non solo essi erano più liberali verso i latini e gli italici e rispettosi degli antichi trattati federali, ma avevano spinto Roma a impegnarsi militarmente in Oriente, dove, proprio in quegli anni, veniva meno l’equilibrio di forze tra i tre Stati maggiori: Egitto, Siria e Macedonia.
Il disegno di Scipione non era in realtà di realizzare conquiste territoriali, ma di trasformare Roma nella potenza egemone del Mediterraneo, facendone uno Stato di tipo ellenistico garante di un nuovo equilibrio. Tutto ciò, come dimostrarono i fatti, era pura utopia, ma a ciò Scipione e Flaminino credevano probabilmente con corposa ingenuità. La libertà dei greci e l’equilibrio in Asia durarono pochi decenni e la conseguenza di questa politica imperialista, che in seguito e con caratteristiche ben più dure fu fatta propria anche dai conservatori, fu un’enorme espansione dei domini territoriali di Roma.
La politica di Scipione favoriva inoltre le nuove classi mercantili e borghesi e minava alla base tutta la vecchia tradizione romana. Negli anni tra il 200 e il 190 a.C. la scena politica fu dominata, quasi senza contrasto, da Scipione e dal suo entourage. Nel 199 a.C. Scipione diviene censore, la più alta carica dello Stato, che si ricopre ogni cinque anni, insieme con un collega dello stesso partito: Publio Elio Peto. Costui lo nomina Principe del Senato, ossia in pratica presidente del massimo organo consultivo, carica alla quale viene confermato per tre lustri, fino al 184 a.C.
L’ambizione di Scipione sarebbe stata quella di monopolizzare nelle sue mani i comandi delle varie guerre in Grecia e in Oriente, ma, questo non gli venne concesso nemmeno dalla sua cerchia di alleati, che erano gelosi del suo strapotere. Scipione non riuscì, quindi, ad impedire che nel 198 a.C. il comando della guerra in Grecia venisse affidato ad uno dei più brillanti esponenti dell’aristocrazia, Tito Quinto Flaminino, il quale, piegata la Macedonia, rientrò in patria celebrando un trionfo che, per ricchezza, oscurò persino quello di Scipione su Cartagine.
LA GUERRA CONTRO ANTIOCO
Altro scacco politico, decisamente più grave, fu l’elezione al consolato nel 195 a.C. dei capi del partito conservatore, Catone e Flacco. Catone andò immediatamente a combattere in Spagna, senza perdere occasione per celebrare il proprio operato, desideroso di ottenere una gloria militare da contrapporre a quella di Scipione.
Nel frattempo si avvicinavano le probabilità di una guerra contro Antioco di Siria, guerra voluta da Scipione e dal suo partito. Scipione riuscì a farsi eleggere console per il 194 a.C., anno in cui in tutte le più alte magistrature figurano suoi partigiani, ma a dispetto dell’avere tutti i tasselli giusti al posto giusto, egli non riuscì ad attuare i suoi piani: il Senato infatti esitò, e non volle (per paura di avvantaggiarlo troppo in caso di un secondo trionfo) assegnargli il comando in Grecia, dove nel frattempo Antioco aveva già iniziato delle piccole ostilità. Così l’anno del consolato finisce per passare inerte e, per legge, dovranno trascorrere dieci anni prima di una rielezione alla stessa Carica, a meno che non si presentino situazioni eccezionali.
Tuttavia Scipione continuò a piazzare i propri uomini nei posti principali: alle elezioni del 191 a.C. vennero eletti consoli il cugino dell’Africano, Scipione Nasica, e Manlio Acilio Glabrione, un fedelissimo del suo partito. A quest’ultimo toccò, per sorteggio, il comando della guerra in Grecia contro Antioco. A Roma era a tutti evidente che la guerra avrebbe avuto grandi ripercussioni sulla politica interna: per questo motivo, i conservatori riuscirono a far entrare nello “stato maggiore del Console”, con il palese incarico di spiarne la condotta, i loro principali e sponenti, ossia proprio Flacco e Catone.
L’esercito comandato da Acilio Glabrione colse una decisiva vittoria contro Antioco alle Termopili, dove fu però il contingente agli ordini di Catone a distinguersi particolarmente. L’incarico di portare a Roma la notizia fu dato a Catone e a Lucio Scipione che si trovava, lui pure, nello stato maggiore di Acilio. Tuttavia Catone riuscì a battere sul tempo Lucio, attardatosi nell’isola di Delo per compiere sacrifici ad Apollo, e arrivò per primo a Roma arrogandosi il merito della vittoria e conquistando grande popolarità.
L’anno dopo, la guerra doveva essere continuata in Oriente, e Scipione evitò di chiedere il comando direttamente, ma mise avanti il fratello: in tal modo, Lucio venne eletto al consolato per l’anno 190 a.C., permettendo ai due fratelli di trasferirsi assieme in Grecia con l’esercito.
IL DECLINO DI SCIPIONE
L’anno che doveva segnare il culmine del potere e della gloria di Scipione segnò invece l’inizio del suo inesorabile declino.
In quel periodo, avanzando nell’età e in cattiva salute, Publio aveva perso parecchio del suo smalto: invecchiava precocemente e, come spesso accade a coloro che fanno del carisma un’arma micidiale, egli aveva bisogno dello splendore della giovinezza per esercitare il suo fascino.
L’origine della crisi non fu una condotta inabile della guerra, che anzi fu vinta rapidamente e con minime perdite, ma una serie di trattative semiufficiali in cui Scipione fu invischiato da Antioco di Siria. Costui, sconfitto per mare ma favorito dal fatto che il figlio di Publio fosse caduto nelle sue mani, tentò di intavolare trattative di pace, ed inviò l’ambasciatore bizantino Eraclide con una serie di proposte da fare agli Scipioni, alcune pubblicamente ed altre da sottoporre privatamente a Publio, riconosciuto in modo implicito come un monarca. Secondo quanto dichiarano le fonti, si trattava della restituzione del figlio senza alcun riscatto, di un’enorme somma di denaro e perfino della partecipazione personale di Scipione alle rendite del regno di Siria. Publio respinse tali proposte e si dichiarò disposto ad accettare solo la restituzione del figlio, che egli avrebbe ripagato col consiglio di astenersi dalla guerra.
Il proseguimento delle ostilità dimostra che le trattative non approdarono a nulla. Mentre l’esercito romano proseguiva l’avanzata, il malato Scipione dovette fermarsi a Elea in attesa di ristabilirsi; esattamente a questo punto, Antioco si giocò l’asso nella manica, restituendogli il figlio senza riscatto. A questo gesto Scipione rispose facendo recapitare ad Antioco il consiglio di ritirarsi e di non accettare battaglia fin quando lo stesso Scipione non si fosse ristabilito e fosse tornato nel campo romano.
Questo consiglio viene oggi interpretato dagli storici in modo univoco: Scipione intendeva rendersi utile ad Antioco garantendo la sua incolumità personale e quella della sua famiglia, nonché un trattamento di riguardo, pari a quello che era stato usato a suo figlio. Tutto ciò corrispondeva al programma e alla disposizione di spirito dell’aristocrazia cui appartenevano Scipione e Flaminino: magnanimità verso i vinti, specialmente se greci o di cultura greca.
Scesi in campo gli eserciti, Antioco venne sconfitto nella Battaglia di Magnesia, dopo la quale fu costretto a chiedere nuovamente la pace. Gli Scipioni risposero di non voler gravare la mano sui vinti e riproposero le stesse condizioni di pace già offerte in precedenza, dimostrando in tal modo di perseguire esclusivamente quello che era il loro obiettivo fin dall’inizio: un nuovo assetto politico dell’Asia che ridimensionasse Antioco senza indebolirlo troppo.
L’INSURREZIONE DI CATONE
Tuttavia, a questo punto, i conservatori insorsero. Già prima della battaglia di Magnesia, Catone era riuscito, facendo leva sull’invidia, ad orientare il Senato contro una proroga del comando a Lucio, atto che doveva rappresentare una vera e propria offesa al prestigio degli Scipioni. Catone aveva saputo suscitare il timore che un’ulteriore vittoria avrebbe potuto consolidare in modo eccessivo lo strapotere dei due fratelli.
Quando a Roma si decise di inviare il nuovo console a sostituire Lucio nel comando, la notizia della vittoria di Magnesia non era ancora giunta in Italia: preso in contropiede, il Senato non tornò indietro, decretò a Lucio uno splendido trionfo, ma le condizioni di pace proposte ad Antioco non furono ratificate perché giudicate troppo miti.
Per i due fratelli era una mezza sconfitta. La sostituzione e il rifiuto di accettare l’assetto orientale ispirato da Scipione dimostrano che Catone e il suo gruppo avevano lavorato bene durante l’assenza dei loro rivali. Questi anzi, al loro ritorno, ebbero la sorpresa di trovare che alcuni dei loro più forti alleati politici erano stati moralmente demoliti da Catone, il quale stava creando il vuoto intorno agli Scipioni. Non solo, infatti, era riuscito a ridicolizzare Minucio Termo, reduce da tre anni di guerra e aspirante al trionfo sui Liguri, facendo circolare un libello con un discorso in cui affermava che le vittorie di cui Termo si vantava erano false, esagerate o inventate di sana pianta, ma, cosa ben più importante, arrivò con un clamoroso colpo di scena a impedire che la censura del 189 a.C. andasse per la terza volta consecutiva a uomini di Scipione.
Alle elezioni si erano presentati, per il partito scipioniano, il già citato Nasica, cugino di Publio, e Manlio Acilio Glabrione, il vincitore delle Termopili. Dall’altra parte erano in lizza i soliti Catone e Flacco e, in posizione intermedia, Claudio Marcello e Flaminino, il quale cercava un’affermazione personale che lo mettesse alla pari con Scipione. A Catone premeva non tanto di riuscire eletto, quanto di sbarrare la strada agli amici dell’Africano. Due tribuni conservatori accusarono perciò davanti al popolo Manlio Acilio di aver sottratto una parte della preda di guerra dopo la battaglia delle Termopili. La questione giuridica era semplice: il generale poteva usare il bottino a suo piacimento, ma sempre nell’interesse della collettività: in genere, esso serviva per distribuzioni ai soldati e per la costruzione di opere pubbliche che venivano intitolate al generale vittorioso, con il resto che doveva essere versato all’erario.
Tra i testimoni contro Acilio si presentò lo stesso Catone, vestito da candidato alla censura, e dichiarò di aver visto, nel campo di Antioco espugnato alle Termopili, dei vasi d’oro che non aveva poi rivisto nel trionfo del generale (nel trionfo si era soliti esporre il bottino conquistato) e che non risultavano consegnati all’Erario. L’affermazione era vaga, contrastava con le testimonianze di altri legati ed era resa sospetta dal fatto che Acilio era concorrente di Catone per la censura, ma destò comunque un’enorme impressione.
Acilio dichiarò pubblicamente di ritirare la sua candidatura alle elezioni, offeso dall’ignobile spergiuro del suo avversario. Ottenuto lo scopo, i tribuni lasciarono cadere la denuncia che probabilmente non sarebbero riusciti a dimostrare. In realtà, lo scandalo coinvolse anche Catone, il quale vide compromesse le sue probabilità di riuscita e favorì l’elezione di Flaminino. Moralmente Catone ne usciva male, ma era la prima volta dopo dieci anni che la censura non andava al partito di Scipione.
L’ATTACCO FRONTALE
Per consolidare questo successo si imponeva ora un attacco frontale contro i due fratelli appena tornati dall’Asia: l’occasione fu offerta dalle trattative di pace e dal pagamento dell’indennità di guerra.
Dopo Magnesia, Scipione aveva imposto ad Antioco un’indennità di 15.000 talenti (circa 20 milioni di euro, al valore odierno dell’argento, anche se all’epoca il potere di acquisto era assai maggiore), di cui 500 da versarsi subito, 2500 alla sottoscrizione del trattato di pace ed il resto a rate. I 500 talenti erano stati spesi quasi tutti subito per pagare ai soldati lo stipendio e per altre necessità ma, tornato a Roma, Lucio non si curò di depositare il rendiconto di tale somma, che egli aveva amministrato personalmente e non tramite la magistratura competente.
Catone attese e, nei primi mesi del 187 a.C., fece chiedere in Senato a Lucio i conti relativi. Si ignora la risposta dell’Asiatico, ma si fece avanti l’Africano, il quale aveva ben capito che la manovra era diretta contro di lui, e dichiarò che Lucio aveva sì il libro dei conti, ma non era obbligato a mostrarlo a nessuno. Appare così chiara la matura del conflitto. Per Catone, quel denaro era appartenente allo Stato, avrebbe dovuto essere amministrato dal questore e non dal console e si doveva depositare nell’Erario il giustificativo delle spese; per gli Scipioni, invece, quei 500 talenti andavano considerati come un corrispettivo della tregua concessa ad Antioco, quindi come bottino di guerra, da usarsi a piacimento nell’interesse collettivo, ma senza obbligo di rendiconto.
La risposta dell’Africano aizzò l’opposizione. Allora Publio chiese che fossero portati i registri dei conti e, alla presenza di tutti, li lacerò in pezzi minutissimi, invitando a quel punto i tribuni a cercare in quei frammenti la giustificazione delle spese. Poi, rivoltosi al Senato con tono pungente, chiese come mai si domandassero i conti di quei denari e non si domandasse invece per merito di chi Roma avesse avuto 15.000 talenti da Antioco e il dominio dell’Asia, dell’Africa e della Spagna.
Sebbene tale questione scatenò una grande emozione, si sparse tuttavia nell’Urbe la voce che gli Scipioni fossero restii a rendere i conti del denaro passato per le loro mani, e che avessero insomma qualcosa da nascondere. Catone prese la palla al balzo e portò la questione di fronte ai comizi popolari, dove i conservatori avevano maggiori probabilità di successo. I documenti, ormai, che fossero pro o contro, non c’erano più perché Scipione aveva usato la maniera forte e aveva giocato d’azzardo mettendo la questione sul piano politico: di fronte al popolo, però, si poteva far leva sul rancore per la superbia e il disprezzo dimostrato da Scipione verso la collettività.
IL DECLINO DEGLI SCIPIONI
Lo stesso anno, quindi, un altro tribuno citò Lucio di fronte ai comizi popolari: il tribuno sostenne con violenza l’accusa e propose che l’imputato versasse entro termini stabiliti una cauzione per la somma non rendicontata. L’Asiatico rifiutò di versare la cauzione e quindi il tribuno, come era sua facoltà, fece votare l’arresto preventivo: il fratello del vincitore di Annibale stava per essere portato nello stesso Carcere in cui erano stati rinchiusi i cartaginesi e i numidi che ne avevano seguito, quindici anni prima, il trionfo.
A questo punto restava un’ultima carta da giocare: sperare che il fronte degli accusatori si incrinasse. L’Africano riuscì a salvare in extremis Lucio, pescando nel collegio tribunizio un suo ex ufficiale, Tiberio Sempronio Gracco, il padre dei futuri tribuni rivoluzionari, non legato a Catone. Costui si fece convincere a fare opposizione alla proposta di arresto e pronunciò un lacrimevole discorso. Bastava un’opposizione per bloccare la procedura, e Tiberio ebbe in cambio la mano (e la dote) della figlia di Scipione l’Africano, Cornelia, la madre dei Gracchi.
A questo punto i documenti diventano piuttosto lacunosi: forse il processo continuò, ma è più probabile che i tribuni abbiano desistito dall’accusa. Di certo, a Roma le malelingue cominciarono ad affermare che gli Scipioni, al fine di salvarsi per il rotto della cuffia, avevano dovuto ricorrere a mezzi eccezionali, cosa che evidenziava senza ombra di dubbio la loro colpevolezza.
II prestigio dei due fratelli aveva subito un duro colpo. Lucio cercò di risalire la china dichiarando pubblicamente che durante la campagna in Asia aveva fatto voto di celebrare dei ricchi giochi in caso di vittoria: curioso che se ne fosse ricordato solo ora, ma egli ben sapeva che celebrare giochi votivi di dieci giorni e sollazzare tutta Roma sarebbe stato un buon mezzo per riacquistare popolarità.
Catone fu costretto a stare zitto per tutto il biennio fra il 186 e il 185 a.C., ma intanto si avvicinavano le elezioni censorie per il 184 a.C. e bisognava assolutamente evitare che il gruppo di Scipione si accaparrasse l’importantissima carica. Fu attaccato direttamente Scipione l’Africano: materia di sospetto erano la resa del figlio senza riscatto e le condizioni di pace rinnovate senza alcun aggravio dopo la vittoria di Magnesia. Scipione fu accusato senz’altro di essersi lasciato corrompere, di essersi comportato come un autocrate e, alla fine, di tradimento degli interessi romani.
Publio Cornelio Scipione decise nuovamente di fare appello alla sua superba audacia. Presentatosi, il giorno stabilito, di fronte all’assemblea popolare e udite le accuse del tribuno non si difese ma, con il tono altero e caustico che lo distingueva, rivoltosi alla folla disse pochissime parole, invitandola a non stare ad ascoltare il proprio accusatore.
Quello, dice Livio, fu l’ultimo giorno di gloria per l’Africano: di nuovo egli aveva potuto toccare con mano quanto grande fosse il suo ascendente su una folla che aveva sperimentato il terrore quando Annibale metteva a ferro e a fuoco l’Italia. Tuttavia, Scipione si vide costretto a piegarsi alla legge dello Stato egualitario e a chiedere che la sua innocenza venisse riconosciuta da coloro stessi che egli riteneva debitori a lui della vita e della patria, da quel popolo romano sul quale egli giudicava di avere come un diritto di patronato. La sua superbia gli impedì di fare concessioni alla convenienza politica e abbandonò il campo agli avversari.
Pochi mesi dopo, Catone e Flacco, eletti alla censura, portavano i conservatori al potere e iniziavano una vera e propria repressione: l’Asiatico mancava di nerbo per resistere da solo nella politica e l’Africano si spense l’anno seguente, in crescente amarezza.
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