L’IMPERATORE TRAIANO
Marco Ulpio Traiano aveva quarantacinque anni quando, nel campo di Colonia nella Bassa Germania, lo raggiunse l’annuncio della morte dell’imperatore Nerva che gli recava il suo nipote e pupillo, Elio Adriano. Il potere imperiale che divideva da tre mesi con il padre adottivo divenne così completamente suo.
Tale notizia non turbò il corso delle sue attività: d’altra parte la convergenza di alcuni segni premonitori aveva già avvertito Traiano dell’alto destino che gli era riservato. Aveva sognato, tra l’altro, un vecchio in abiti senatoriali apporgli al collo il sigillo della repubblica. L’indomani ricevette in segreto un magnifico diamante inviatogli da Nerva come pegno della sua totale fiducia e fu proprio su quel diamante che vennero poste le basi della fortuna della dinastia nota come Antonina, ma che sarebbe meglio denominare Ulpiana, dal nome del comune antenato, ossia Ulpio di Italica.
L’ADOLESCENZA DI TRAIANO
Italica è una piccola città della Betica spagnola (l’attuale Andalusia), un municipio fondato da Scipione l’Africano che vi installò i suoi veterani e i suoi invalidi dopo la battaglia di Zama, quattro secoli or sono. Senza alcun dubbio la famiglia Ulpia, di insediamento molto antico, era italiana già dalle prime origini, ma spesso i coloni prendevano per moglie donne iberiche o che discendevano dai conquistatori mori o fenici: ciò spiegherebbe la carnagione scura di Traiano, ben presto messa in risalto da una precoce canizie, e la sua indole impetuosa e visionaria mantenuta tuttavia sotto controllo dal suo senso tutto romano della realtà.
Alcuni storici lo hanno paragonato ad Alessandro Magno per l’audacia della sua ambizione e la grandezza della sua opera militare e civile. È bensì vero che aveva contratto sin dall’infanzia una grande ammirazione per quel conquistatore di cui Plutarco aveva appena scritto la vita, ma non gli venne impartita la smisurata educazione del Macedone e, benché fosse nato in una famiglia di senatori, dovette imparare tutto da solo, in modo lento ma progressivo. Quando gli toccò in sorte il potere supremo, quasi suo malgrado, era nel pieno vigore degli anni e seguiva le sue inclinazioni senza mai eccedere in nessuna, salvo che nella propensione al lavoro. Gli fu rimproverata al massimo una forte attrazione per la guerra; quanto alle sue debolezze per il vino e per i bei ragazzi, non gli furono mai d’ostacolo sulla via del dovere.
Non era destinato a rimanere nella natia Italica: suo padre si era infatti già trasferito a Roma, attratto dalla fazione spagnola che si andava formando attorno ai suoi compatrioti Seneca e Lucano. Morì poco dopo l’avvento del figlio alla massima carica, senza aver preso parte ad alcuna manovra per accrescere la fama del figlio: secondo le cronache, anzi, lo tenne accanto a sè in modesti posti di comando sin dal suo sedicesimo anno di età e, invece di prepararlo alle grandi cariche civili, lo lasciò per dieci anni di seguito ad esercitare la funzione di tribuno militare in Oriente e sul Danubio.
Una volta a Roma, Traiano fece carriera nell’amministrazione civile senza farsi particolarmente notare. Sappiamo, del resto, che tutto questo periodo si svolse per lui all’ombra degli uffici, ma che alcune ambascerie gli permettevano di ritrovare gli spazi aperti delle Province e la rude vita delle legioni, dove poteva finalmente respirare a suo agio. Ritornò quindi per qualche tempo in Germania, sul Danubio, poi in Spagna, al comando della Legio III Gemina: era popolare nell’esercito e conosceva per nome tutti i centurioni. Condivideva la stessa vita dei soldati, marciando a piedi al loro fianco e mangiando lo stesso lardo; la sua forza fisica e la sua resistenza erano considerevoli, tanto che a suo nume tutelare aveva eletto l’Ercole di Cadice, l’eroe protettore dell’avita Italica, che non disdegnava nessun lavoro e nessuna ardua impresa.
È lecito pensare che meditasse delle grandi gesta durante questo periodo in cui non aveva avuto l’occasione di dar sfoggio di sé. D’altra parte si vedrà chiaramente in seguito come ribollisse d’impazienza e di indignazione quando vedeva con quale insuccesso e quale debolezza Domiziano affrontasse Decebalo, il Re dei Daci, al punto di comprarsi la tranquillità sul Danubio fingendo invece di aver riportato un trionfo. Non prese parte a queste campagne umilianti, ma ne trasse la debita lezione tanto che la sua prima azione fu, non appena acclamato Imperatore, di ispezionare gli eserciti del Reno e del Danubio.
IL RITORNO A ROMA
Questo dimostra quanto il nuovo imperatore avesse ben poca fretta di affrontare una serie di regolamenti di conti che raddoppiarono di intensità, nell’Urbe, dopo la morte di Nerva. Per quel che lo riguardava, aveva un solo dovere nei confronti dello Stato: quello di vendicare il padre adottivo, come richiesto da quest’ultimo nel suo testamento.
Convocò dunque nel suo campo di Strasburgo Eliano Casperiano, Prefetto dei Pretoriani, e coloro tra i suoi Pretoriani che avevano osato ricorrere alla violenza contro il vecchio imperatore. Costoro ottemperarono all’ordine nella speranza di vedersi confermati nei loro incarichi, ma subirono invece la punizione che attende i ribelli. I Pretoriani rientrarono immediatamente nei ranghi e, ciò che è notevole, rimasero tranquilli da quel momento in poi per quasi un secolo di seguito.
Nello stesso tempo, a Roma, la caccia ai delatori e ai nostalgici del dispotismo venne portata a termine. Il giorno del suo ritorno a Roma fu grandioso. I portici, le piazze, i sagrati dei templi e i tetti stessi erano ricoperti di uomini, donne, bambini e invalidi. Passò maestoso tra la folla, a piedi, più alto di tutti di una testa: salì sulla cima del Campidoglio e, quando ne ridiscese i gradini, sua moglie Plotina era ad aspettarlo per prenderlo per mano e recarsi assieme al Palatino accompagnati dal popolo. Fi in quel punto che Plotina si rivolse a tutti dicendo: “Tale mi vedrete entrare in questo palazzo e tale mi vedrete uscire”.
Plotina mantenne la promessa. Questa donna fu una compagna ammirevole, per il coraggio e la semplicità, di un uomo dal carattere esigente.
PLOTINA E TRAIANO
Plotina era figlia di un certo Pompeo di Nimes di cui ben poco ci è dato sapere. È lecito immaginare che fu Marciana a combinare il matrimonio al tempo in cui il fratello era legato nella provincia Tarrasconese. Plotina era ricca, colta ed educata con grande severità. La sua bellezza non era di quelle che facevano colpo, ma era carismatica e certamente dotata di una certa sensualità: dieci anni più vecchio di lei, Traiano accettò un partito così vantaggioso e che piaceva a sua sorella, circostanza che, come l’avvenire dimostrerà, aveva ai suoi occhi una forza decisiva.
La sua attività sessuale, che mai turbò la sua condotta, lo portava verso gli efebi, mentre la sua affettività gli dava una propensione per le donne forti che assumevano per lui le responsabilità dinastiche di cui non aveva il tempo di occuparsi. In tal senso, Marciana e Plotina formarono al suo fianco una vera entità protettrice.
La cultura di Traiano non era così sviluppata come quella dei giovani romani che studiavano la filosofia all’età in cui egli già si esercitava nell’arte della guerra, ma non ne provava né imbarazzo né gelosia. Al contrario gli piaceva frequentare la società degli scrittori e degli artisti e, nei certami oratori dei banchetti, li disarcionava spesso con il suo semplice buon senso; sopportava i grandi sofisti perché adoperavano il loro talento per convincere il pubblico dell’eccellenza del suo governo, ma non penetrava la loro fin troppo sottile dialettica.
Così era la sua natura, franca e senza vanità. Lo si capisce del resto dalla saggezza che caratterizzò tutta la sua amministrazione: si trattava di una saggezza basata su un grande scrupolo di giustizia, anche se questa giustizia si improntava a volte alla severità dell’antico paterfamilias romano, la cui tradizione era stata mantenuta nelle province spagnole. Fu molto favorevole al Senato di cui rispettò le prerogative formali e rimase fedele al suo giuramento di non mettere mai a morte nessun senatore; mise in vigore leggi severe riguardanti gli schiavi, da tempo inapplicate, e favorì l’Italia rispetto alle Province, obbligando i senatori ad investirvi almeno un terzo delle loro fortune in acquisto di terreni. Queste misure non erano tanto un ritorno al passato, come si potrebbe credere, quanto un rimettere ordine in uno stato di cose abbandonato allo squilibrio.
LA PRIMA GUERRA DACICA
Il suo sguardo era acuto e mirava all’orizzonte: la cornice di Roma fu ben presto troppo stretta per il suo temperamento attivo. Se non è giusto affermare che preferì la guerra alla pace, bisogna riconoscere che sopportava più difficilmente di altri il fatto di dover pagare i barbari per la sicurezza delle frontiere. Si fece carico del compito di metter fine a una politica puramente difensiva e a tale scopo osò non tener conto del testamento di Augusto, in cui erano stati fissati per sempre i limiti invalicabili dell’impero.
Non contento d’aver fortificato per lunghi anni la frontiera renana, la sua attenzione si spostò sul Danubio, dove un principe barbaro, dando prova di pazienza e abilità estreme, e approfittando della vergognosa politica di eccessive concessioni, gettava le basi di un temibile impero militare. A nord del fiume, nelle regioni che si estendevano fino alle sterminate pianure scite, alcune popolazioni di ceppo sarmatico stavano per realizzare quello che alle tribù germaniche non era mai riuscito, ossia un’unione salda e duratura intorno a un solo capo guerriero. Quello dei Daci si chiamava Decebalo.
Dopo due anni di minuziosa preparazione, Traiano pensò che fosse giunta l’ora di andare a sondare la forza dell’avversario. Concentrò a Viminacio un grande esercito e da lì partì, in marzo, seguendo il corso del Danubio, che attraversò su di un ponte di barche a Lederata. Non si lasciò però ingannare dall’apparente facilità dell’impresa: i Daci, infatti, davano l’impressione di voler evitare il confronto armato, volendo attirare anche lui nelle gole montagnose dove già avevano preso in trappola Cornelio Fusco e le sue legioni.
Traiano avanzava soltanto dopo essersi assicurato la protezione delle retrovie, rimettendo a posto il terreno devastato dal nemico nella sua ritirata tattica. La prima grande battaglia si svolse, una volta ancora, a Tapae, e Decebalo dovette ritirarsi nella gola delle Porte di Ferro che difendeva la sua capitale. Traiano però non lo inseguì, poiché l’inverno era prossimo, a conferma di quanto lentamente e saggiamente avesse intrapreso quell’avventura.
Con altrettanta lungimiranza, si comprese come non avesse sottovalutato la potenza dei Daci quando, nel pieno dell’inverno, Decebalo riprese l’iniziativa per andare a saccheggiare la Mesia. Traiano non ne fu sorpreso e respinse l’avversario nel corso di combattimenti così sanguinosi che, pare, vennero a mancare le bende per i feriti e l’Imperatore stesso ordinò che venissero stracciate le sue vesti per ricavarne le bende necessarie.
Vedendo che i suoi alleati volgevano in ritirata, Decebalo mandò delle ambascerie a Traiano, ma le prime di queste, formate da gente sporca e con i capelli lunghi, non furono ricevute. Allora mandò personaggi importanti e ben vestiti, con tanto di berretto, e Licinio Sura, il capo di stato maggiore, assistito da Claudio Liviano, il prefetto del pretorio, pose loro le condizioni. Decebalo non le trovò però conformi al suo onore o al suo interesse e proseguì il combattimento, che si risolse a suo svantaggio, poiché Traiano finì per circondare la sua capitale e soltanto allora si rassegnò a chiedere la pace.
Il prezzo fu alto, poiché Decebalo dovette smantellare tutte le opere difensive e consegnare tutti i prigionieri e i transfughi, centurioni e genieri, che gli avevano consentito di formare il primo esercito moderno di barbari. Dovette anche, beninteso, rinunciare ai sussidi di Roma e a Sarmizegetusa venne insediata una guarnigione romana.
Come gli avvenimenti successivi dimostrarono, niente era stato effettivamente risolto, ma Traiano aveva potuto così misurare l’estrema difficoltà del terreno e il genio del suo avversario. Fece ritorno a Roma durante l’autunno di quel secondo anno di guerra e in suo onore fu decretato un magnifico trionfo in occasione del quale gli venne conferito il titolo di Dacicus.
LA SECONDA GUERRA DACICA
Traiano amava le belle costruzioni e fece innalzare monumenti magnifici a Roma ed in molti altri luoghi dell’Impero. Non rovinò però il tesoro pubblico, come in parte fecero Nerone e Domiziano: difatti, anche se le città tentavano, per vanità, di rivaleggiare in bellezza con Roma, Traiano inviava dei curatores che ne controllavano le finanze. Nessuno tracciò più strade di questo imperatore, prosciugò più terreni paludosi o ingrandì un maggior numero di porti.
Nel frattempo, però, a Decebalo bastarono tre anni per ricostruire la sua potenza, facendo ricostruire in segreto le fortificazioni e le macchine di guerra. Attaccò all’improvviso gli Jazigi, alleati dei romani; appena ne ebbe notizia, Traiano fece chiudere le porte del Tempio di Giano e chiese al Senato di dichiarare le ostilità. Quindi, in una calda notte di giugno del 105 d.C. si imbarcò da Ancona.
Quando arrivò sul Danubio, le postazioni romane erano state travolte e il legato Longino fatto prigioniero. Traiano non ebbe fretta: fu soltanto nel corso dell’anno successivo che egli passò all’offensiva con tredici legioni, una forza davvero considerevole. Dopo feroci combattimenti, Decebalo fu costretto ad abbandonare Sarmizegetusa e a fuggire sulle montagne. I condottieri Daci compresero allora di essere perduti e si riunirono una notte per un grande banchetto alla fine del quale bevvero da una coppa avvelenata. Il loro re ritenne di poter ancora resistere nelle foreste, ma fu braccato: ormai senza scampo si gettò sulla propria spada e, una volta trovato il suo corpo, la sua testa fu inviata a Roma.
Il racconto di questa lunga guerra è ancor oggi mirabilmente narrato dal fregio della Colonna Traiana.
TRAIANO E I PARTI
Carico del tesoro che Decebalo aveva nascosto sotto il letto di un fiume, Traiano ritornò a Roma dove lo attendeva un magnifico trionfo. Proclamò 130 giorni di festeggiamenti e volle che 5.000 coppie di gladiatori si affrontassero nell’anfiteatro. Esercitò più volte il consolato, non per privare altri di tale carica, ma per restituire dignità a tale funzione.
Negli anni che seguirono, Traiano ebbe il grande dolore di perdere dapprima il padre, il vecchio generale, quindi sua sorella Marciana (divinizzò l’uno e l’altra) ed infine l’amico Licinio Sura, morto a 54 anni. Di quest’ultimo in particolare, amico assai fidato, Traiano sentì certamente una profonda mancanza: forse fu proprio per la sua assenza che Traiano si impegnò nell’imitazione del suo eroe Alessandro Magno, tanto affascinato dall’Oriente da morirvi senza aver designato il proprio erede.
Traiano, però, non era un impulsivo. Se meditò di spingersi oltre i confini dell’Impero con i Parti, ciò era dovuto al fatto che si trattava di una vecchia faccenda il cui contenzioso era sempre in sospeso: credeva in definitiva che si dovesse risolvere quel problema e che fosse suo compito il farlo.
L’occasione non gli mancò poiché, con la stessa imprudenza di Decebalo, il nuovo re, l’arsacide Cosroe, sottovalutando la volontà di reagire dell’imperatore, credette giunto il momento di infrangere il trattato firmato con Nerone mezzo secolo prima, che rendeva di fatto l’Armenia una specie di comproprietà tra i Romani e i Parti. Cosroe prese su di sé il rischio di deporre il sovrano regnante, Pacoros, e di sostituirlo con un fratello a lui fedele, Partenosiride. Pacoros si appellò a Roma e Traiano colse al volo l’occasione, ma agendo come al solito con grande prudenza.
Dopo due anni di preparativi, nell’autunno del 113 d.C. si imbarcò a Brindisi per arrivare fin nel cuore dell’Armenia. L’anno successivo volle assicurarsi la tranquillità delle sue prime conquiste sottomettendo alcune città della Mesopotamia su ambedue le rive del Tigri; si trattò di una saggia precauzione, ma da quel momento in poi si trovò trascinato sempre più lontano verso il cuore dell’impero dei Parti.
Ritornò a trascorrere l’inverno ad Antiochia, ma proprio in quel luogo, il 13 dicembre 115 d.C., scoppiò nella notte uno spaventoso terremoto che sollevò le case, cambiò il corso delle acque, distrusse un terzo della città e fece un numero incalcolabile di morti. Traiano, per fortuna, trovò scampo fuggendo da una finestra del palazzo, portato a spalle, secondo le voci dell’epoca, da un uomo di statura molto più grande della media, detto l’Ercole di Cadice, sotto la cui protezione si trovava sin dall’infanzia. La terra continuò a tremare ancora per parecchi giorni, ma alla fine Traiano ricostruì Antiochia ancora più bella di prima.
Nel corso della primavera seguente si rimise alla testa dei suoi eserciti in Mesopotamia, l’uno lungo l’Eufrate e l’altro lungo il Tigri. Attraversò quest’ultimo fiume su di una flotta che aveva fatto costruire a Nisibe: si mise lui stesso al timone della trireme pretoriana, a testa nuda, dividendo le fatiche dei suoi soldati. Non fu mai visto tanto attivo come in questa occasione e la fuga di Cosroe gli diede l’idea e l’opportunità di conquistare l’Assiria e di raggiungere, lungo l’Eufrate, Babilonia, dove era morto Alessandro Magno.
LA FINE DI TRAIANO
Fu soltanto sulla via del ritorno che venne a sapere di come, alle sue spalle, i Parti si fossero sollevati nei territori occupati e di come, cacciate le guarnigioni, Cosroe fosse riuscito a radunare i suoi vassalli in una specie di unione nazionale. In aggiunta a ciò, come se non bastasse, i giudei di Babilonia avevano obbedito a una parola d’ordine insurrezionale che accese la rivolta in tutte le comunità giudaiche tutt’attorno al Mediterraneo, minacciando le linee di comunicazione romane.
Parlando in modo strettamente politico e burocratico, in quella spedizione non andò persa nessuna provincia romana, poiché anche se Traiano aveva avuto l’intenzione di annettere le terre conquistate sotto il nome di “Provincia di Mesopotamia” e “Provincia di Assiria”, egli non ebbe il tempo di organizzarle politicamente o organizzativamente. Era troppo saggio, d’altronde, per aver sperato che le legioni potessero essere in grado di controllare degli spazi così vasti. Aveva semmai l’idea di costituire degli stati-clienti con i pezzi di un impero dei Parti che si mostrava in evidente via di dissoluzione: per questo, approfittando delle divisioni in seno al clan degli Arsacidi, convocò nella pianura di Ctesifonte una grande assemblea di principi dissidenti e incoronò nuovo re dei parti Partamapate, figlio di Cosroe, con il quale firmò un trattato di alleanza.
Traiano, però, cominciò a stare male. Il sole ardente, la fatica delle battaglie e le mille problematiche connesse con una impervia campagna militare gli indebolirono l’organismo. Non perse mai lucidità o intelligenza, ma rimase in grado di camminare solo per brevi tratti, e quando arrivò ad Antiochia alla fine di luglio si temette che non avesse la forza di ritornare a Roma, dove lo attendeva un magnifico trionfo.
Una grande incertezza si era intanto insinuata nell’animo di coloro che lo circondavano, in particolare in quello di Plotina e di Adriano, che erano stati sin dall’inizio sfavorevoli a spedizioni così lontane; furono infatti presi dall’inquietudine quando lo sentirono parlare di voler ritornare laggiù per la stagione successiva. La preoccupazione per una sua scomparsa al modo di Alessandro Magno, ossia senza lasciare successori, li spinse a fare pressione sulla sua volontà in tal senso.
Traiano si imbarcò senza essersi espresso in merito, insieme a Plotina e ai Pretoriani, con il fidato medico Critone che gli era sempre accanto. Non andò però oltre Selinunte, in Cilicia, dove fu portato a terra agonizzante. Gli avvenimenti che vi si svolsero sono avvolti nel mistero: le voci, mai confermate, sussurrarono che Traiano morì senza aver adottato Adriano e che il testamento fu concepito da Plotina e scritto di sua mano come se si trattasse delle ultime volontà dell’Imperatore.
Traiano credette di essere stato avvelenato, ma i referti dei medici dimostrano che morì in seguito all’apoplessia prodottasi durante la notte del 7 agosto 117 d.C.
La sua morte venne tenuta segreta per tre giorni affinché la notizia dell’adozione di Adriano e la sua designazione a Cesare potessero essere rese pubbliche ad Antiochia da Adriano stesso, prima che questi annunciasse di persona all’esercito che vi era un vuoto di potere. Tale vuoto di potere fu allora colmato dall’acclamazione (che aveva forza di investitura imperiale) del Cesare da parte delle legioni, atto che aveva la forza dell’investitura imperiale.
L’11 agosto del 117 d.C. Adriano diventava il nuovo Imperatore di Roma.
—
Se l’articolo del nostro blog vi fosse piaciuto, potreste decidere di partecipare ad una delle visite guidate organizzate dall’Associazione Culturale Rome Guides. Contattateci per creare l’itinerario perfetto per le vostre richieste.