IL SETTIZODIO
Nell’ambito delle nostre visite guidate alla scoperta dei monumenti di Roma Antica, ci capita talvolta di dover parlare di edifici scomparsi per l’incuria del tempo o la cattiva gestione del patrimonio da parte degli uomini. È il caso, ad esempio, del Settizodio: sorgeva lungo l’odierna via di San Gregorio, presso l’angolo meridionale del Palatino, di fronte all’antica Porta Capena.
Così ne parla Elio Sparziano, storico dell’Antica Roma, che nella sua Historia Augusta scrive: “Quum Septizonium faceret, nihil aliud cogitavit quam ut ex Africa venientibus suum opus occurreret; et nisi absente eo per praefectum urbis medium simulacrum eius esset locatum, aditum Palatinis aedibus”. Da tale lettura, pare evidente che questo singolare monumento servisse da grandioso sfondo scenografico soprattutto per coloro che, arrivando dall’Oriente, giunti alla fine della via Appia ed arrivati ormai alle porte della città, avessero subito un’immagine festosa e rutilante non solo di Roma, ma anche e soprattutto dell’Imperatore, che proprio sul Palatino aveva la sua dimora.
Pochissimo sappiamo del monumento dalle sole notizie di età classica; oscura è la sua storia e la maggior parte degli stessi particolari costruttivi ci rimane ignota, quantomeno a livello dettagliato. Fortunatamente le sue rovine, più precisamente quelle dell’ala terminale destra, costituirono uno dei soggetti preferiti degli artisti del XV e XVI secolo: in questo modo, molti personaggi illustri (Francesco di Giorgio Martini da Siena, Giuliano e Antonio da Sangallo, Frà Giocondo, il pittore olandese Marten van Heemskerck, l’architetto italiano Antonio Dosio e l’artista francese Étienne Dupérac) hanno permesso agli archeologi di riconoscere le principali caratteristiche dell’edificio.
Al fine di esaminare al meglio le notizie inerente questo monumento, è d’uopo iniziare con una domanda specifica: perché venne chiamato Settizodio?
Un frammento della Forma Urbis, la nota pianta marmorea della città di epoca severiana, ne fissa il nome ufficiale in Septizodium, ma fra le fonti antiche si trova anche il nome Septizonium, che indicherebbe un edificio composto di sette piani, fino cioè a raggiungere l’altezza delle fabbriche imperiali del Palatino. Nel medioevo il monumento si ritrova col nome corrotto di Septodium, o “Scuola di Virgilio”, derivante dal fatto che, secondo la tradizione popolare, vi erano state fondate le sette arti liberali del Trivio e del Quadrivio. Più spesso, nei testi medievali, è definito Sedem Solis oppure Septemsoliis, richiamandosi in tal modo alle leggende medioevali che ne attribuivano la destinazione a luogo di culto delle sette divinità planetarie o del sole e della luna.
Si consideri però che quello sul Palatino non era l’unico edificio della Roma Antica avente questo nome. Dalle fonti sappiamo che nella Città Eterna esistevano almeno altri due edifici chiamati Settizonio, uno sull’Esquilino, accanto alla casa natale di Tito (citato da Svetonio) l’altro adibito a sepolcro di Geta, lungo la via Appia (citato da Sparziano). Ciò farebbe pensare che il nome venisse usato come termine indicante una determinata struttura architettonica, tant’è vero che lo ritroviamo usato anche in alcune iscrizioni africane, riferito per l’appunto a ninfei monumentali.
Costruito come superbo prospetto marmoreo dall’Imperatore Settimio Severo nel 203 d.C., il Settizodio era formato da tre ordini di colonne, per un’altezza di circa 38 metri e si estendeva per circa 100 metri, presentando in facciata tre absidi collegate da quattro avancorpi rettilinei. Non è escluso che, al di sopra della cornice dell’ultimo piano, ne esistessero altri tre, tanto da giustificare in tal modo il nome dell’edificio, costituendo in tal modo le sette zone di tutta la parte frontale. Era stato costruito con gran lusso di marmi e aveva colonne di giallo antico, africano e granito, con capitelli corinzi e fusti sia scanalati che lisci. I soffitti a lacunari di ciascun piano erano ornati con rosoni, mentre esedre con artistiche fontane e statue ne ornavano la facciata.
Pare, inoltre, che dovesse esserci anche una statua colossale dell’Imperatore, forse di fronte al monumento stesso, per quanto risulta dagli scavi fatti eseguire dall’archeologo Carlo Fea nel 1829. Sull’architrave del primo e del secondo ordine correva la lunga iscrizione che nominava Settimio Severo e suo figlio Caracalla.
La prima notizia di rilievo riguardante la storia del Settizodio si apprende dall’Anonimo di Einsiedeln: si tratta di un manoscritto composto con le scritte di una pianta della città di Roma dell’epoca di Carlo Magno, preparato a vantaggio dei pellegrini diretti verso i principali centro religiosi della città. Da tale testo, che copia anche la prima parte dell’iscrizione rimasta in loco, si ricava che già nell’VIII secolo fosse andata in rovina la parte centrale dell’edificio, le cui estremità si trovano distinte nei secoli seguenti coi nomi di Settizodio Maggiore e Settizodio Minore.
Ridotto a fortezza dai monaci di San Gregorio attorno al X secolo, nel 1084 sostenne l’attacco di Enrico IV contro il nipote di Papa Gregorio VII, subendo gravi danni. Successivamente, nel XII secolo, dapprima divenne un carcere dove fu rinchiuso l’antipapa Burdino, catturato a Sutri dai soldati di Callisto II, e quindi nel 1145 divenne per oltre un secolo proprietà dei Frangipane, unitamente alle fortificazioni presso il Circo Massimo che, congiunte insieme, si ergevano a protezione del Palatino.
Secondo le fonti medievali, fu proprio nel Settizodio che, nel 1241, si tenne il conclave per l’elezione a Papa di Celestino IV. Nel 1249 poi, tornato in possesso dei monaci di San Gregorio, esso divenne dimora di Jacopa de’ Settesoli, la devota amica di San Francesco d’Assisi.
Di questo importante monumento, in realtà, non resta oggi alcuna traccia: adibito a cava di materiale da costruzione, infatti, venne alla fine del XVI secolo letteralmente smantellato pezzo per pezzo nel giro di pochi mesi. Artefice di tale demolizione fu nel 1589 Papa Sisto V, desideroso di riciclare i preziosi materiali da costruzione, per mano dell’architetto Domenico Fontana.
Sisto V fu Papa dal 24 aprile 1585 al 27 agosto 1590, e tutto ciò che venne scoperto o distrutto durante il suo pontificato si trova quasi interamente conservato nel Libro del Signor Cavalier Domenico Fontana Architetto, ove sono annotate tutte le spese effettuate nelle fabbriche innalzate dalla gloriosa memoria di Papa Sisto V.
Secondo i calcoli del Fontana, le opere di questo Pontefice, fino al 18 dicembre 1589, erano già costate all’erario la bella somma di oltre un milione di scudi. Certamente la città trasse da tutto ciò molti vantaggi apprezzabili ancor oggi, ma altrettanto sicuramente ne sarebbe stata avvantaggiata anche l’archeologia se si fosse almeno preso nota di tutto ciò che veniva distrutto. Dobbiamo basarci, invece, sui disegni e sulle descrizioni degli artisti e degli antiquari che ne videro gli ultimi avanzi.
Quali sono questi disegni, che rappresentano una memoria storica fondamentale per il Settizodio?
Siamo intorno all’anno 1535 e a Roma fervevano i preparativi per l’arrivo dell’Imperatore Carlo V. Analogamente a quanto sarà fatto alcuni secoli dopo, nel 1938 (vedi l’articolo del nostro blog sulla Meta Sudans), una delle vie prescelte per il solenne corteo imperiale fu quella di San Gregorio, che venne allora raddrizzata tagliando parte della vigna di mastro Guido da Viterbo, entro cui si nascondevano per l’appunto i ruderi del Settizodio. Messo in tal modo allo scoperto, il monumento fu disegnato dall’olandese Marten van Heemskerck, che ci ha lasciato la rappresentazione più artistica e scientificamente esatta del rudere: si tratta di due disegni a penna, alti circa trenta centimetri, che mostrano in modo chiarissimo quali strutture ancora avesse il Settizodio e di quale natura.
“La mesura et stima della disfatura”, come annotato da Domenico Fontana, costò un ammontare complessivo pari a 994,10 scudi. Durante tale operazione di demolizione fu distrutta anche l’antica diaconia di Santa Lucia, risalente all’età carolingia, che si trovava tra il Settizodio ed il Circo Massimo: questo fatto attirò più di tutti le ire degli avversari del Papa, il cui carattere assai burbero e risoluto aveva scatenato parecchie inimicizie.
I blocchi di peperino, travertino e marmo rimasero per lungo tempo ad ingombrare la Piazza di San Gregorio: la destinazione degli stessi può essere rintracciata quasi integralmente proprio grazie ai fascicoli delle spese redatte da Domenico Fontana.
Sappiamo che 33 massi per il basamento, più quattro pezzi di colonne di granito, servirono per l’obelisco di Piazza del Popolo; altre colonne di granito “per fortezza delli balaustri” furono collocate intorno al piedistallo dell’obelisco Vaticano; altri travertini e marmi vennero impiegati per i restauri della Colonna Antonina e per le basi dei Dioscuri a Montecavallo, mentre un impiego meno glorioso fu quello per il lavatore di Termini con annessa casetta per le lavandaie (98 massi di peperino più una dozzina di marmi e travertini).
Naturalmente Sisto V volle qualcosa anche per sé e pertanto molto materiale è rintracciabile nel Palazzo Pontificio al Laterano, oltre che nella Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore.
Dai disegni dell’Heemskerck si rileva che il Settizodio intorno al 1535 contasse ben 22 colonne in buono stato, mentre dai conti del Fontana se ne riescono a rintracciare solo 18. Ciò sta ad indicare che molto probabilmente le condizioni del rudere nell’ultimo mezzo secolo fossero andate progressivamente peggiorando, giustificando in un certo modo la sua completa demolizione: solo in questo senso si potrebbero attenuare le colpe di Papa Sisto V, desideroso di appropriarsi del materiale di costruzione antico anziché preservarlo, come in realtà fecero parecchi dei suoi predecessori e dei suoi successori.
—
Se l’articolo del nostro blog vi fosse piaciuto, potreste decidere di partecipare ad una delle visite guidate organizzate dall’Associazione Culturale Rome Guides. Contattateci per creare l’itinerario perfetto per le vostre richieste.