Stilicone

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STILICONE

Negli anni oscuri di Roma, quando ormai le tracce della decadenza erano ormai prossime, il generale di stirpe barbarica doveva essere ancora uno dei pochi a credere nell’Impero ed a combattere per difenderlo o quantomeno per ritardarne con ogni mezzo il tramonto. La contrastata avventura di Flavio Stilicone durò dal 392 al 408 d.C. e il sogno unitario del condottiero si spense con la sua morte: due anni dopo, infatti, i Goti di Alarico mettevano a ferro e fuoco la capitale, determinando quello che venne dai posteri denominato come il Sacco di Roma.

A Stilicone non avevano perdonato le sue origini. Durante la gestione del potere, prima con Teodosio come capo della Guardia Imperiale e quindi come reggente dell’Impero d’Occidente, il generale dovette sempre guardarsi alle spalle, per sopravvivere ad intrighi e tradimenti. Impietoso con lui è anche l’ultimo grande scrittore pagano, Rutilio Namaziano, che lo bolla con questi versi: “Troppo grave è il delitto dell’infame Stilicone, che tradì il segreto dell’impero. Mentre si affannava a sopravvivere alla stirpe romana, la sua furia crudele sconvolse tutto, attirando le armi barbariche a sterminare l’Italia. Roma era in balìa dei suoi barbari ministri, era prigioniera prima ancora di essere presa”.

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Erano in realtà passati poco più di sette anni dalla morte del grande generale e se le strutture dell’Impero d’Occidente riuscivano ancora a sostenersi alla meglio, lo si doveva almeno in parte alla sua capillare organizzazione. Si potevano infatti vedere dappertutto le opere da lui costruite e leggere ancora le esaltazioni e le lodi non solo di scrittori e poeti come Claudiano, che certo a Stilicone doveva molto, ma che soprattutto in lui aveva giustamente visto l’ultimo baluardo della grandezza e della civiltà di Roma, “la stessa che tu hai preservato dalla fame e dalla guerra e hai fatto di nuovo regina”.

Anche la critica moderna riflette questa discordanza di valutazioni, che si alimenta anche a causa dell’ostilità degli autori cristiani, che videro in Stilicone, il quale a detta loro aveva aperto l’Italia ai barbari pagani, il cospiratore e il traditore per ambizione.

STILICONE E TEODOSIO

Il dramma di Stilicone è però anche e soprattutto il dramma dell’ultimo periodo di crisi imperiale e della definitiva divisione in due dello Stato romano, voluta da Teodosio il Grande. Quando Teodosio morì, infatti, il 17 gennaio 395 d.C., Stilicone ricevette in tutela i suoi due figli: Arcadio e Onorio. Il primo era imperatore d’Oriente, il secondo d’Occidente, proprio mentre i Visigoti di Alarico scendevano nella penisola balcanica e gli Unni facevano sortite sulla costa europea dello stretto dei Dardanelli.

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L’Imperatore defunto non aveva certo fatto una scelta immotivata e frettolosa: aveva affidato al generale barbaro l’impegnativo incarico non tanto perché egli fosse un suo parente, ma soprattutto perché comprendeva quanto fosse salda la sua lealtà alla dinastia e ai giovani cognati. Claudiano, a questo proposito, affermò: “Stilicone non riserbò ai giovani pupilli ricchezze o mucchi d’oro, ma tanto mondo in pegno Quanto ne copre il sole. Con la venerazione che si ha per un padre venerato, governò l’impero secondo le leggi degli avi. In mezzo alle discordie della Corte, per l’incrollabile sua fedeltà perdurarono il rispetto e la sovranità dei due fratelli”.

Stilicone, del resto, era cresciuto all’ombra di Teodosio, che aveva saputo valorizzarne le qualità diplomatiche e militari, considerando mirabile compagno in tutte le guerre e in tutte le vittorie. Figlio di un ufficiale di cavalleria vandalo, che aveva servito sotto l’imperatore Valente, e di madre romana, Stilicone aveva svolto la sua prima missione importante nel 383, in Mesopotamia, sul piano diplomatico. Al suo ritorno l’imperatore Teodosio gli fece sposare Serena, sua nipote e figlia adottiva, e lo iniziò all’attività di generale, nella quale servirà Roma ininterrottamente per quasi venticinque anni.

I PREGI DI STILICONE

Il coraggio e la resistenza alle fatiche di Stilicone erano proverbiali, ed il suo attaccamento all’esercito era forse persino eccessivo: lo si accusava, infatti, di trascurare la moglie e i tre figli (Maria, Termanzia e Eucherio, il preferito). Si raccontava di lui che avesse un’eccezionale insensibilità ai disagi: mentre i suoi luogotenenti, sotto pelli e vicino al fuoco, riuscivano a malapena a resistere alla morsa del gelo balcanico, Stilicone rimaneva ai bordi del campo, incurante del freddo. Se si trovava nei pressi di un fiume gelato, provava ad attraversarlo a cavallo, tutto solo; sui monti innevati della Boemia, era il primo a aprire la strada nella neve e nel ghiaccio.

Tra il 392 e il 394 d.C. combatté in Tracia contro i sostenitori dell’usurpatore delle Gallie, Eugenio: dopo la grande vittoria presso il fiume Frigido, Teodosio lo nominò comandante in capo degli eserciti che operavano dalla Penisola Iberica ai Carpazi e in Africa settentrionale. Flavio Stilicone (che dai suoi soldati fu sempre chiamato familiarmente con nome barbaro “Stilicho”) assurse così al grado militare e civile più alto dello Stato. Il suo inserimento nel sistema imperiale, alla fin fine, era cosciente e totale, senza tentennamenti: lo aiutavano certo il naturale entusiasmo, l’ottimismo, la fede nella grandezza di Roma e la sua adesione integrale al cristianesimo, che gli fece più tardi suggerire, in linea con la politica teodosiana, una severa legislazione penale contro eretici e pagani.

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LE RIFORME DI STILICONE

Nel 395 d.C. Stilicone si trovò, in pratica, padrone dell’Impero d’Occidente. La domanda che sorge spontaneo porsi è però: si poteva ancora parlare di un Impero? L’economia dell’occidente era in pieno disfacimento, le campagne si erano spopolate anche nelle regioni più fertili e più ricche, perché le vessazioni del fisco e le incursioni barbariche spingevano i rurali a trovare asilo in città, mentre i curiali e i membri delle corporazioni artigiane cercavano al contrario di sottrarsi ai pesi loro addossati rifugiandosi nelle campagne più solitarie e appartate, in una disperata lotta per l’esistenza.

Stilicone dovette subito intervenire non solo sul piano militare, ma anche e soprattutto sul piano economico e finanziario, ostacolato dai potenti ministri orientali di Arcadio, che portavano avanti una decisa politica antibarbarica, in continua lotta con l’invidiosa e diffidente corte di Milano e con l’avida aristocrazia arroccata nei suoi munitissimi latifondi.

Stilicone non poté far altro che cercare nelle forze nuove dei barbari cristianizzati l’appoggio alla sua attività di risanamento dello Stato. Il loro inserimento nel potere civile e militare era già stato attuato da Teodosio, che aveva però saputo contenerne le spinte pericolose e insieme frenare le dure reazioni antigermaniche delle popolazioni e delle classi dirigenti. Teodosio era però l’Imperatore, e la sua parola era legge: che un mezzosangue vandalo, per di più sottilmente accusato di usurpazione del potere, volesse fare la stessa cosa era una ben diversa faccenda, che doveva condurlo alla rovina, con le più infamanti insinuazioni e accuse. Stilicone, infatti, stava decisamente attuando una politica favorevole alle tribù germaniche, permettendo non solo il loro stanziamento all’interno dei confini imperiali, ma coinvolgendole nella direzione civile e burocratica, e cooptandole nelle strutture militari a tutti i livelli. Tutto ciò scatenò un profondo malumore nei detentori del potere economico e sociale, che si ritenevano gli unici portatori della civiltà latina.

Inutilmente, Stilicone cercò di legare maggiormente a sé l’imperatore e la sua Corte, facendo sposare nel 398 d.C. la figlia tredicenne, Maria, a Onorio, e operando affinché il prestigio del Senato romano fosse reintegrato totalmente, con concessioni e dichiarazioni pubbliche che sembravano riportate ai tempi d’oro dei padri. Inutilmente cercò di ingraziarsi la benevolenza delle masse cristiane, ispirando una legislazione nettamente filocristiana. Altrettanto inutilmente, poi, si sforzò di alleggerire la pressione fiscale sugli abitanti dell’impero: il provvedimento andò a favore quasi esclusivo dei grandi proprietari terrieri, già agevolati dalla corruzione dilagante.

LE BATTAGLIE DI STILICONE

Infine, senza alcuna speranza di vero successo, si dedicò alla ristrutturazione di un esercito ormai inadeguato ai compiti di difesa dell’Impero.

Il rafforzamento degli organici attraverso leve straordinarie (che per forza di cose si rivolgevano a terre o genti barbare) e l’apporto di milizie mercenarie ebbero come unico effetto quello di accrescere il disinteresse dei cittadini dell’Impero per la difesa delle proprie terre. Stilicone si trovò sempre più solo, sul campo di battaglia e a Corte, con l’unica solidarietà, non sappiamo quanto sincera e consapevole, dell’Imperatore, fragile creatura in mano a miopi cortigiani e alle temibili donne della famiglia.

Mentre si tramava alle sue spalle, intanto, il generale Stilicone si assoggettava a una vita frenetica e stressante.

Nel 395 d.C. fronteggiò con buoni risultati i Visigoti di Alarico in Grecia, venendo poi costretto per volontà di Onorio (ispirato dalla Corte di Costantinopoli, gelosa e impaurita per lo sconfinamento) ad abbandonare l’impresa. Nel 396 d.C. si recò a Milano, per cercare di far rientrare l’ostilità crescente degli alti dignitari, sempre più contrari alla sua ingerenza.

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Immediatamente Stilicone ripartì per la frontiera renana, a rafforzare le difese di confine e riorganizzare le truppe locali, mentre si accentuavano i dissidi con la Corte di Costantinopoli, che arrivò addirittura a dichiararlo “nemico pubblico”, arrivando così a scavare un solco profondissimo tra gli Imperi d’Occidente e d’Oriente.

Stilicone, però, aveva ben altri problemi da risolvere. I rifornimenti di grano e di altri commestibili dall’Africa per l’Italia e Roma erano, infatti, periodicamente bloccati dai ribelli che minacciavano di affamare la penisola. Con una dura campagna, Stilicone riuscì a soffocare la rivolta nel luglio del 398 d.C. e a riordinare anche il traffico commerciale tra i porti africani e Ostia.

Un periodo di tranquillità sembrò presentarsi per l’impero occidentale, nonostante la minacciosa attività nei Balcani dei Visigoti e l’inquietante presenza, alle loro spalle, degli Unni che, muovendosi inarrestabili da est verso ovest, stavano scatenando una serie di reazioni a catena. Nel 400 ottenne addirittura la carica di Console di Roma, con le “Cronache del regime” di Claudiano ad esaltare la relativa prosperità di quegli anni.

Fu però solo un effimero fuoco di paglia, prima dell’insanabile crisi.

STILICONE CONTRO ALARICO

Nell’estate del 401 d.C., infatti, Alarico si spostò coi suoi uomini dalla Grecia e dalla Dalmazia verso l’Italia, dove giunse in autunno. Era l’invasione del popolo germanico più temuto e valoroso dell’epoca, efficiente ed organizzato, guidato da un capo astuto, educato oltretutto in una famiglia ariana romanizzata e addestrato nell’esercito teodosiano: non era la solita minaccia di incursione a scopo di saccheggio.

Il 18 novembre 401 d.C. Alarico superava le Alpi, assediava poi Aquileia e occupava Milano. Si trattò però di una breve conquista: nel febbraio del 402 d.C. Stilicone riusciva a liberare la città, mentre per sicurezza la corte di Onorio venne precipitosamente ma definitivamente trasferita a Ravenna, protetta dalle paludi e con un vicino sbocco al mare. Alarico, inseguito da Stilicone, cercò di prendere Asti, che però gli resistette e gli impedì in pratica di passare le Alpi francesi.

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Finalmente, i due valorosi barbari si trovarono a confronto nel Cuneese, vicino alla fiorente Pollentia. Il 6 aprile 402 d.C. gli eserciti sì fronteggiarono: quello occidentale, con le spalle coperte dal Monte San Vittorio, resse facilmente al primo urto gotico e passò al contrattacco. L’ala destra e il resto dello schieramento barbaro furono facilmente messi in fuga, mentre l’ala sinistra tentò di impegnare l’avversario sul fianco, ma venne rigettata al di là del Tanaro. Senza subire grosse perdite, Stilicone era riuscito a destreggiarsi con abilità in una situazione difficile, ottenendo anzi una parziale vittoria ed un discreto numero di preziosi ostaggi.

Quando Alarico, dopo un infruttuoso quanto dimostrativo tentativo di scendere verso l’Urbe, cercò nell’estate una via d’uscita per le Alpi Retiche, Stilicone lo chiuse a Verona, impedendogli l’uscita per l’Alto Adige. Tenendo conto della superiorità numerica dei Visigoti, tale mossa deve obiettivamente essere considerata un grosso risultato per l’Impero d’Occidente.

LA CADUTA DI STILICONE

Alla fine dell’anno del suo secondo consolato, il 405 d.C., Stilicone si trovò a dover contenere l’invasione del feroce capo goto Radagaiso che, dopo aver saccheggiato l’Alta Italia, aveva stretto d’assedio Firenze. La situazione era indubbiamente critica, con il terrore che serpeggiava in tutta l’Italia centrale e Ravenna che attaccava pesantemente Stilicone, accusato di presunta inerzia; in realtà, lo stesso Stilicone stava adoperando ogni singola stilla di carisma ed esperienza nella riorganizzazione di truppe fresche, facendo leve anche fra schiavi, Vandali e Unni cristianizzati.

Una volta partito al contrattacco, Stilicone costrinse Radagaiso a ritirarsi sui colli di Fiesole, accerchiandolo: la decimazione, la fame e la sete convinsero alla resa i feroci predatori, con i quali Stilicone fu particolarmente spietato, pur non dimenticando di incorporare strategicamente nell’esercito regolare i più forti e valorosi dei prigionieri.

Gli storici affermarono che questa fu l’ultima delle grandi vittorie di Flavio Stilicone. Al generale romano, infatti, restava ormai ben poco spazio di manovra: la reazione anti-germanica si era fatta sempre più accesa e minacciava seriamente la faticosa opera di cucitura delle province occidentali. L’abile mossa del 407 d.C. di nominare Alarico comandante della cavalleria dell’Impero d’Occidente, convincendolo con quattromila libbre d’oro, non fece che peggiorare la situazione, già grave per l’invasione e la devastazione delle Gallie a opera di una coalizione di Vandali, Quadi e Alani e per il continuo sorgere di usurpatori in Britannia.

Risultò quindi facile per la propaganda ravennate insinuare che Stilicone stesse strumentalizzando ai suoi fini i barbari per mettere sul trono il figlioletto Eucherio. Tutta la critica moderna più avveduta è concorde nel ritenere questa diffusissima accusa una calunnia, ma essa ebbe facile presa sui soldati non barbari di stanza a Pavia, che si sentivano trascurati, e forse sullo stesso Onorio.

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Iniziarono, prima in sordina poi apertamente, le ribellioni nella truppa, a Bologna, a Ravenna, a Pavia: era tornato nel frattempo nell’Italia settentrionale Alarico. Per evitare ulteriori stragi tra i soldati del suo esercito, Stilicone raggiunse nell’estate Ravenna per risolvere il problema con l’Imperatore. Costretto a rifugiarsi in una chiesa per evitare una cattura infamante, ne veniva fatto uscire con l’ingannevole promessa d’incolumità, prima di essere decapitato il 22 agosto 408 d.C.

Il processo per alto tradimento che venne subito dopo intentato contro di lui ed ai suoi parenti (Serena ed Eucherio vennero condannati a morte) non portò ad alcun risultato positivo. Con la morte di Stilicone svaniva il sogno di Teodorico: unire Occidente e Oriente, Romani e barbari, cristiani e pagani. Alarico, intanto, per nulla intimorito dalle chiacchiere di Corte, si apprestava alla sua marcia vendicatrice su Roma.

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