La famiglia nell’Antica Roma

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LA FAMIGLIA NELL’ANTICA ROMA

Unione socialmente riconosciuta di un uomo e di una donna, monogamia, autorità maschile, trasmissione del nome e riconoscimento della filiazione da parte dell’uomo: tutti questi elementi si ritrovano ben delineati all’interno del concetto di famiglia nell’Antica Roma.

In realtà, però ognuno di questi concetti va esaminato con cura ed attenzione, sia dal punto di vista storico che soprattutto giuridico, anche al fine di delineare le differenze con concetti simili più radicati nelle nostre concezioni moderne.

LA FAMIGLIA

Cominciamo dalla parola. Il termine latino “familia” indicava un complesso di persone e cose sottoposto al potere del paterfamilias: la moglie, i figli, il patrimonio mobiliare e immobiliare, gli schiavi e i liberti. A questo nucleo possiamo aggiungere i clientes che affollavano quasi ogni giorno la casa del paterfamilias, loro patrono, rendendogli omaggio e traendone vantaggi di vario genere e importanza.

Il potere del pater era enorme e non conosceva limiti né zone di rispetto. Se l’arcaico diritto di vita e di morte sui figli anche adulti cadde gradualmente in disuso (ma se ne hanno ancora sparute testimonianze durante l’età augustea), assai più stabili rimasero altre prerogative. Spettava anzitutto al pater la decisione sulla sopravvivenza dei neonati, sia figli suoi che nati comunque nella sua casa (per esempio da una schiava): poteva affidarli al seno della madre, oppure farli “esporre”, vale a dire abbandonarli su un cumulo di rifiuti, o farli sopprimere direttamente, evento quest’ultimo quasi certo in caso di malformazioni.

A ben guardare, la stessa leggenda delle origini di Roma, con i gemelli Romolo e Remo abbandonati alla corrente del fiume, è un caso di “esposizione”. Quel gesto, in qualche modo solenne, con cui il padre solleva il neonato da terra e lo accoglie tra le proprie braccia, segna il diritto del bambino alla sopravvivenza. D’altronde, come afferma il giurista Ulpiano non senza un pizzico di cinismo, “l’autorità prevale sulla natura. L’embrione è parte integrante della donna, delle sue viscere, ma appena essa se ne separa, l’uomo può, con un diritto che gli è proprio, reclamarlo”.

LA GELOSIA

La gelosia dei grandi poeti latini, come Catullo o Tibullo, non deve darci false aspettative a riguardo. Gli antichi Romani erano interessati molto meno di noi all’esclusività carnale e al concetto dei vincoli genetici.

In tal senso, mettendo per un attimo da parte la nostra morale, plasmata da quasi 2000 anni di Cristianesimo, basterà riflettere su alcuni comportamenti. Il più appariscente è senza dubbio lo scambio, il prestito o, a voler usare dei termini più comunemente adoperati per l’Unione Europea, “la libera circolazione delle mogli”.

Ortensio, ad esempio, voleva dei figli da Porcia, figlia di Catone Uticense, ma Porcia era già sposata con Bibulo, un personaggio illustre che fu Console nel 59 a.C. L’ostacolo, tuttavia, non era insuperabile: bastava che Bibulo prestasse la moglie a Ortensio il tempo necessario perché la donna gli donasse un figlio. Una volta fattolo, ella sarebbe tornata dal primo marito. Il ragionamento che Ortensio avrebbe fatto a Catone è riportato da Plutarco: “Vedi, agli occhi degli uomini un fatto simile può sembrare strano, ma, per quanto riguarda la natura, è cosa ben fatta e utile alla comunità che una donna nel fiore dell’età e della bellezza non rimanga inattiva fino a spegnere la propria fecondità, senza infastidire e impoverire per questo un marito, generandogli più figli di quanto convenga ed egli desideri. Inoltre, se uomini degni hanno discendenti comuni, le loro virtù si moltiplicano e si diffondono tra le stirpi; lo stato medesimo si amalgama grazie alle parentele che si mescolano l’una con l’altra”.

Il calcolo, naturalmente, era politico, e prospettava una strategia familiare: questa comunità di figli, infatti, avrebbe legato strettamente Ortensio, Catone e Bibulo. Il rifiuto di Bibulo non spense l’entusiasmo del pretendente, che si rivolse questa volta allo stesso Catone, chiedendogli la moglie, ancora giovane e in grado di procreare. Catone, evidentemente non contrario alla soluzione, rimandò la decisione a Filippo, padre di Marcia, il quale acconsentì. Qualche tempo dopo, morto Ortensio, Marcia tornò dal primo marito arricchita di una cospicua eredità.

Ovviamente, tutto ciò scatenò le malelingue dell’epoca, incluso lo stesso Giulio Cesare, il quale scrisse: “Perché Catone cedette ad altri la moglie, se ne aveva bisogno? E se non ne aveva bisogno, perché la riprese? A meno che non l’abbia offerta a Ortensio in principio come un’esca, e gliela abbia prestata quando era giovane per riprendersela quando fosse ricca”.

MATRIMONIO E DIVORZIO

Questo episodio potrebbe apparire estremo anche a dispetto dell’antichità dei tempi, ma esso non urtava in realtà contro specifiche regole morali. Era pratica diffusa, nei ceti alti, che alleanze familiari sì stringessero, per esempio, accogliendo o concedendo spose già incinte di un primo marito. Si verificava, in questo modo, una sorta di “adozione prenatale”, dal momento che il bambino diventava, a tutti gli effetti, figlio del secondo sposo. Lo stesso Ottaviano (il futuro imperatore Augusto) si fece concedere Livia, incinta di sei mesi, da Claudio Nerone, che assistette personalmente alla cerimonia nuziale.

Non sappiamo esattamente quanto queste pratiche fossero diffuse nella società romana, ma l’attenzione che i giuristi pongono nel regolare la materia, soprattutto in campo dotale e ereditario, ci fa comprendere che esse non fossero soltanto manifestazioni di snobismo aristocratico.

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Il matrimonio, peraltro, era un atto privato, per il quale non era necessario nessun atto pubblico, né alcuna registrazione ufficiale. Si sapeva, semplicemente, che un uomo e una donna erano marito e moglie, perché così essi si presentavano e così apparivano al loro ambiente, perché eventualmente c’era stata una cerimonia privata cui avevano assistito testimoni, oppure perché (se la famiglia della moglie era provvista di mezzi) c’era stata una costituzione di dote.

Il divorzio, di conseguenza, era un atto altrettanto semplice, tanto per l’uomo che per la donna, e non richiedeva nessuna sanzione giuridica: la facilità con cui era possibile sciogliere un’unione faceva sì che quella romana, soprattutto (ma non solo) ai livelli alti, fosse una società di divorziati.

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LE ADOZIONI E L’INFANZIA

Per quanto concerne le adozioni, nel mondo dell’Antica Roma procreare era solo uno dei due modi di avere figli: l’altro era, per l’appunto, l’adozione, che si rivelava essere una pratica molto diffusa.

Sì adottava un figlio altrui non avendone di propri, per desiderio di paternità o, più concretamente, per assumere la qualifica di paterfamilias, indispensabile per percorrere la carriera degli onori pubblici. Si adottava, però, anche avendo già figli propri, per esempio per stringere alleanze familiari. Per molti romani l’adozione fu un mezzo di arricchimento e di ascesa politica: come non ricordare Ottavio che, adottato da Giulio Cesare e chiamato Octavianus (con l’aggiunta del caratteristico suffisso in –anus, indicante appunto l’adozione) divenne poi il potentissimo imperatore Augusto?

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La vita di un bambino romano delle classi alte non era certo segnata dal contatto quotidiano con il padre e con la madre, ma semmai dal rapporto con la nutrice e il pedagogo, cui spettava il compito di educare e allevare i fanciulli, magari sotto l’alta sorveglianza di una donna anziana, come la nonna o una zia. In un universo familiare in cui la tenerezza non era certamente la regola, dalla nutrice e dal pedagogo si ottenevano spesso affetto e protezione, e la storia romana tramanda molti casi, anche celebri, di questo attaccamento profondo, destinato talvolta a durare fino alla morte. Quando l’infelice imperatore Nerone, abbandonato da tutti, si dibatté nell’angoscia degli ultimi momenti, fu proprio la nutrice ad assisterlo e consolarlo, e fu sempre lei che, dopo il suicidio, ne curò la salma.

L’INFANZIA E L’AMORE

A dodici anni un ragazzo romano appartenente a una buona famiglia concludeva il corrispettivo della nostra scuola elementare. A quattordici abbandonava i vestiti dell’infanzia e poteva godere di un breve periodo di svago e di divertimento, ma attorno ai sedici anni, dopo il matrimonio, lo aspettava la carriera pubblica, carica di pesanti responsabilità, sulla quale si misurerà la sua capacità e il prestigio della famiglia. Proprio a tale scopo, le case dei nobili romani avevano nell’atrio le immagini degli antenati, consoli, proconsoli, censori: il loro sguardo era motivo di onore ma era anche un severo ammonimento.

Anche l’infanzia delle fanciulle durava molto poco: a dodici anni o poco più andavano in sposa e venivano trattate come signore. La vita dì queste giovani signore doveva svolgersi in una sorte di gabbia dorata dove si respirava la noia. Le stesse qualità con cui venivano ricordate negli elogi funebri rimandano a comportamenti stereotipi, tramandati da un lontano passato: “rimase in casa, preservò la casa, filò la lana”. Certo non mancano le eccezioni, e sappiamo di donne apprezzate per la loro sensibilità artistica e intellettuale, ma si tratta appunto di eccezioni, guardate dall’ambiente con ammirazione ma anche con una punta di malcelata diffidenza.

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Queste donne, così giovani e inconsapevoli, amavano i loro mariti?

Dirlo è difficile e la generalizzazione è quanto mai pericolosa, anche perché sulla vita intima e sui sentimenti profondi della coppia, all’epoca dell’Antica Roma, calava frequentemente un velo di pudore. I Romani non amavano esternare i loro sentimenti e la passionalità verso il proprio compagno era ritenuta disdicevole; in tal senso, un marito talmente innamorato della moglie da baciarla spesso in pubblico sulle labbra suscitava sdegno e ridicolo.

LA LAUDATIO TURIAE

Questo velo di pudore e l’inevitabile lacunosità della documentazione sono però talvolta illuminati da una luce intensa. A soccorrerci viene spesso l’epigrafia, alla quale si affidava il ricordo perenne di un grande amore, con evidenze di gratitudine e di rimpianto. Si pensi, ad esempio, alla cosiddetta Laudatio Turiae, databile al I secolo a.C. esposta presso il Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano. Nel ricordo che il marito ne ha lasciato, l’esaltazione delle virtù tradizionali delle spose si unisce a quella di un temperamento che all’amore sacrificò tutto: “Sono rari i matrimoni che durano tanto da finire con la morte e non essere infranti dal divorzio. Noi abbiamo avuto in sorte che il nostro sia durato quarantuno anni senza mai un’offesa: oh, se questa lunga unione avesse potuto subire il distacco estremo per la mia morte, ed era giusto che fosse così, poiché tocca al più vecchio soccombere al fato per primo. A che serve rievocare le tue virtù domestiche, la castità, il rispetto, l’amabilità, l’arrendevolezza, l’assiduità al telaio, la religione immune da superstizione, la modestia dei gioielli, la sobrietà del vestire. Durante la mia clandestinità, con i tuoi gioielli mi fornisti i più ampi sussidi. Affinché io potessi portarli con me, ti togliesti di dosso tutto l’oro e tutte le perle che portavi e, mentre ero lontano da casa, mi provvedesti largamente di schiavi, di denaro, di provviste, astutamente ingannando le guardie dei nemici. Dopo aver salvato la vita del fuggiasco, impresa alla quale ti indusse l’animo impavido, la tua protezione mi protesse, sollecitando la clemenza di quegli stessi contro i quali mettevi in atto i tuoi accorgimenti; e sempre levasti la voce con grande fermezza”.

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L’elogio di questo amore prosegue con il ricordo di un momento intimo e difficile nella vita della coppia: “Disperando di poter mettere al mondo un figlio, dolendoti che io ne fossi privo, poiché, avendo te per moglie, deposta ogni speranza di prole, avrei potuto essere infelice per questo, mi parlasti di divorzio, ti proponesti di lasciare disponibile la casa alla fecondità di un’altra donna, con nessun’altra ragione, poiché era notorio il nostro affetto reciproco, se non quella di cercare tu stessa di procurarmi un’unione al livello della mia posizione. Affermasti che avresti tenuto in comune i figli che sarebbero nati, li avresti considerati come tuoi e non avresti diviso il patrimonio, ma anzi l’avresti lasciato sempre a mia disposizione. Devo confessare che mi adirai tanto da perdere il controllo di me stesso; quelle proposte mi fecero orrore a tal punto che stentai a riprendermi. Parlare di separazione tra noi prima che fosse pronunciata la legge del fato, poter tu concepire nell’animo tuo di non essere più mia moglie, mentre eri ancora in vita, quando, nel momento in cui ero quasi esule dalla vita, m’eri rimasta tanto fedele”.

LA SUDDITANZA AL PATERFAMILIAS

Un fatto psicologicamente terribile stupiva gli altri popoli: un cittadino romano, finché era vivo il paterfamilias, aveva una capacità giuridica estremamente limitata. Questo cittadino poteva pure essere un Console e condurre in guerra le legioni, un Proconsole e amministrare intere province, ma se il padre era in vita non poteva disporre giuridicamente di un patrimonio personale, né ereditare da terze persone. Tutto apparteneva al padre. Quest’ultimo, se lo voleva, poteva accordare al figlio un “peculio” oppure poteva emanciparlo. L’emancipatio era uno dei modi attraverso i quali si poteva uscire dalla famiglia: il paterfamilias rinunciava alla potestas che esercitava sul filiusfamilias, il quale diveniva a sua volta paterfamilias.

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Lo storico francese Paul Veyne scrisse: “Psicologicamente, la situazione di un adulto il cui padre è in vita è insopportabile. Non può muovere un dito senza il padre, né concludere un contratto, né affrancare uno schiavo, né fare testamento. Non possiede, e precariamente, se non il suo peculio. A queste umiliazioni si aggiunge il rischio di essere diseredato, che è reale”.

Non di rado, la difficile situazione psicologica del figlio adulto si manifestava drammaticamente, e c’è ragione di ritenere che il parricidio fosse più diffuso a Roma che in altre società. Durante l’epoca delle guerre civili, quando i vincoli civici si attenuarono e la coesione familiare venne sottoposta a pressioni e lacerazioni di ogni genere, l’odio per i padri esplose con furore. Lo storico Velleio Patercolo scrisse: “La maggiore lealtà si trovò nelle spose, qualcosa di mezzo fu la lealtà delle schiave affrancate, non del tutto assente quella delle schiave, uguale a zero quella dei figli, tanto male si sopporta una speranza che tarda a realizzarsi”.

LE CONCLUSIONI

Questo breve discorso sulla famiglia romana, che meriterebbe interi tomi di trattazione approfondita, non vuole ovviamente rappresentare una spiegazione esaustiva. Toccare argomenti così complessi in un semplice blog di approfondimento tende inevitabilmente ad appiattire cronologicamente fenomeni che hanno invece una loro vivace articolazione nel tempo, tagliando fuori quella ampia e importante parte della storia romana che è segnata dal Cristianesimo.

Un discorso sulle antiche famiglie cristiane, sulla loro sensibilità, le loro regole scritte e non scritte, i loro comportamenti, sarebbe in gran parte diverso da quello che si è fatto per le famiglie romane dei ceti alti. Dietro motivazioni assolutamente diverse e contesti non del tutto assimilabili potremmo però anche scoprire il riproporsi di alcune costanti, con l’esaltazione della figura femminile fin troppo spesso bistrattata dalle cronache antiche.

È ben noto, infatti, il ruolo di primo piano nella diffusione del Cristianesimo assunto dalle donne delle classi dominanti romane; quello che è meno noto è che furono soprattutto le grandi dame dell’aristocrazia romana ad attuare, lentamente ma progressivamente, la più radicale messa in crisi dell’istituto familiare che l’antichità abbia conosciuto.

Questa, però, sarebbe tutta un’altra storia…

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