La Presa di Roma vista dai Papalini

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LA PRESA DI ROMA VISTA DAI PAPALINI

“La tranquillità delle popolazioni non sarà ingannata. Pio IX nella sua paterna mansuetudine non vuole che scorra del sangue per la difesa del suo trono. Egli non ha voluto privare i difensori della soddisfazione di mostrargli che erano pronti a morire per sostenere i suoi diritti, ma credo di poter assicurare che non permetterà mai che il conflitto si svolga nelle vie di Roma: solo le porte saranno chiuse, e gli Italiani dovranno sfondarle a colpi di cannone per entrare nella capitale del mondo cattolico”.

Così il primo segretario dell’Ambasciata Francese a Roma, Lefebvre de Béhaine (succeduto provvisoriamente nella direzione degli affari all’ambasciatore Banneville, dimissionario dopo il recente crollo dell’Impero), fa il punto della situazione in un rapporto al suo governo, redatto in data 14 settembre 1870, quando le truppe di Vittorio Emanuele marciano ormai da oltre due giorni in territorio pontificio.

LE TRUPPE PONTIFICIE

In tutta onestà, praticamente nessuno a Roma coltiva alcun dubbio sull’intenzione di Pio IX di evitare un inutile spargimento di sangue nel tentativo di difendere gli ultimi brandelli del potere temporale dei Papi. In tal senso, anche mettendo da parte ogni considerazione morale, è il semplice buon senso che sconsiglia qualsiasi idea di resistenza a oltranza, data la sproporzione di forze tra i due eserciti: il generale Cadorna sta infatti marciando su Roma alla testa di sessantamila uomini, mentre le truppe pontificie non arrivano nemmeno a un quarto di questa cifra.

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Le comanda il generale Hermann Kanzler, un tedesco di 48 anni, già ufficiale di cavalleria nel Granducato di Baden, ed entrato nell’esercito pontificio all’avvento di Pio IX. La carriera di Kanzler è stata rapida e brillante: nominato tenente per merito di guerra nel 1848, dieci anni più tardi era già colonnello; fu poi promosso generale dal Lamoricière, che vedeva in lui uno dei suoi più fidati collaboratori nella difesa del territorio papalino. Le forze di cui dispone assommano, in tutto, a circa 13.500 uomini, così ripartiti:

  • un reggimento di tremila zuavi, al comando del colonnello svizzero Allet e del francese tenente colonnello Atanasio de Charette, avente fama di reazionario;
  • un reggimento di 1200 cacciatori, in maggioranza tedeschi, agli ordini dello svizzero Jeannerat;
  • un reggimento di fanteria di linea, formato da 1700 uomini al comando del colonnello romano Azzanesi;
  • un battaglione di 1200 cacciatori ed un reggimento di 570 dragoni, di varia provenienza, agli ordini del colonnello Lepri;
  • un reggimento di più di mille artiglieri, comandati dal colonnello Caimi;
  • 1900 gendarmi pontifici, al seguito del generale Evangelisti, che gestisce anche 160 genieri e 1000 squadriglieri di provincia;
  • la Guardia Nazionale, formata da 550 “palatini” e da più di 400 volontari;
  • 170 uomini della Compagnia Treno;
  • infine, 80 guardie di polizia, 120 guardie di infermeria, 250 guardie di finanza e 100 guardie svizzere.

A questo sparuto esercito il Papa Pio IX domanda una resistenza puramente simbolica: quanto basta, tuttavia, ad attestare davanti all’Europa e al mondo intero che egli non accetta l’occupazione piemontese, ritrovandosi costretto a cedere davanti alla forza.

L’AMBASCERIA DI PONZA DI SAN MARTINO

Questa presa di posizione era apparsa chiara durante la missione del conte Ponza di San Martino, estremo tentativo diplomatico del governo di Firenze per indurre il Pontefice a una pacifica accettazione del colpo di mano ormai deciso; evidentemente il governo di Vittorio Emanuele conservava delle speranze nel successo di questa missione diplomatica, considerato che il 9 settembre il conte veniva ricevuto a Roma dal segretario di Stato Cardinale Antonelli e che il giorno seguente riceveva udienza dal Papa. Ponza di San Martino era latore di una lettera autografa di Vittorio Emanuele, che “con affetto di figlio, con fede di cattolico, con animo di italiano” dichiarava di rivolgersi al cuore di Sua Santità.

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Si trattava di un lungo documento (di cui qualcuno doveva aver probabilmente riveduto l’ortografia, notoriamente il punto debole del Re) in cui il sovrano, dopo avere accennato al “pericolo di agitazioni a tutti evidenti” costituito dalle truppe straniere di stanza nello Stato Pontificio, perorava: “Il caso e l’effervescenza delle passioni possono condurre a violenze e ad una effusione di sangue che è mio e Vostro dovere, Santo Padre, di evitare e di impedire. Io veggo la indeclinabile necessità, per la salvezza dell’Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia dei confini, s’inoltrino ad occupare quelle posizioni che saranno indispensabili per la sicurezza della Vostra Santità e per il mantenimento dell’ordine”.

In altre parole, Vittorio Emanuele si proponeva di sfondare nel Lazio, ma a tutto beneficio del Papato, e se tra le posizioni da occupare per la tutela dell’ordine c’era anche la città di Roma, tale dettaglio doveva considerarsi del tutto marginale e quasi involontario. Ponza di San Martino, dal canto suo, s’incaricò durante l’udienza di agitare lo spauracchio di una sorta di “repubblica rossa”, affermando che se le truppe regie non si fossero mosse, l’azione sarebbe partita dai mazziniani e dai garibaldini i quali, una volta giunti al potere in Roma, non avrebbero certo mostrato per la Santa Sede il rigoroso rispetto professato da Re Vittorio.

Pio IX non mostrò di prendere molto sul serio un’eventualità del genere, anche perché con i Piemontesi era ormai letteralmente furioso. “Siete tutti un sacco di vipere, sepolcri imbiancati e mancatori di fede” disse con astio al povero ambasciatore.

La risposta al messaggio di Vittorio Emanuele fu dettata dal Papa a un amanuense: era breve, dignitosa e triste. La chiusa diceva: “Benedico Iddio, il quale ha sofferto che V.M. riempia di amarezza l’ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella Sua lettera, né aderire ai principi ch’essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V.M. per liberarla da ogni pericolo e renderla partecipe delle misericordie ond’Ella ha bisogno”.

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I GIORNI PRECEDENTI LA BATTAGLIA

Falliti così i tentativi diplomatici, la parola passa alle armi. Tuttavia, nonostante la tesi dei disordini e della “effervescenza delle passioni” sostenuta dagli attaccanti, è difficile immaginare un’atmosfera più tranquilla di quella di Roma e dell’intero Stato Pontificio alla vigilia dell’occupazione. Nella Città Eterna regna la solita sonnolenza. Il medesimo giorno del burrascoso colloquio con il conte Ponza, ossia il 10 settembre 1870, il Papa presenzia alla cerimonia d’inaugurazione della fontana dell’Acqua Pia, sul piazzale della stazione Termini: il Pontefice, secondo la tradizione, beve egli stesso dell’acqua dal bicchiere che gli porge una ragazza, la figlia primogenita del senatore marchese Cavalletti.

Stessa folla nei giorni seguenti, al solenne triduo di preghiere indetto in San Pietro, che ispira ad un osservatore inglese stupefatte considerazioni: “…fui sorpreso alla vista della moltitudine, che trovai a traversare il ponte di Sant’Angelo su carri, carrozze, come pure a piedi: principi romani, borghesi e artigiani, tutti con la famiglia; ecclesiastici e studenti. Il Papa è stato presente ogni giorno senza ostentazione; non ho potuto non essere colpito dalla devozione del popolo lì raccolto, mentre le voci con un solo tono facevano echeggiare attraverso l’edificio le risposte alle litanie dei Santi: Ora pro nobis. C’è, mi sembra, una gran parte di popolo veramente leale al governo…”.

Effettivamente sono molte le voci che, nelle ultime comparse in pubblico di Pio IX, si levano ad acclamarlo e ad implorare che non se ne vada. Pio IX risponde alle grida con un sorriso o un cenno del capo. Quel che è certo è che stavolta non se ne andrà: ha già commesso una volta quell’errore, nel 1848, sotto la spinta dei moti rivoluzionari, e non ha alcuna intenzione di ripeterlo di nuovo.

Nell’imminenza dell’attacco piemontese si sono diffuse in città, filtrando dagli ambienti diplomatici e di Curia, le notizie più fantasiose (una sua ritirata a Malta sotto la scorta di navi marsigliesi, una promessa di protezione da parte del re di Prussia), ma in queste voci non c’è nulla di vero.  Il Papa resterà a Roma. Ultimamente, con accenti drammatici, ha parlato di “discendere nelle catacombe”, drammatizzando i toni, ma è evidente che ogni idea di fuga è esclusa.

Nel medesimo senso si è pronunciato, da Torino, un personaggio molto ascoltato dal Pontefice, il sacerdote Don Giovanni Bosco: “Che la sentinella d’Israele rimanga al suo posto, a guardia della rocca di Dio”.

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LE PRIME SCARAMUCCE

Fin dal 12 settembre, l’unica compagnia di genio papalina lavora a rinforzare le barricate poste a difesa delle mura. L’insolito movimento richiama un viavai di gente, che vuol sincerarsi con i propri occhi della realtà dei preparativi di difesa, a conferma delle voci già diffuse su un’avanzata dell’esercito italiano. Due giorni dopo, nonostante il silenzio dei giornali locali, il generale Cadorna, dopo una passeggiata militare attraverso il Lazio settentrionale, compiuta quasi senza colpo ferire, piazza il proprio Quartier Generale all’Osteria della Storta, a nove miglia dalla città.

Uno squadrone di lancieri di Novara si spinge in perlustrazione fino a Sant’Onofrio, alle falde di Monte Mario, ove si scontra con una compagnia di zuavi: tre di essi rimangono sul terreno, insieme a un sergente italiano fulminato da una fucilata, mentre cinque sono i feriti. È il primo sangue versato alle porte di Roma.

Uno degli ufficiali, il sottotenente Grotti, viene trascinato dal suo cavallo imbizzarrito nel bel mezzo degli zuavi, e scaraventato a terra: mentre la bestia ritorna trottando verso lo squadrone, l’uomo vien fatto prigioniero. Prigionia tutt’altro che angosciosa in verità, considerato che un paio di giorni dopo l’ufficiale viene restituito ai suoi commilitoni, riferendo di essere stato trattato molto bene e persino invitato a pranzo dal generale in capo, Kanzler.

Meglio informati di tutti sono i vetturali, che entrano in città dopo aver visto con i propri occhi le avanguardie italiane alla Storta. Alle domande ansiose dei patrioti, rispondono ottimisticamente che si tratta di “un mijone de sordati”, scendendo poi nei dettagli: “sulla via Cassia ce sta de sentinella un battajone de quelli co le penne. Poveri fiji de madre, quanto li fanno cammin, e loro gnente: alegri come pasque. Daje a cantà e a tirà baci a Roma loro. Figùrete che mò mò me metto a piagne a vede quelle coselline!”.

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In città, frattanto, vien dichiarato lo stato d’assedio. Le autorità invitano i pacifici ed onesti cittadini “a rimanere tranquillamente nelle loro case onde la truppa possa invigilare sui pochi malintenzionati che cercassero di turbare l’ordine”. Sono vietati il porto d’armi e gli assembramenti. Gli ausiliari pontifici, che la gente chiama ciociari per i loro caratteristici costumi contadineschi, perlustrano le vie. Di notte, le pattuglie sono rinforzate dai volontari della riserva, i cosiddetti caccialepri, e da componenti della guardia palatina. Le massaie fanno incetta di provviste, come in previsione di un lungo assedio, ma tutto rimane calmo nella città addormentata, dove solo il passo delle ronde risuona sulle antiche pietre del selciato. Ci si limita a sprangare i portoni, rinforzare i chiavistelli e nascondere denaro e valori in nascondigli di fortuna.

LA BATTAGLIA SI AVVICINA

Il 16 giunge notizia della resa di Civitavecchia a Nino Bixio.

Piazza San Pietro inizia a quel punto ad assumere un aspetto più battagliero: circa quattrocento gendarmi stazionano in permanenza sotto il portico, a sinistra della basilica; le guardie svizzere depongono la tradizionale alabarda cinquecentesca “per prendere un fucilone a scatola che sembra una colubrina”, come osserva divertito nel suo diario il liberale Luigi Palomba.

La signora Kanzler, moglie del comandante in capo, va a visitare le barricate erette in difesa delle porte: i fornici degli archi vengono via via rivestiti di materassi. Questa ricopertura casalinga dovrebbe servire a smorzare e sviare i proiettili nemici. Alla signora Kanzler la sua parte di madrina di guerra piace molto: ella condivide pienamente il punto di vista del marito, il quale per ben due volte (il 15 settembre e il 16 settembre), sollecitato da parlamentari italiani a lasciare libero ingresso alle truppe di Vittorio Emanuele, ha risposto con un netto rifiuto.

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Il 18 settembre incomincia a diffondersi la sensazione che le cose stiano per precipitare. Tutte le case e gli uffici occupati da cittadini stranieri, come pure le loro chiese, espongono le bandiere delle rispettive nazioni, mentre gli ospedali inalberano il vessillo della Croce Rossa. A Palazzo Farnese, dimora dello spodestato re di Napoli, Franceschiello, sventola la bandiera bavarese, in omaggio alla nazionalità di sua moglie, la bellissima e reazionaria Maria Sofia. La coppia reale però non c’è, perché ha lasciato Roma fin dal mese di marzo, e nel palazzo sono presenti soltanto i due fratelli del sovrano, il conte di Bari e il conte di Caserta.

I preparativi di difesa proseguono, sia pure su scala ridotta: due pezzi d’artiglieria, omaggio al Papa del duca di La Rochefoucauld, sono installati a piazza Colonna, e attorno ad essi si accampa una compagnia di zuavi. Altri duecento gendarmi stazionano nel cortile di Montecitorio. Due pezzi d’artiglieria sono piazzati anche al baluardo di Ponte Sant’Angelo. Alle barche viene proibito il transito sul Tevere, mentre ambulanze e vigili del fuoco ricevono l’ordine di tenersi pronti giorno e notte alle chiamate.

Nonostante queste sporadiche (e totalmente inadeguate) velleità di resistenza, l’atmosfera generale della città in questa domenica 18 settembre 1870 è però quella consueta dei giorni di festa: pigra, contemplativa e godereccia. Così la descrive Henry d’Ideville, diplomatico e letterato francese, che abita da lunghi anni nella capitale pontificia: “Il tempo è dolcissimo, la città placida e tranquilla; soltanto qualche preparativo militare, qua e là sui sette colli, fa supporre di vivere in una città investita da un attacco nemico. Le porte di Roma sono chiuse e la gente del popolo, non potendo andarsene nelle orterie di campagna, va a pareggio sul Gianicolo, a godersi lo spettacolo dei sessantamila italiani accampati attorno alle mura. Dall’alto del terrazzo di palazzo Rospigliosi vedo avvicinarsi per la via Latina e la via Appia lunghe colonne di fanteria che si preparano ad assalirci da Porta Maggiore e da Porta San Giovanni; molti cannoni sono già in batteria alla confluenza del Tevere e del Teverone, e già ieri da Villa Medici avevo assistito al passaggio del Tevere, a monte di Ponte Molle, d’una divisione di fanteria, che ora è accampata tra Porta Salaria e Porta Pia. Dicono che il quartier generale di Cadorna sia a Villa Spada. Dalla parte dei pontifici ci si prepara alla difesa; i pochi cannoni della guarnigione sono piazzati al Pincio, sull’Aventino, al Gianicolo e al Castro Pretorio; ma non si potrà resistere a lungo, disponiamo appena di otto o novemila uomini per difendere l’immenso perimetro delle mura di Roma: impossibile presidiare tutti i punti suscettibili d’essere investiti da sessantamila uomini dotati d’una potente artiglieria. Ci avviamo alla conclusione, non passerà domani che saremo attaccati”.

LE ULTIME 24 ORE

Al contrario di quanto previsto da Henry d’Ideville, l’indomani non succede niente. Cadorna, infatti, non ha ancora ultimato i preparativi d’attacco, e inoltre vi è stata un’ultima iniziativa diplomatica da parte dell’ambasciatore di Prussia presso Pio IX, il barone Harry Arnim von Suchow, il quale, recandosi in persona presso il comandante in capo degli Italiani, lo ha pregato di attendere ancora un giorno.

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Arnim, forte del proprio spirito intraprendente, non dispera di potere indurre il Papa a quella accettazione pacifica dell’ingresso di Cadorna che coronerebbe i voti di tutti gli Italiani. Secondo lui la decisione di resistere si deve alla pressione esercitata dai militari: il Papa ed i politici della Curia avrebbero invece una visione più realistica della situazione, ed egli non dispera di indurli ad un compromesso.

Il Consiglio dei Ministri, che sembra mostrare un pizzico di fiducia circa questo ultimo tentativo, discute se, in caso di successo della missione, Cadorna debba astenersi dall’entrare nella capitale pontificia. Prevale in ogni caso la decisione di impadronirsi di Roma con la forza, e comunque le lodevoli iniziative di Arnim naufragano in un totale fallimento: ricevuto a colloquio il giorno 19 settembre, si scontra con un diniego talmente deciso da inviare a Cadorna il messaggio “il passo non è riuscito, non mi rimane che rendervi la vostra parola”.

Il medesimo giorno, 19 settembre, Pio IX ribadisce la determinazione alla resistenza con una lettera al generale Kanzler, significativa perché vi si precisano i limiti che questa resistenza dovrà avere. Infatti, dopo aver dichiarato che sta per compiersi “un gran sacrilegio e la più enorme ingiustizia”, il Pontefice ordina al comandante in capo della difesa di Roma di “aprire trattative per la resa non appena sia stata aperta una breccia nelle mura”, in modo da evitare un inutile spargimento di sangue. L’esempio terribile delle stragi che si stanno compiendo tra Francesi e Prussiani, in quel preciso momento, sulla via di Parigi, sta davanti agli occhi del Papa: non a caso infatti la lettera accenna alle “vittime numerosissime, conseguenza d’una guerra tra due grandi nazioni”. A nessun costo si dovrà ripetere qualcosa di simile in Roma.

In quella giornata, mentre echeggiano da Porta San Lorenzo isolati colpi di cannone ed un’eco di fucileria dalle mura accompagna la vita cittadina, Pio IX compie la sua ultima uscita in pubblico, recandosi alla Scala Santa, nei pressi della basilica di San Giovanni in Laterano. Sale in ginocchio, aiutato da due monsignori della Curia, i ventotto gradini di marmo rivestiti di legno, che un’antica tradizione identifica con la scala del Pretorio di Pilato, salita da Gesù durante il processo: all’ultimo, il Papa recita una commossa invocazione a Dio, di cui si qualifica come “il più umile e indegno rappresentante”. È presente alla scena il colonnello Atanasio de Charette, che narrerà più tardi l’episodio definendolo “lo spettacolo più commovente e grandioso di tutta la mia vita”.

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Charette e i suoi tre fratelli sono legatissimi a Pio IX: amano definirsi i Moschettieri del Papa. All’uscita del Pontefice, il colonnello lo prega di benedire le sue truppe, disposte in ordine di combattimento. Sbattendo le palpebre, nella luce incerta del crepuscolo, Pio IX mormora smarrito: “Mio Dio, ma sono pochissimi, riesco a stento a vederli”, prima di levare il braccio nel gesto della benedizione.

Finalmente cala la notte. Le ultime botteghe chiudono gli sporti, anche se la maggior parte di esse è rimasta sprangata fin dal mattino, come se fosse ancora giorno di festa. AI Vaticano, il Pontefice si ritira alla solita ora nelle sue stanze, lasciando l’ordine che lo si svegli non appena sia iniziato l’attacco contro Roma. Il suo cameriere privato e i camerieri segreti non vanno a letto questa notte, ma si adattano a dormire vestiti, sui seggioloni delle grandi sale deserte. Quanto al Corpo Diplomatico, si è convenuto che, appena si aprirà il fuoco, si radunino tutti in Vaticano.

IL 20 SETTEMBRE 1870

La notte trascorre senza incidenti, ma al mattino, alle cinque e un quarto, mentre il cielo si schiarisce nel presagio d’una bellissima e luminosa giornata, il primo rimbombo di cannone rompe bruscamente il sonno di chi è riuscito, nonostante l’eccitazione, ad assopirsi.

Al primo colpo ne segue un altro, e poi un altro ancora. L’attacco è cominciato.

In un attimo, le finestre si popolano di gente in cuffia e berretto da notte, di ragazzi ancora con gli occhi incollati dal sonno. Qualcuno tenta di scendere in strada, venendo però rimandato dentro il portone dalle pattuglie di gendarmi. Devono passare più di due ore perché le guardie desistano dal voler far rispettare un ordine che non ha più ragione d’essere, ed a quel punto la gente comincia a riversarsi nelle vie e, fra mille voci incontrollate, una riecheggia da un capo all’altro della città: “Vengono da Porta Pia: è là che si concentra l’attacco principale”.

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Lo ripete anche il generale Kanzler al costernato Henry d’Ideville, mentre si reca al suo osservatorio sulla grande loggia di Palazzo Rospigliosi. Il comandante in capo gli mostra le linee d’attacco dell’esercito italiano, che d’Ideville descrive poi nel suo diario alla data 20 settembre con l’incipit “Il delitto è compiuto”.

Il grosso delle forze di Cadorna si estende da Porta Salaria al campo Pretorio. Un altro corpo ha aperto il fuoco sulle mura della città, tra Porta Maggiore e Porta San Giovanni; un terzo, quello agli ordini di Bixio, tira col cannone da Porta San Pancrazio. Il generale Kanzler aggiunge delle spiegazioni: siccome la zona minacciata si trova fra Porta Salaria e Porta Pia, gli altri attacchi vengono condotti simultaneamente per impedire che tutta la guarnigione di Roma si concentri a Porta Pia.

Angosciato e depresso, d’Ideville lascia Palazzo Rospigliosi per dirigersi al Vaticano. Non c’è stato bisogno di destare il Papa: il suo cameriere, quando è andato a bussare alla porta, l’ha trovato già in piedi. Alle sei e mezzo, quando compare nella grande sala del Trono, dove si vanno radunando i monsignori e le guardie nobili di servizio, l’unico segno d’una situazione anormale sta nel fatto che non ha avuto tempo di farsi radere, ma i lineamenti del viso non tradiscono inquietudine. Si accomoda sulla larga sedia a braccioli, parla con il Segretario di Stato Antonelli e con il generale dei Gesuiti, padre Becker; ogni tanto Pio IX si alza in piedi e va alla finestra, a scrutare nel ciclo le curve descritte dalle granate.

Alle sette del mattino, gli Ambasciatori sono riuniti al completo intorno al Pontefice. Pio IX li invita ad assistere alla sua messa, celebrata nella cappella privata tra il fragore delle artiglierie, che a tratti coprono la voce dell’officiante, come riferirà l’incaricato d’affari francese. Il rimbombo dei cannoni continua: qualche obice cade persino sui giardini del Vaticano, tanto che il Pontefice esclama: “Ma tirano anche sulla Città Leonina!”.

La Città Leonina, in effetti, doveva per ordine di Cadorna rimanere indenne, ma Bixio, piazzati i suoi cannoni a Porta San Pancrazio, luogo di garibaldina memoria, ha aperto il fuoco praticamente a casaccio, col rischio di colpire persino la cupola di San Pietro. A questo punto, i diplomatici incominciano a pensare che sarà bene non prolungare troppo una resistenza puramente dimostrativa.

Alle dieci meno un paio di minuti, arriva la notizia dello sfondamento della breccia, recata dal colonnello conte di Carpegna. Uno dei cardinali presenti al fianco del Pontefice, l’eminentissimo Luciano Bonaparte, pronipote dell’Imperatore, non sa trattenere le lacrime. Pio IX, a quel punto, riferisce al conte di Carpegna: “Ebbene, sia fatta la volontà del Signore; innalzate bandiera bianca, andate presto a capitolare, e badate bene, conte, che non vengano qui. Andate e fate presto, in nome di Dio”.

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LA RESA

A quel punto, il Papa spedisce al generale Kanzler l’ordine di immediata capitolazione. L’ambasciatore di Prussia Arnim si fa avanti per offrirsi di accompagnare il parlamentario al Quartier Generale di Villa Torlonia. Pio IX risponde con un pizzico di rassegnazione: “Vada pure e cerchi d’ottenere condizioni vantaggiose”. L’intervento dei diplomatici stranieri preme molto al Papa: spera che, per i loro buoni uffici, sia possibile ottenere una ragionevole salvaguardia per i militari stranieri che si sono battuti per la sua causa.

Mentre le rappresentanze straniere si avviano all’uscita, Pio IX, sedutosi alla scrivania, traccia rapidamente tre righe a penna su un foglio. Gli astanti pensano probabilmente a una nuova comunicazione per Kanzler, o ad un messaggio per le autorità italiane, ma non si tratta di niente di simile. Indulgendo a una sua antica e innocua bizzarria, il Papa ha scelto proprio quel momento per comporre una sciarada in versi: forse per sdrammatizzare la situazione, forse per provare a se stesso e agli altri che non gli manca quella valvola di sicurezza che è costituita dall’umorismo.

“Il tre non oltrepassa il mio primiero; è l’altro molto vasto e molto in fido, che, spesso spesso, fa provar l’intero”.

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Ecco come potrebbe riassumersi questa storica giornata per la Città Eterna: da un lato le lacrime del cardinale Bonaparte, dall’altro l’ironico sorriso abbozzato del Papa. Ecco i due poli della reazione vaticana alla breccia di Porta Pia. Per le strade, però, la scena è diversa: udendo che d’un tratto i cannoni tacciono, la folla gonfia le strade, invadendo Piazza di Spagna, via del Tritone, Piazza Barberini. Gruppi impazienti si spingono sulla salita delle Quattro Fontane, spiando con prudenza lo stradone di Porta Pia ed osservando, come scrive il Palomba, “la lunghissima via spazzata dalle cannonate, la porta in fondo, spalancata, avvolta in una nuvola bianco-cinerea”.

Il silenzio improvviso delle artiglierie dà luogo a mille congetture. “Entreranno?” domanda un popolano a Monsignor de Merode, che si trova anche lui per la via. L’ecclesiastico risponde: “Non entreranno se Dio non lo vorrà”. Proprio in quel momento, viene esposta la prima bandiera bianca, e allora il de Merode, con filosofia prettamente romanesca, ribatte: “Iddio lo vuole”.

Prima di sera si fa il calcolo delle perdite, perché anche questa guerra che assomiglia più a una scaramuccia ha voluto le sue vittime. Da parte pontificia i morti sono diciannove, i feriti sessanta.

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