La Presa di Roma vista dai Piemontesi

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LA PRESA DI ROMA VISTA DAI PIEMONTESI

Alle 4,30 antimeridiane del 12 settembre 1870, le truppe italiane passano il Ponte Felice, che scavalca il Tevere nei dintorni di Magliano Sabina, ed entrano nello Stato Pontificio senza sparare un colpo di fucile. Comincia così l’ultima battaglia della lunga guerra del Risorgimento, che si concluderà il 20 settembre con la breccia di Porta Pia.

Precedono il grosso della XII divisione, agli ordini del maggior generale De La Roche, il 40° reggimento fanteria, il 35° battaglione bersaglieri, due squadroni del reggimento Lancieri d’Aosta e due sezioni del 7° artiglieria. Poco meno di un’ora dopo, un’altra colonna supera il confine attraversando il ponte di Orte. Sulla campagna incombe una fitta nebbia e i soldati avanzano per strade deserte.

Pattuglie affiggono ai casolari un manifesto che nessuno legge: è il proclama che il generale Raffaele Cadorna, comandante della spedizione, ha dettato il giorno 11 settembre dal suo quartier generale di Terni: “Il Re d’Italia mi ha affidato un’alta missione, della quale voi dovete essere i più efficaci cooperatori. L’esercito, simbolo e prova della concordia e dell’unità nazionale, viene tra voi con affetto fraterno per tutelare la sicurezza d’Italia e le vostre libertà. Voi saprete provare all’Europa come l’esercizio di tutti i vostri diritti possa congiungersi col rispetto alla dignità e all’autorità spirituale del Sommo Pontefice. L’indipendenza della Santa Sede rimarrà inviolabile in mezzo alle libertà cittadine, meglio che non sia mai stata sotto la protezione degli interventi stranieri. Noi non veniamo a portare la guerra, ma la pace e l’ordine vero”.

LE PRIME SCARAMUCCE A NORD E A SUD

La mattina stessa del 12 settembre, gli italiani occupano Civita Castellana, a undici chilometri da Ponte Felice. Civita Castellana è collocata su una posizione strategica eccellente, in cima a una rupe scoscesa su tre lati, circondata dai corsi del Treia e del Rio Maggiore, e un bastione fortificato domina l’unica via di accesso, un ponte lungo una cinquantina di metri gettato su un precipizio.

Il presidio papalino, una compagnia di zuavi e una compagnia di disciplina, per una forza complessiva di 230 uomini, è asserragliato nella rocca e nel convento dei Cappuccini. Mentre le avanguardie della XII divisione si fermano a circa un chilometro dall’abitato, un battaglione del 39° fanteria avanza in linea retta ed un altro del 40° procede invece con una manovra aggirante. Nel breve scambio di colpi, sette italiani rimangono feriti, ma la guarnigione pontificia si arrende quasi subito.

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La marcia su Roma continua con regolarità, e il 14 settembre Cadorna arriva a Posta della Storta, l’ultima stazione per il cambio dei cavalli prima di Roma. La marcia è faticosa perché le truppe dispongono di mezzi di locomozione molto scarsi: il Ministero della Guerra ha infatti assegnato un solo cavallo a numerosi carri che invece dovrebbero essere trainati da una pariglia. Lungo i tratti in salita, pertanto, il traffico rallenta anche poiché esso è reso particolarmente difficoltoso dal fondo stradale in pessime condizioni. La Storta, dalle cui alture si intravede la cupola di San Pietro, è una piccola osteria con stallaggio ed è già entrata nella storia; il 25 giugno 1522 vi fu ucciso, letteralmente infilzato con uno spiedo, Sigismondo Varano duca di Camerino per ordine di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino.

Nel frattempo, un alto contingente sta marciando su Roma provenendo dal Meridione. Il 12 settembre, la IX divisione, partita da Napoli, passa il confine a Ceprano, poi prosegue occupando Frosinone e il 14 raggiunge Terracina e Anagni. Il 15 è sotto Valmontone e il giorno successivo si accampa a Velletri, in attesa di avanzare per le vie Casilina e Tuscolana fino a Porta San Giovanni.

Lungo la via Aurelia è attestata la divisione comandata dal generale Nino Bixio, vestito di velluto e con il berretto alla calabrese. La sera dell’11 settembre Bixio è a Montefiascone e il 15 investe Civitavecchia. Dopo varie trattative, i papalini chiedono una sola concessione per arrendersi, e cioè che la corvetta “Immacolata Concezione”, ancorata in porto, rimanga di proprietà del Vaticano: Nino Bixio accetta e Civitavecchia cade.

LE TRATTATIVE E GLI ORDINI

Da Ponte della Storta, il 16 settembre, Raffaele Cadorna invia un ultimatum al comandante dell’esercito pontificio generale Kanzler: “Compreso come sono dell’inutilità di ulteriore spargimento di sangue, specialmente considerando le imponenti forze dell’attacco rispetto a quelle della difesa, non stimo inutile rinnovarle la domanda di non voler opporre resistenza alla occupazione militare di Roma”.

La replica del generale Kanzler è immediata: “Ella fa appello ai sentimenti di umanità, che certamente a niuno stan più a cuore che a coloro i quali hanno la felicità di servire la Santa Sede, ma non siamo noi che abbiamo in qualche modo provocato il sacrilego attacco di cui siamo vittime. A lei spetta quindi il mostrarsi animato da tali sentimenti umanitari, desistendo dall’ingiusta aggressione”.

Il giorno 18 settembre, Cadorna trasferisce il quartier generale a Casale dei Pazzi e vi convoca tutti ì generali, tranne Nino Bixio. Sui dissidi fra Cadorna e Bixio si scriveranno fiumi di parole, sovente ingigantendoli, certo è però che fra i due non corresse buon sangue; anche in rapporti ufficiali, Cadorna aveva rimproverato a Bixio di non essere un militare di suo gradimento perché eccessivamente velleitario e scarsamente disciplinato. Cadorna giudicava probabilmente Bixio una testa calda, ma al tempo stesso è altrettanto probabile che Cadorna soffrisse di un complesso d’inferiorità rispetto al condottiero garibaldino, molto più popolare di lui e anche di temperamento molto diverso. Erano, insomma, due persone fatte per non intendersi.

Ai generali riuniti a Casale dei Pazzi, Cadorna raccomanda la massima cautela, di non sparare fino al momento giusto, di non rispondere al fuoco eventuale dei papalini e di ricorrere alle armi solo in caso di sortite. La seduta termina con una richiesta al Ministero della Guerra perché invii subito munizioni: la sera stessa due treni partono da Perugia e da Capua carichi dei proiettili richiesti.

Il 19 settembre, Cadorna dirama l’ordine più atteso: “Domani, giorno 20, si darà l’attacco a Roma. Apriranno il fuoco alle 5 e un quarto antimeridiane le divisioni Angioletti e Ferrero, destinate ad attirare l’attenzione sopra di loro del difensore. Il vero attacco sarà fatto alle porte Pia e Salaria, cioè dalle divisioni Mazè e Cosenz. Dette porte essendo vicinissime, tale attacco si considera come riunito, e vi concorrerà la brigata d’artiglieria di posizione. Le teste di colonne destinate all’attacco della città saranno precedute da truppe del genio munite di utensili, per abbattere gli ostacoli che impedissero la marcia. Le colonne di fanteria si spingeranno quindi colla maggior rapidità possibile”.

L’ordine del giorno si caratterizza per la presenza di una serie di istruzioni estremamente dettagliate, sulla base di quella pignoleria per cui Cadorna era assai famoso: “Nel levare i campi si abbia cura di non dare la sveglia ai difensori. Si lascino i carreggi agli accampamenti, e solo le ambulanze devono seguire le truppe che, prima di muovere, debbono avere fatto il rancio, trasportando seco il pane, la carne e il vino”. Voci di corridoio raccontano che, dopo aver letto il messaggio del supremo comandante, Nino Bixio abbia esclamato “Questo ci dirà anche dove e come pisciare!”.

LA BRECCIA DI PORTA PIA

Il giorno più lungo del Risorgimento, il 20 settembre 1870, incomincia con un colpo di cannone che rimbomba nel quartiere di San Lorenzo e sovrasta i rintocchi delle campane che chiamano alla preghiera mattutina i romani. La giornata si annuncia splendida, il cielo limpidissimo si colora delle prime luci che danno risalto al massiccio anello delle Mura Aureliane.

Tutt’attorno sono accampate cinque divisioni, comandate da Raffaele Cadorna, un milanese di cinquantacinque anni che ha già ricoperto la carica di Segretario del Ministro della Guerra, il generale Chiodo. Dopo la sconfitta di Novara, Cadorna si è arruolato nelle truppe francesi d’Algeria dove si è meritato la Legion d’Onore. In seguito, ha preso parte alla campagna di Crimea, rimanendo ferito al ponte della Cernaia. Nominato ministro della guerra nel primo gabinetto di Firenze capitale, nel 1865 era stato insignito della massima onorificenza del Regno, il Collare della SS. Annunziata. Il 20 settembre gli rimarrà ancor poco da vivere, morendo infatti il 15 novembre del 1871.

Il più vicino collaboratore di Raffaele Cadorna è il tenente colonnello Domenico Primerano, capo di stato maggiore. Il quartier generale è composto dai seguenti maggiori generali: Celestino Conte, comandante l’artiglieria; barone Carlo Gerolamo d’Humilly de Chevilly, cavalleria; tenente colonnello Macedonio Pinelli, bersaglieri. Le cinque divisioni sono alle dipendenze dei luogotenenti generali Nino Bixio, Diego Angioletti, Enrico Cosenz, e dei maggiori generali conte Gustavo Mazè de la Roche ed Emilio Ferrero. Il colonnello Alberto Costa Righini è a capo del reggimento Lancieri Novara che fa parte della riserva.

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Nella notte che precede l’attacco, le truppe sono già schierate. La brigata Bologna occupa la sinistra di via Nomentana, un battaglione dei bersaglieri è a villa Torlonia, la brigata Modena sulla destra. A villa Bonesi sono piazzate le batterie, mentre altri cannoni sono appostati a villa Diaz, pronti a rispondere al fuoco di Porta Pia. Una divisione tiene Villa Borghese e un grosso concentramento di artiglierie è sulla sinistra della via Salaria, a circa mezzo chilometro dalle mura.

Secondo il piano di Cadorna, su porta Pia dovrà essere esercitato il massimo della pressione.

Racconta Ugo Pesci, inviato speciale del “Fanfulla” e che potè assistere alla battaglia dall’alto della terrazza belvedere di Villa Bellini, a circa un chilometro di distanza: “Con i cannocchiali si distingueva benissimo la precisione di tiro dei nostri pezzi. Vedemmo presto larghi fori nel muro rossastro a destra e a sinistra di Porta Pia e nella torre a destra di chi guarda la porta. La sommità di quella torre era coperta di materassi e da essa, come dalla sommità del tratto di muro più vicino alla porta, partivano frequenti colpi di Remington. Le artiglierie dei difensori, collocate dietro l’opera provvisoria costruita innanzi a Porta Pia, non avevano azione che sullo stradale. I colpi erano rari e senza efficacia: i nostri soldati li accoglievano con allegre risate. Il maggior danno che fecero fu di guastare due bellissimi pilastri barocchi all’ingresso d’un giardino, sormontati da grandi vasi coperti d’edera e di rampicanti”.

Un sole ancora estivo illumina la scena e la battaglia è tanto poco cruenta che i vignaioli sono rimasti ai loro posti di lavoro ad osservare lo spettacolo. A un tratto, però, verso le 8.15 del mattino, una granata scoppia accanto alle batterie della XII divisione che stanno avanzando e colpisce un soldato, subito soccorso e trasportato nell’infermeria da campo.

Sull’altro versante della città, Nino Bixio ha occupato Villa Pamphili e dalle 6.00 del mattino martella i bastioni di Porta San Pancrazio, al fine di impedire una ritirata delle truppe pontificie verso il mare. Piazzati i cannoni al Casino dei Quattro Venti, in breve Bixio riduce al silenzio la guarnigione, venendo tentato di sparare anche sulla Città Leonina ma ritrovandosi costretto a desistere per i precisi ordini ricevuti.

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A Porta San Giovanni è spiegato il grosso della divisione comandata da Angioletti. Mentre alcuni reparti cannoneggiano Porta San Sebastiano, poco alla volta Porta San Giovanni cade in pezzi e i difensori, appostati sul bastione di San Giovanni in Laterano, oppongono una fievole resistenza.

Uno dei punti chiave dell’assedio è però il varco, nel quartiere San Lorenzo, attraverso il quale passa la ferrovia: qui le truppe pontificie hanno concentrato forze particolarmente efficienti e tentano disperatamente una sortita, respinta da un contrattacco alla baionetta dalla IX compagnia del 57° reggimento.

Sotto i colpi continui, Porta Pia subisce gravi danni: le granate ne sbrecciano le colonne e il timpano, decapitano la statua di Sant’Alessandro, ed anche il grande affresco della Madonna dipinto sulla parte interna si scrosta.

Per accelerare i tempi, il generale Marè de la Roche decide di prendere Villa Patrizi: i genieri aprono un buco nel muro di cinta, un battaglione di bersaglieri si infila rapido e sloggia i Papalini dal parco. Dalla torretta della villa una pattuglia di fucilieri spara ferendo a morte tre uomini facenti parte delle batterie comandate dal maggiore Luigi Pelloux (nel 1898 diventerà persino Presidente del Consiglio) e ferendone più lievemente altri sei. Il maggiore Pelloux, senza un attimo di esitazione, ordina ai suoi cannonieri di non arretrare e di tenere Porta Pia sotto il fuoco ininterrotto.

LA CRONACA DI EDMONDO DE AMICIS

Al seguito delle truppe italiane c’è un folto drappello di giornalisti, tra i quali emerge Edmondo De Amicis, alle prime esperienze letterarie. De Amicis ha ventiquattro anni e dirige “L’Italia militare”, una rassegna del ministero della guerra, ed è appunto sul posto come giornalista. La pagina scritta da De Amicis sulla memorabile giornata del 20 settembre merita di essere citata almeno nella parte essenziale.

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Il 21 settembre, da Roma, Edmondo De Amicis racconta così la sua esperienza: “Le cose che ho da dire sono tante e tali che mi sarà impossibile scriverle con ordine e chiaramente. È già gran cosa aver voglia di scrivere mentre per le vie di Roma risuonano ancora le grida del primo entusiasmo e della prima gioia. Tutto quello che ho veduto ieri mi sembra ancora un sogno; sono ancora stanco della commozione e non sono ancora ben certo di essere qui, di aver visto quello che vidi, di aver sentito quello che sentii. Vi dirò subito che l’accoglienza fatta da Roma all’esercito italiano è stata degna di Roma, degna della capitale d’Italia, degna di una grande città sovranamente patriottica. Tutto ha superato non solo l’aspettazione, ma l’immaginazione. Bisogna aver veduto per credere. Dubiterete della mia sincerità, lo prevedo; né debbo spender parole per prevenirvi, perché è troppo naturale; capisco che non posso aspirare ad essere creduto. Eppure sento che non vi darò che una pallida immagine della realtà! Sono cose che non si possono scrivere”.

De Amicis si dilunga ancora nel preambolo finché decide di arrivare al cuore della narrazione: “A misura che ci avviciniamo (a piedi, s’intende) vediamo tutte le terrazze delle ville piene di gente che guarda. Presso la Villa Casalini incontriamo sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l’ordine di avanzare contro Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L’artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le brecce. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontifici appostati a quella porta erano stati smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontifici davano saggio d’una meravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l’assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d’una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia. Tutti i poderi vicino alle mura brulicavano di soldati. In mezzo agli alberi dei giardini si vedevano lunghe colonne di artiglieria. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a grande lontananza; si vedevano i materassi legati al muro dai pontifici e già per metà arsi dai nostri fuochi. A 300 o 400 metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta fino a terra, due colonne di fanteria si lanciano all’assalto”.

I VERI ACCADIMENTI

La narrazione di Edmondo de Amicis, seppur fortemente emozionale, è volontariamente patriottica e lacunosa. Si ritiene in tal senso necessario precisare alcuni dettagli che evidentemente “sfuggirono” alla penna dello scrittore.

Verso le ore 9 del mattino, i cannoni papalini di Porta Pia tacciono. Il quartier generale di Cadorna si è ormai insediato nella splendida Villa Albani, da questa “stanza dei bottoni”, Cadorna e i suoi collaboratori manovrano i vari reparti in vista della fase conclusiva: due reggimenti della brigata Modena dovranno impossessarsi della breccia, e la brigata Bologna dovrà attaccare Porta Pia insieme con il 35° bersaglieri.

Alle ore 10, tutto è pronto per l’epilogo. L’artiglieria continua a sparare: tirerà in tutto 835 colpi, finché sulla torre di Villa Patrizi il portabandiera Gaetano Lugli innalzerà il vessillo tricolore. È il segnale convenuto per cessare il fuoco delle batterie e che ordina simultaneamente alle fanterie di muoversi alla conquista della città. Si odono solenni squilli di tromba, che rappresentano il segnale di avanzata.

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In tal senso, per quanto concerne il momento culminante della battaglia, conviene lasciare la parola ad Ugo Pesci, l’inviato del “Fanfulla”, cronista più attento e meno di parte del De Amicis: “Sette plotoni del 39° irrompono all’assalto del trinceramento. Vi giunge primo il tenente Arrigo col primo plotone della I compagnia e supera la scarpata. Alcuni cadono feriti; molti fanno fuoco, altri aiutano i sopravvenienti a superare la prima scarpata. Salgono sul ciglio il colonnello Belly e il generale Giuseppe Angelino; vi sale il generale Mazè de la Roche, mentre i primi, superato un fosso che si sono trovati davanti, superano anche un secondo riparo e si trovano dentro lo spazio compreso tra il corpo esterno e quello interno della porta, bizzarramente costruita e decorata dal Buonarroti. Al 39° sì è unito il 40° fanteria; uno dei primi ufficiali del reggimento che supera la barriera esterna è il tenente Augusto Valenziani, romano, ansioso non soltanto di entrare in patria, ma di rivedere, di riabbracciare la sua vecchia e cara madre. Una fucilata lo uccide”.

La cronaca di Ugo Pesci, ben circostanziata, rappresenta uno splendido reportage di guerra. “Il tenente colonnello Davide Giolitti, un ex bersagliere bel tipo di soldato della vecchia scuola, ed il capitano Giovanni De Ferrari sono feriti, ma non lasciano il loro posto. Superate le difese di Porta Pia, non senza sacrifizio di altri feriti, innalzata dai difensori bandiera bianca, la colonna di sinistra della XII divisione entra nella piazza, fermandosi subito, per ordine del generale Mazè de la Roche, appena imboccata quella che allora chiamavasi via di porta Pia e ora si chiama via XX Settembre”.

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L’ASSALTO ALLA BAIONETTA

Alle ore 10 del mattino, il generale Carchidio e il capitano Serra si avvicinano per ispezionare il punto preciso del foro aperto nel muro: compreso come in questo punto l’avversario sia particolarmente agguerrito e meglio armato, i due comandanti prospettano la necessità di un assalto alla baionetta per snidarlo dalle sue posizioni. Di corsa, i bersaglieri si lanciano verso la breccia, oltrepassano il ciglione che separa il prato dalla strada parallela al muro e si trovano di fronte alla breccia. I papalini sparano dall’alto e un proiettile raggiunge il capitano Andrea Ripa, fratturandogli la tibia e il perone. Sanguinante, l’ufficiale sguaina la spada, grida “Avanti, Savoia!” per poi però accasciarsi dopo pochi metri: morirà poche settimane dopo. Anche il capitano Serra è ferito, ma meno gravemente, e riesce pertanto a passare per la breccia.

Il soldato cui spetta l’alto onore di penetrare per primo nella breccia è il sottotenente Federico Cocito, al quale il 1 dicembre 1870 verrà conferita la medaglia d’argento al valor militare “per essere stato il primo a superare il ciglio della breccia, mostrando sempre esemplare e splendido coraggio”. Il Serra, dal canto suo, verrà premiato con la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia.

Simultaneamente all’assalto del 12° bersaglieri si svolge quello del 34° che, dislocato su una posizione più bassa, scatta con veemente impeto. Il maggiore Pagliari, che guida gli uomini stando a cavallo, è colpito in pieno petto da una fucilata e cade fulminato: la fine del loro comandante scatena l’offensiva degli uomini del 34° bersaglieri, che mescolatisi a quelli del 12° combattono con una ferocia inarrestabile.

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LA FINE DELLA BATTAGLIA E LA RESA

Cadorna, intanto, attende l’esito dello scontro negli eleganti saloni di Villa Albani. Dal 1866 la villa appartiene al principe Torlonia, che l’ha comperata pagandola quattro milioni: in quella sontuosa residenza, verso la metà del Settecento il cardinale Alessandro Albani aveva raccolto una ricchissima collezione di statue, bassorilievi, sarcofaghi, sculture, monili, oggetti antichi, sebbene la maggior parte del preziosissimo patrimonio archeologico fosse poi stata saccheggiata dai francesi all’inizio del XIX secolo.

Dall’alto della villa, Cadorna domina con lo sguardo il teatro di operazioni e di tanto in tanto qualche pallottola vagante dei Remington papalini finisce vicino a lui. In una sala del pianterreno, un capitano, dopo aver trascritto un ordine del generale, si alza giusto in tempo per non prendersi un proiettile che si conficca nella spalliera della poltroncina.

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Con la capitolazione di Porta Pia cala il sipario sul potere temporale della Chiesa. La bandiera bianca compare dovunque sui luoghi di combattimento. Un parlamentare del Vaticano si presenta al capitano Maccagno, che presidia la breccia, annunciando la resa, e poco dopo, a Villa Albani, il generale Cadorna riceve gli inviati del quartiere generale dell’esercito pontificio, latori di una lettera del comandante in capo generale Kanzler. Compongono la delegazione il colonnello, conte Carpegna, il maggiore Rivolta, capo di stato maggiore, e il capitano De Maistre.

Letto il messaggio, Cadorna dichiara di voler trattare direttamente la resa con il generale Kanzler e pone una pregiudiziale, cioè che le truppe sconfitte si ritirino immediatamente dentro il perimetro vaticano. Il generale Kanzler accetta l’invito e arriva a villa Albani a piedi: indossa l’alta uniforme con il grande cappello piumato e, sulla soglia della villa, un picchetto gli presenta le armi. Mezz’ora dopo, sopraggiungono i diplomatici stranieri accreditati presso la Santa Sede, che desiderano partecipare allo storico avvenimento della firma della resa: anch’essi sono vestiti con gli abiti da cerimonia. Molti viaggiano a bordo delle carrozze di gala, ma a Porta Pia i diplomatici sono costretti a scendere e a proseguire a piedi essendo la strada impraticabile per l’ingombro delle macerie.

L’incontro fra Cadorna e i diplomatici è molto breve. Gli ambasciatori chiedono garanzie per i loro connazionali residenti a Roma e il generale risponde assicurando che non sarà loro torto un capello; a quel punto però Cadorna, che non vuole quel fastidioso assembramento attorno a sé, liquida i diplomatici dicendo che la capitolazione è un affare di esclusiva pertinenza dei due governi in guerra, fra Italia e Vaticano.

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Sgomberato il salone, Cadorna presenta al collega Kanzler le condizioni:

  • La città di Roma, tranne la parte che è limitata a sud dai bastioni Santo Spirito e che comprende il Monte Vaticano e Castel Gandolfo, costituenti la Città Leonina, il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini da polvere, tutti gli oggetti di spettanza governativa, saranno consegnati alle truppe di S.M. il Re d’Italia.
  • Tutta la guarnigione della piazza uscirà con gli onori della guerra, con bandiere in armi e bagaglio. Resi gli onori delle armi, deporrà la bandiera e le armi, ad eccezione degli ufficiali, i quali conserveranno le loro spade, i cavalli e tutto ciò che loro appartiene. Usciranno prima le truppe straniere, e le altre in seguito, secondo il loro ordine di battaglia. L’uscita della guarnigione avrà luogo l’indomani alle 7 del mattino.
  • Tutte le truppe straniere saranno sciolte, e subito rimpatriate per cura del governo italiano, mandandole fin da domani per ferrovia al confine del loro Paese.
  • Per quanto concerne le truppe indigene, dovranno deporre le armi, e sarà riservato al governo del Re di determinare sulla loro futura decisione. Nella giornata di domani saranno inviate a Civitavecchia.

In calce all’atto di resa firmano, “per la piazza di Roma”, il capo di stato maggiore Rivolta e, “per l’esercito italiano”, il tenente colonnello Domenico Primerano. Sotto di essi, firmano anche Cadorna e Kanzler.

L’ultima vera battaglia del Risorgimento è terminata. Mentre Kanzler ed il suo seguito si congedano, si contano morti e feriti: la presa di Roma è costata ai piemontesi 49 morti e 141 feriti.

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