Caio Flaminio Nepote

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CAIO FLAMINIO NEPOTE

Caio Flaminio Nepote, il console sconfitto da Annibale al Trasimeno, fu forse il plebeo più amato ed al contempo più odiato nella storia della Roma repubblicana.

Perfino storici del calibro di Polibio e di Livio si rifiutarono di essere obiettivi con lui e liquidarono con poche righe sprezzanti quello che fu uno dei personaggi più discussi del suo tempo. Il fatto che avesse sottovalutato il genio militare di Annibale (come del resto, all’inizio, avevano fatto tutti i Romani) e si fosse lasciato trascinare nella trappola mortale del Trasimeno, non giustifica l’atteggiamento degli storici nei suoi confronti: altri generali erano caduti in errori ben più grossolani e tuttavia ne erano usciti a testa alta e con l’onore salvo presso i posteri.

A Caio Flaminio non toccò questo privilegio. Per spiegare questo atteggiamento bisogna tener presente che tutti coloro che scrivevano di storia a Roma, ossia annalisti e storiografi, gravitavano in qualche modo intorno alla classe patrizia: i primi erano addirittura pagati dal Senato perché redigessero a fine anno l’elenco degli avvenimenti, mentre i secondi dipendevano di solito da un mecenate che li finanziava (Polibio, ad esempio, era protetto dagli Scipioni). La classe patrizia di Roma aveva ottimi motivi per non amare Flaminio e desiderare, anzi, che fosse dimenticato al più presto.

GLI ESORDI DI CAIO FLAMINIO

Caio Flaminio esordì nella carriera politica giovanissimo, riuscendo imprevedibilmente a farsi eleggere tribuno della plebe attorno al 233 a.C.

A quei tempi la carica era una delle più importanti della Repubblica e conferiva all’eletto perfino la facoltà di legiferare a dispetto e contro la volontà del Senato: il potere conferito al rappresentante del popolo era una conseguenza delle aspre lotte intestine tra patrizi e plebei, subito dopo la cacciata dei re etruschi. Con il passar degli anni, il potere dei tribuni a vantaggio del popolo era tuttavia divenuto solo nominale: la classe patrizia aveva infatti il controllo dell’assemblea che doveva eleggerli e non capitava mai che un personaggio scomodo raccogliesse la maggioranza dei voti.

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Ecco, Caio Flaminio fu un’eccezione ed un palese errore di giudizio: la sua giovane età e la sua inesperienza dovettero farlo credere innocuo. Appena investito della carica, Flaminio attirò l’attenzione presentando al Senato una legge che ai patrizi sembrò un oltraggio: proponeva di distribuire ai veterani e ai poveri le terre appena strappate ai Galli. A giustificazione della sua richiesta, Flaminio adduceva il fatto che la crisi agricola di quegli anni aveva ridotto i plebei alla fame e che era giusto premiare chi aveva sconfitto i Galli rischiando di persona. Inoltre, aggiungeva, l’agro gallico e piceno attualmente non fruttavano niente all’erario di Stato perché erano affidate in amministrazione ad alcune grosse famiglie patrizie che di terre ne avevano fin troppe per riuscire ad occuparsi anche di quelle nel lontano Nord. Dividendole invece tra molti coloni volonterosi, esse sarebbero state messe a buon frutto e, come corollario non irrilevante, si sarebbe liberata la città di un buon numero di fannulloni affamati sempre disponibili per sommosse e disordini.

Tutte queste ragioni, elencate con perfetta eloquenza in un discorso dalla colonna rostrata, suscitarono un pandemonio: il Senato pose subito il suo veto alla legge, rimandandola all’assemblea dei Comitia Centuriata e al tribuno che l’aveva proposta. I senatori fecero notare, a sostegno della loro opposizione, che la pace con i Galli era incerta e che mandare al Nord un nugolo di coloni affamati e rapaci significava senz’altro provocare una nuova guerra. Flaminio non volle sentir ragioni: replicò che il motivo vero del rifiuto era che le terre se le erano accaparrate i latifondisti patrizi, i quali si rifiutavano di cederle al popolo, loro legittimo proprietario.

Con grande costernazione del Senato, la spiegazione un po’ demagogica del giovane tribuno raccolse intorno a sé parecchi sostenitori e gli entusiasmi senza riserve della plebe: alla fine, di fronte alla decisione di Flaminio di far valere i suoi poteri, i patrizi e il Senato furono costretti a cedere e la legge passò. Essi non dimenticarono però l’affronto subito e si diedero da fare in tutti i modi per boicottare l’applicazione pratica del decreto e chi lo aveva promosso: cominciò da questo momento la denigrazione agli occhi del popolo e dei posteri di Caio Flaminio, che venne fatto passare per un ambizioso, sciocco e senza scrupoli, disposto ad andare contro il bene comune per i propri interessi.

LA PERSECUZIONE DI CAIO FLAMINIO

I nemici di Caio Flaminio avevano trovato in lui un punto debole, che per quei tempi era abbastanza grave: egli non credeva nella religione ufficiale e si faceva beffa palesemente degli aruspici e delle loro profezie, che considerava esclusivamente come espedienti politici. I suoi avversari ebbero facile gioco a mettere in giro la voce che il tribuno della plebe era inviso agli dei perché ateo e che terribili calamità si sarebbero verificate a Roma se egli fosse stato ancora rieletto. Il Collegio degli Auguri si mise subito dalla parte del Senato e attaccò Flaminio.

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Probabilmente il popolo ne fu influenzato, perché per un po’ il focoso tribuno scomparve dalla circolazione e dalle cronache degli storici. L’ultimo accenno di quel periodo della sua vita lo ritroviamo in Livio, il quale ci descrive una scena patetica in cui il vecchio padre di Flaminio salì sulla colonna rostrata e si gettò piangendo ai piedi del figlio per ottenere la revoca del decreto sulla distribuzione delle terre galliche, senza però ottenere alcun successo.

Il futuro console riapparve alla ribalta qualche anno dopo con la carica di questore: la plebe tornò ad acclamarlo, con la sua popolarità in continuo aumento. Sotto la sua spinta si cominciò a costruire la via Flaminia, diretta a Nord, probabilmente allo scopo di facilitare le comunicazioni con le terre dei Galli.

LA RIVOLTA DEI GALLI

Nel frattempo, la conseguenza che il Senato tanto paventava si verificò puntualmente: le tribù galliche iniziarono a rivoltarsi, ma questa volta l’insurrezione fu particolarmente seria, con migliaia di Celti riunitisi a Mediolanum pronti a muovere alla volta dell’Urbe.

Vennero subito convocati i due consoli in carica, Lucio Emilio Papo e Attilio Regolo, che si trovavano uno in Sicilia e l’altro in Sardegna. A Roma, gli aruspici tuonavano le loro terribili profezie: dalle viscere degli animali sacrificati era apparso che presto i Celti sarebbero entrati di nuovo in Campidoglio, come secoli prima. La plebe fu presa dal terrore: secondo Polibio, tutti gli ostaggi Galli che si trovavano in città vennero sepolti vivi in un sepolcro per placare l’ira degli dei.

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Emilio Papo, il console patrizio, non era però uomo da perdere la testa: visto che il suo collega era bloccato dal maltempo in Sardegna, si mosse da solo alla volta di Rimini e la liberò dall’assedio. Aneroesto, il re dei Galli, piegò in ritirata verso sud-ovest, e si diresse in Etruria abbandonandosi a devastazioni e a saccheggi. Il console per un po’ lo lasciò fare, in attesa che Regolo sbarcasse finalmente sulla costa italica per chiuderlo in una morsa. La sua strategia riuscì e, riuniti i due eserciti, a Talamone, i Romani sconfissero rovinosamente i Celti. Attilio Regolo fu purtroppo fatto a pezzi poco prima che i barbari si dessero alla fuga nel 225 a.C., con i romani ad inseguirli fino al Po.

IL CONSOLATO DI CAIO FLAMINIO

Aneroesto, il re dei Galli, si era suicidato e le tribù sotto il suo comando si erano disperse: tutti tirarono un sospiro di sollievo, tranne Caio Flaminio. La fazione democratico-rurale che gli faceva capo si mise a protestare e a reclamare le terre al di là del Po per i coloni romani che, in fin dei conti, non avevano ancora goduto dei benefici della legge in loro favore. Il Senato, questa volta, evitò lo scontro frontale. I nuovi consoli in carica ricevettero però la raccomandazione precisa di lasciare le cose come stavano, magari inventando delle scuse plausibili per giustificare la loro inattività. Iniziò così un anno funesto per Roma: gli auguri dichiararono che la cometa apparsa in cielo era un cattivo presagio, qualcuno sostenne di aver visto due lune, e un bue che ebbe il coraggio di salire fino al secondo piano di una casa diede il colpo finale alle speranze di una buona riuscita della campagna contro i Galli. Da più parti si sostenne che quella guerra era invisa agli dei. Dopo pochi mesi, a conferma di tutto ciò, arrivò la notizia che era scoppiata tra i soldati una terribile epidemia: bisognava rassegnarsi a interrompere la campagna e a lasciare i Celti nelle loro terre.

Flaminio e i suoi fecero fuoco e fiamme denunciando come falsa la notizia della pestilenza: le ragioni che addussero e l’eloquenza dell’ex tribuno dovettero far colpo sulla plebe perché Caio Flaminio, contro ogni aspettativa, fu eletto console.

l patrizi si misero subito in movimento per tentare di far invalidare le elezioni prendendo a pretesto che il nuovo console non voleva presenziare alle funzioni propiziatorie in Campidoglio, poichè un ateo non poteva essere posto alla guida dei romani. Inoltre, aggiunsero alcuni testimoni, al momento del giuramento di fedeltà alla repubblica di Flaminio, un topo aveva squittito, segno di cattivo augurio.

Il console plebeo li lasciò alle loro discussioni e si diresse subito al Nord, verso le sue truppe: una volta preso il comando, in mezzo ai suoi soldati, mise in rotta i barbari in poco tempo. Della famosa epidemia non si sentì più parlare. In riva al fiume Adda, nel 222 a.C. l’esercito romano conseguì una clamorosa vittoria sul le tribù degli Insubri, i più feroci dei Galli.

Eppure, anche in questo frangente favorevole, quando ci sarebbero dovute essere solo lodi sperticate, le critiche degli storici furono pungenti. Flaminio, lungi dall’essere il fautore della vittoria, venne accusato al contrario da Livio e Polibio di aver messo in pericolo l’esito della battaglia, dal momento che fece schierare i fanti con le spalle al fiume. In caso di ritirata, commentano i due storici, sarebbe successo un disastro. Ciò di cui non ci si rese conto era che i soldati fossero molto legati al proprio condottiero: il Senato, che aveva tentato di tutto fino a quel momento per far interrompere la campagna e richiamare i due consoli a Roma, dovette rassegnarsi a vedere aumentata a dismisura la popolarità di Flaminio.

I due Consoli fecero ritorno a Roma, acclamati lungo la via; la classe patrizia si prese la rivincita negando il trionfo ai vincitori, ma l’accoglienza loro riservata dal popolo lo rese superfluo.

I CARTAGINESI

Nel frattempo si era verificato un fatto grave: Asdrubale, il comandante delle forze cartaginesi in Spagna, era stato assassinato nella sua tenda da uno schiavo celta. Il suo successore e nipote, sempre appartenente alla potente famiglia Barca, non mostrava alcuna intenzione amichevole verso i romani. Annibale, fin dall’inizio, fece capire con grande chiarezza di non tenere in nessun conto il trattato di amicizia concluso dallo zio. Appena venne la buona stagione, cominciò ad attaccare tutte le popolazioni iberiche rimaste amiche dei romani e, dal momento che questi non erano in grado di difenderle, le obbligò a mettersi dalla sua parte.

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Una volta creato il vuoto tra gli alleati dei romani in Spagna, Annibale si preparò alla sortita finale, l’ultimo atto che doveva provocare la guerra tra le due potenze del Mediterraneo: l’assedio e la distruzione di Sagunto. Dopo aver fatto svernare l’esercito a Cartagena e aver diviso il bottino delle precedenti campagne, si volse direttamente a Sagunto e la prese d’assalto. Gli scopi che si proponeva erano due: prima di tutto, togliere ai romani il possesso dell’intera Spagna, paese fertile e ricco di materie prime, ed in secondo luogo assicurarsi una formidabile riserva di uomini, ottimi combattenti e resistenti a qualsiasi fatica, per il progetto che già aveva in testa, ossia la marcia verso l’Italia.

Ebbe così inizio così l’agonia della più ricca città iberica, una resistenza lunga e disperata in attesa degli aiuti romani che non giunsero mai. Quando le mura già pericolanti crollarono, la disperazione degli assediati fu tale da far loro accendere un gran rogo nella piazza principale per gettarvi gli ori e i preziosi, pur di non lasciarli ai Cartaginesi. Molti preferirono morire tra le fiamme piuttosto che finire schiavi.

Siamo nel 219 a.C. e Roma dichiara guerra a Cartagine.

L’ATTACCO DI ANNIBALE

II Senato cartaginese si era rifiutato di consegnare Annibale, il colpevole della violazione dei trattati. A sostegno di questo rifiuto, aveva addotto un curioso cavillo legale: nell’accordo a suo tempo stipulato da Asdrubale, i Punici si impegnavano a rispettare gli alleati dei romani, ma con questo si intendevano le popolazioni alleate di Roma «al momento» della stipulazione del trattato, ed in quel tempo i Saguntini non lo erano.

Tutti, a Roma, si aspettavano che i Cartaginesi sbarcassero in Italia dal mare: per questo motivo, uno dei due Consoli eletti, Longo, venne mandato in Sicilia a prevenire un attacco da quel lato. L’altro collega, il patrizio Publio Scipione, padre del futuro “Africano”, fu inviato verso la Spagna per dare inizio a una controffensiva.

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A un certo punto, il Console decise di sbarcare a Marsiglia per fare provviste e lasciar riposare gli uomini; lì, come un fulmine a ciel sereno, alcune spie galliche gli riportarono la notizia che Annibale, con l’esercito al completo, era accampato alla foce del Rodano. Ancora incredulo, mandò avanti trecento cavalieri scelti per verificare la situazione.

Annibale, nel frattempo, era riuscito a guadare il fiume con tutte le sue forze, elefanti compresi, e si era addentrato verso le Alpi. Scipione decise di andare ad aspettarlo all’arrivo, ai piedi del passo alpino. Imbarcò i suoi uomini e fece ritorno in Italia: nutriva forti dubbi sulle probabilità del Cartaginese di passare indenne per la catena di montagne ed era comunque sicuro di aver facilmente ragione sui resti delle truppe, stremati e affamati, che si sarebbero affacciati dal passo.

Secondo Polibio, le forze cartaginesi superstiti che andarono incontro all’esercito romano schierato ad accoglierle ammontavano a seimila cavalieri e ventimila fanti. Longo stava intanto giungendo dalla Sicilia per dar manforte al collega ed insieme, accampati nella pianura padana, non dubitavano di poter fermare gli invasori. Quello che però non conoscevano era la forza della cavalleria al soldo di Annibale.

Al primo scontro sul fiume Ticino, Scipione da solo subì la prima sconfitta e ne uscì ferito. Preoccupato, sconsigliò al collega di attaccar battaglia in campo aperto, ma questo, smanioso di farsi bello in vista delle prossime elezioni, non gli diede ascolto e subì una sconfitta durissima al Trebbia. Si era nell’autunno del 218 a.C., con un meteo umido e freddo: Longo mandò subito all’attacco tutte le sue forze e costrinse i fanti, per raggiungere il nemico, a guadare il fiume in piena e dalle acque freddissime. Quando Annibale lanciò i suoi cavalieri numidi, freschi e riposati, contro il nemico, ebbe facilmente la meglio.

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A Roma, la notizia della tremenda disfatta fu tenuta per un po’ celata al popolo: si disse che il maltempo aveva impedito la vittoria completa sul nemico. I due Consoli, intanto, si erano rifugiati a Piacenza con le forze superstiti, consistenti in circa diecimila uomini. La verità non poté però esser tenuta nascosta a lungo. Per calmare le ire del popolo di fronte alla inettitudine del comando supremo, il Senato ebbe un’idea brillante: appoggiò la candidatura di Caio Flaminio, il campione del popolo, quale console plebeo. Il suo collega, Gneo Servilio Gemino, era un personaggio del tutto insignificante: a torto o a ragione, la responsabilità dell’intera campagna sarebbe pesata su Flaminio.

CAIO FLAMINIO CONTRO ANNIBALE

I patrizi, se anche momentaneamente appoggiarono la sua candidatura per calmare il popolo, non cessarono però di osteggiarlo in ogni modo. Caio Flaminio si trovò quindi sempre nella spiacevole situazione di essere preso tra due fuochi: da una parte Annibale, dall’altra il patriziato romano. Questo stato di cose non favorì l’andamento della campagna, né la serenità del comandante supremo.

Appena trascorso l’inverno, la guerra riprese: Flaminio partì per Arezzo dove aveva concentrato le sue legioni, nel tentativo di bloccare i Cartaginesi che avanzavano da Fiesole. Gneo Servilio, invece, stava accampato con i suoi a Rimini. Mentre però i Romani aspettavano i Cartaginesi per attaccar battaglia e fermarli, Annibale oltrepassò di nascosto Arezzo e proseguì indisturbato la sua marcia, incendiando e saccheggiando il territorio degli alleati etruschi di Roma.

Con una mossa assai abile dal punto di vista psicologico, invece di dirigersi subito a sud, Annibale puntò a est, verso Perugia, come se avesse intenzione di prenderla d’assalto. I Romani furono costretti a seguirlo, senza comprendere che da quel momento il manico del coltello non sarebbe più stato nelle loro mani.

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A questo punto bisogna cercare di mettersi nei panni di Flaminio: accusato dagli alleati di non difenderli dal vandalismo dei Punici, continuamente disturbato dalle critiche e dai maneggi dei suoi nemici a Roma che cercavano di denigrarlo in tutti i modi tacciandolo di incapacità e vigliaccheria, riusciva a stento a tener a freno i suoi stessi uomini, esasperati dalla visione del deserto che Annibale si lasciava alle spalle, con la fertile terra d’Etruria trasformata in una landa desolata.

Oltre a ciò, l’altro console, Servilio, più volte sollecitato a muoversi per portar aiuto, sembrava restio a collaborare.

Annibale aveva calcolato tutto: era perfettamente al corrente del passato di Flaminio, del suo carattere sincero ma impetuoso, e dei nemici che si era fatto nella sua fulminea carriera, non ultimi i Celti che aveva cacciato dalle proprie terre e che adesso disertavano in massa dalle fila romane per unirsi ai Cartaginesi. Si dice infatti che fosse stato solo per spirito di vendetta contro i soprusi subiti che i guerrieri insubri avessero seguito Annibale attraverso le terribili paludi di Fiesole, nelle quali lo stesso generale perse un occhio e si ammalò di malaria.

LA MORTE DI CAIO FLAMINIO

Ed eccoci quindi all’ultimo atto della carriera del focoso ex tribuno: abbandonato a sé stesso dai concittadini, senza la collaborazione del collega, si ritrovò da solo a fronteggiare le sue gravissime responsabilità. Se avesse lasciato proseguire Annibale nella sua marcia distruttrice, niente lo avrebbe salvato agli occhi dei posteri e la terribile accusa di viltà di fronte al nemico sarebbe pesata per sempre sul suo nome.

Per questo motivo, contro il parere dei suoi consiglieri più prudenti e lungimiranti, continuò ad andare dietro al Cartaginese, sperando di raggiungerlo e di poter attaccar battaglia; Caio Flaminio era convinto che, se si fosse fermato ad aspettare il lento Servilio, Annibale gli sarebbe sfuggito, a Perugia o nel Lazio. In questo modo, peccando di strategia, Flaminio si lasciò attirare nella trappola mortale del Trasimeno, dove il suo esercito fu distrutto quasi interamente ed egli stesso perse la vita.

L’avanguardia e gli alleati etruschi avevano assicurato che tra le montagne e il lago non c’era anima viva: l’esercito romano fu invece fatto a pezzi nella nebbia, all’improvviso, senza nemmeno poter scorgere la cavalleria nemica che lo chiudeva nello stretto passaggio tra le colline e il lago. Era il 27 aprile del 217 a.C.

Secondo la leggenda, il Console Caio Flaminio Nepote fu ucciso da un Gallo, un certo Ducario, e i suoi resti furono sparsi al vento perché non potesse essergli concessa nemmeno la sepoltura. Annibale fece cercare invano il suo corpo. Servilio, giunto tardivamente nelle vicinanze per portare aiuto al collega, fu facilmente respinto: la disfatta era stata totale.

Quando la notizia giunse a Roma, il Senato, lungi dal minimizzare la sconfitta come aveva fatto per Scipione e Longo, annunciò gravemente al popolo che i romani erano stati battuti in una grande battaglia e non spese neppure una parola in memoria del Console sconfitto, che aveva obiettivamente saputo morire in modo valoroso.

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