Tecniche dell’arte medievale

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TECNICHE DELL’ARTE MEDIEVALE

Rispetto alla complessa e raffinata tecnica della pittura murale a fresco dell’Impero Romano, quale è testimoniata dai numerosissimi reperti di Pompei, Ercolano e Roma, nonché dalle accurate descrizioni di Vitruvio e Plinio, nella fase declinante dell’Impero e nei successivi secoli di Alto Medioevo, i procedimenti ed i materiali di esecuzione dell’affresco tesero in modo sempre più evidente ad una progressiva semplificazione.

Nelle pitture catacombali, ad esempio, gli strati preparatori di intonaco si ridussero generalmente a due, mentre scomparve la pratica della levigatura della superficie, che iniziava ad apparire scabra ed irregolare. Osservando oggi con attenzione uno dei principali cicli di pittura murale di epoca altomedievale presente a Roma, ossia quello che ancor oggi decora le pareti della chiesa di Santa Maria Antiqua nel Foro Romano (visitala con il biglietto Full Experience nell’ambito del Tour della Roma Imperiale), si può osservare un numero ridotto di strati preparatori, una stesura degli intonaci “a pontate” (ossia seguendo l’andamento dei vari piani del ponteggio predisposto per la realizzazione pittorica), tracce di sinopia sull’arriccio con funzione preminente di sommaria spartizione delle superfici ed infine rari esempi di linee incise sull’intonaco fresco riguardanti gli schemi geometrici della decorazione o particolari ornamentali, quali per esempio le aureole.

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Non è però da escludere che fosse diffusa la pratica di rifinire più o meno estesamente a secco le pitture murali. In questo caso, sull’intonaco fresco veniva steso il disegno preparatorio (da non confondersi con la sinopia, che è l’abbozzo generale delineato sullo strato di intonaco sottostante o direttamente sul muro) assieme ai colori di fondo e al primo aspetto del modellato delle figure, utilizzando poi per la campitura vera e propria e per la definizione ultima della decorazione colori stemperati in leganti organici oppure mescolati con idrossido di calcio più o meno diluito, applicati quando l’intonaco era già asciutto.

È questo, ad esempio, il procedimento che usa Cimabue per le pitture murali dell’abside e del transetto nella Basilica superiore di San Francesco ad Assisi.

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Le fonti testimoniano la continuità della tecnica dell’affresco durante il Medioevo, come pure l’uso della cosiddetta ‘‘pittura a calce’’, consistente nel mescolare l’idrossido di calcio direttamente con i colori o nella stesura sull’intonaco asciutto di un velo di latte di calce. Teofilo, monaco del XII secolo e autore di De diversis artibus, il primo grande trattato medievale di tecniche artistiche, in uno dei capitoli dedicato alla pittura murale (il De mixtura vestimentorum in muro) scrisse chiaramente del bianco di calce per ottenere le lumeggiature e del modo di dipingere su un muro già asciutto.

Senza dubbio, però, il sistema prevalente impiegato nella decorazione murale in epoca medievale fu l’affresco che, a partire soprattutto dal XIII secolo, riuscì ad ottenere effetti e risultati nuovi rispetto alla tradizione di ispirazione bizantina. In tal senso, si riuscì progressivamente a cogliere un’elaborazione più accurata della stesura pittorica, che abbandonò la pratica delle grandi campiture cromatiche definite per sovrapposizioni di toni su un disegno semplificato, per elaborare invece una più complessa articolazione spaziale e compositiva, con un’individuazione più accurata dei rapporti volumetrici e plastici della figurazione.

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Queste nuove esigenze comportarono naturalmente alcuni adeguamenti nella tecnica di realizzazione di un affresco, che possono essere così schematizzati:

  • uso sistematico e generalizzato della sinopia come fase di abbozzo complessivo dell’effetto decorativo;
  • stesura dell’intonaco ultimo, destinato a ricevere i pigmenti stemperati in acqua, non più per pontate ma per “giornate” (a volte anche molto piccole, come un volto o una mano), così da scegliere l’estensione del campo di lavoro giornaliero sull’intonaco fresco, considerando unicamente il grado di difficoltà e variando i tempi di stesura a seconda della parte da eseguire;
  • realizzazione particolareggiata del disegno preparatorio sull’intonaco fresco, affidata prevalentemente all’incisione diretta;
  • opportunità di dipingere a secco e a tempera alcuni colori, come l’azzurrite e l’oltremare, che tendevano a schiarire eccessivamente a contatto con la calce dell’intonaco, o come il cinabro, che subiva evidenti alterazioni di tonalità.

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Conseguentemente, i colori consigliati per la pittura a fresco nel Medioevo erano le ocre gialle e rosse, la terra di Siena naturale e la terra di Siena bruciata, la terra verde ed il bianco di san Giovanni. Per alcuni colori si usavano sostanze organiche, come ad esempio il nero di ossa e carbone di legna per il nero.

Le parti rilevate, le aureole o le corone, erano dapprima segnate e delimitate dall’incisione, infine modellate e dipinte secondo l’occorrenza. Particolarmente usata per tali dettagli, la doratura prevalente nell’affresco prevedeva l’uso della lamina d’oro in foglia, fatta aderire alla superficie con una missione composta da una miscela oleo-resinosa; in alternativa, spesso per risparmiare denaro, poteva anche essere utilizzata una lamina di stagno dorato.

L’introduzione sistematica di questi accorgimenti tecnici, che si manifesta in Italia centrale nella seconda metà del XIII secolo, trovò nell’opera di Giotto e soprattutto di Pietro Cavallini, che a Roma farà letteralmente meraviglie in quel di Trastevere, la sua applicazione più duttile e rigorosa.

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I MOSAICI MEDIEVALI

Proprio Pietro Cavallini, in quel di Santa Maria in Trastevere, farà bella mostra di sé anche attraverso la tecnica del mosaico.

Tornando indietro nel tempo al momento dell’affermazione ufficiale dell’era cristiana (a partire cioè dal IV secolo d.C.), per quanto concerne l’impiego di materiali ed i procedimenti esecutivi di superfici decorate a mosaico, non furono né evidenti né clamorose le variazioni rispetto alla tradizione della decorazione musiva tardoantica, mostrando anzi una continuità tematica e stilistica.

Col passare dei secoli, però, si affermarono ben presto tendenze e scelte che, oltre alle sempre più esplicite differenziazioni di ordine tematico e religioso, evidenziarono profondi e sostanziali mutamenti anche a livello tecnico. Intanto, ci fu un progressivo e nettissimo predominio della decorazione musiva di pareti, archi, cupole e volte, ossia di tutte le strutture architettoniche in elevato, mentre i mosaici figurati pavimentali divennero invece più rari (oggi Aquileia ed Otranto sono tra i pochi soggetti rimasti). Tutto ciò andò a vantaggio dapprima della tecnica dell’opus sectile, ossia l’interconnessione di preziosi marmi colorati con figurazioni di tipo geometrico, e poi dell’ingegnosa creazione dei cosiddetti maestri marmorari romani del XII e XIII secolo, come i Vassalletto e i Cosmati, che non si dedicarono solo ai pavimenti, ma anche a colonnette e capitelli, pulpiti e altari, come visibile ad esempio nei chiostri di San Paolo Fuori le Mura e San Giovanni in Laterano (visitabili singolarmente o assieme nel Tour delle Basiliche Maggiori).

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Nell’ambito della decorazione musiva figurata, l’aspetto che maggiormente distinse e specificò la caratteristica del mosaico cristiano e bizantino, almeno fino al XIII secolo, fu l’indeterminatezza dello spazio ambiente in cui si collocano le figurazioni, proposte e realizzate secondo una visione fondamentalmente bidimensionale. L’uso sempre più esteso di tessere dorate per gli sfondi legò indissolubilmente la spazialità architettonica con l’intensità suprema della luce come espressione visibile dello splendore e della potenza della rivelazione divina.

Lo stretto rapporto che lega il mosaico all’architettura può ancor oggi spiegare le fasi e i procedimenti della realizzazione. Gli strati preparatori di malta non erano mai inferiori a due, spesso arrivando a tre o quattro: essi erano costituiti da impasti più o meno grossolani a seconda dei materiali (sabbia, polvere di mattone, pozzolana), con la calce come legante fondamentale, alla quale potevano essere aggiunte sostanze organiche come fili di paglia, al fine di rendere il tutto più elastico e resistente in fase di essiccazione. Al fine di favorire l’adesione degli strati preparatori al supporto murario, venivano talvolta adoperati chiodi dalla testa larga e piatta, come ad esempio nei sottarchi.

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La sinopia, ossia l’abbozzo del disegno preparatorio, veniva spesso tracciata direttamente sul muro; l’intonaco subito precedente allo strato di allettamento delle tessere veniva steso su porzioni limitate, ragionando sulla superficie in grado di ricevere le tessere prima della fase di essiccazione, arrivando a simulare il vero e proprio concetto di ‘‘giornate’’ già accennato per la tecnica dell’affresco.

Sullo strato di allettamento era essenziale la stesura del disegno preparatorio come guida per l’inserimento delle tessere: il disegno veniva spesso campito con varie stesure cromatiche, con il risultato aggiuntivo di rendere meno evidente e difforme la cromia realizzata con le tessere rispetto al colore della malta affiorante negli interstizi.

Le tessere erano costituite da frammenti di materiale lapideo di vario colore e di vari materiali, a partire dalla terracotta (molto usata proprio nei mosaici di Pietro Cavallini in Santa Maria in Trastevere) per toccare le paste vitree e gli smalti, giungendo infine a materiali molto preziosi come le “crustae’’ di madreperla (adoperata per realizzare gli addobbi di Teodora nella Basilica di San Vitale di Ravenna).

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Sebbene le paste vitree fossero tutt’altro che infrequenti anche nei mosaici classici, la varietà e la ricchezza delle gamme cromatiche raggiunsero nelle officine di Bisanzio e di Venezia un altissimo esito qualitativo. La base dei materiali costitutivi era ovviamente sempre costituita da silice con l’aggiunta di calce, minio (ossido di piombo), ceneri di piante terrestri e lacustri (per l’apporto di carbonati di potassio o di sodio) con funzioni di stabilizzanti in fase di cottura.

Per colorare la massa vetrosa si usavano degli ossidi, come l’ossido di cobalto per l’azzurro o l’ossido di manganese per il viola. La pasta vitrea dorata era costituita da una sottilissima lamina metallica, sovrapposta a una tessera trasparente, a cui poi si sovrapponeva un vetro trasparente di copertura che, con una fase successiva di cottura, serviva a fissare saldamente la lamina dorata alla tessera di supporto.

Dalle analisi effettuate dagli esperti, è probabile che il taglio delle tessere avvenisse direttamente sui ponteggi, utilizzando un tagliolo e una martellina. Si tendeva anche a variare la gradazione del colore fra tessere adiacenti, per evitare effetti di piattezza: tipico, in tal senso, era l’uso di spezzare l’uniformità di uno sfondo dorato con tessere opache prive di lamine o con un diverso orientamento dell’angolo di posa.

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La grandissima qualità del mosaico parietale medievale nacque quindi proprio dalla strettissima collaborazione tra l’inventore dell’immagine (quello che nell’Antica Roma veniva detto il ‘‘pictor imaginarius”) e chi eseguiva materialmente la messa in opera delle tessere (il ‘‘pictor musivarius’’). Non erano certamente insoliti i casi in cui le due fasi del processo esecutivo coincidessero nello stesso operatore, come dimostra l’iscrizione che si può leggere su un mosaico del XII secolo, a Betlemme, che definisce l’autore “pittore e musivario”.

A partire dal XV secolo, grandissimi artisti Paolo Uccello, Baldassarre Peruzzi e persino Raffaello Sanzio (da scoprire in tutta la sua meraviglia nel Tour dei Musei Vaticani) fornirono cartoni per la realizzazione di mosaici: nel Rinascimento, però, la separazione tra invenzione ed esecuzione era stata sancita, determinando lo scadere del mosaico a pratica fondamentalmente artigianale, di semplice traduzione in pietra dell’idea del maestro.

LA DORATURA

Nel corso di questo articolo si è più volte accennato all’importanza delle decorazioni auree nei mosaici e nella pittura murale medievali, e pertanto è ora opportuno esaminare questo procedimento con una trattazione più dettagliata e specifica.

L’operazione della doratura (o laminatura, nel caso fossero usati metalli diversi dall’oro) era particolarmente complessa e dettagliata. Il procedimento tecnico, sicuramente noto anche ai tempi dell’Antica Roma, partiva ovviamente dalla scelta dell’oro, che doveva essere di buona qualità per evitare ogni alterazione.

La sua riduzione in lamine avveniva con una battitura intensa e protratta a lungo nel tempo: l’oro veniva racchiuso fra due strati di “pelle di battiloro” (pergamena), di forma quadrata e della misura di circa 8 cm per lato, e battuto fino a produrre una lamina di spessore sottilissimo. Al fine di far aderire la lamina metallica agli strati preparatori di un dipinto su tavola, costituiti come si è già detto da più stesure di gesso e colla, bisogna però distinguere le porzioni del dipinto che dovevano ricevere la doratura.  

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Per le dorature destinate agli sfondi, applicate dopo la delineazione del disegno preparatorio, la messa in opera della foglia utilizzava generalmente la doratura a bolo, così chiamata dal nome della terra argillosa di colore giallo/rosso, scelta per la sua particolare purezza. Il bolo andava stemperato, dopo averlo macinato finissimo, in un vasetto in cui fosse stata battuta a neve della chiara d’uovo, con una successiva aggiunta d’acqua. Con un pennello veniva poi steso sulle parti destinate a ricevere l’oro in foglia in quattro successivi strati, aumentando sempre più la quantità di bolo utilizzato. Con una pinza si prendeva a quel punto con molta delicatezza la sottile foglia, dopo aver bagnato la parte dove andava poggiata, e si premeva poi l’oro al bolo leggermente con della bambagia per una più omogenea adesione, ripetendo l’operazione fino a coprire la superficie da dorare.

L’ultima operazione della doratura a bolo era la brunitura, che donava alla superficie metallica una particolare lucentezza: essa consisteva nello sfregare delicatamente la lamina con uno strumento chiamato brunitoio, ossia un’asta di legno cui è attaccata una pietra dura (topazio, granato, zaffiro).

Per la decorazione di particolari minuti, come ad esempio gli abiti, alla doratura a bolo era generalmente preferita la doratura a mordente. Questa utilizza come adesivo un mordente costituito da una miscela di olio di lino cotto, biacca e verderame ben macinato, con l’aggiunta di acqua e successivamente di un po’ dì vernice. Il tutto doveva essere ben bollito. L’oro così applicato non doveva essere brunito e naturalmente deve essere messo in opera dopo la stesura pittorica delle parti da decorare.

Per la definizione delle aureole si eseguiva invece un’altra operazione detta “granare”, che variava con motivi geometrici o vegetali, in piano o in leggerissimo rilievo, la superficie della lamina d’oro.

Come accennato poco sopra, talvolta per esigenze di risparmio la doratura veniva realizzata con una lamina di stagno, opportunamente colorata con una vernice oleosa mista a zafferano per rafforzare il risultato desiderato della simulazione. Era d’altronde lo stesso Teofilo a consigliare “Quod si aurum non habueris nec argentum petulam stagni accipies”.

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