Roma tra bulli e duelli
Quando, il 20 Settembre 1870, i Bersaglieri irruppero nella breccia aperta all’altezza di Porta Pia, la sonnolenta Roma papalina si consegnò agli invasori, pronta a subire una violenta e drammatica accelerazione che avrebbe stravolto il secolare immobilismo.
Dimenticati i tenui colori degli acquerelli di Ettore Roesler Franz, nella sua serie Roma Sparita. Svaniti i fiumaroli, gli acquaioli, i vicoli diroccati ed i luridi mocciosi per le strade. Roma doveva correre veloce per diventare davvero la Capitale d’Italia, mantenendo le proprie peculiarità e caratteristiche anche sotto l’influenza sabauda. La città voleva ritrovare la propria grandezza, ma in ogni rione si percepiva una forte superbia, derivante dall’arroganza millenaria di una città in continua sfida con se stessa.
I numeri dei duelli
La valvola di sfogo di questa violenza repressa e di questa furiosa tensione era il duello, combattuto con armi diverse a seconda delle classi sociali: sciabole e fioretti per i nobili dell’alta società, coltelli e fionde per il minuto popolino. Nel primo caso si partiva da un’offesa verbale, si indossavano camicie bianche in modo da far risaltare gli eventuali sbocchi di sangue e si gridava “A voi!” di fronte a giudici e padrini; nel secondo caso, bastava spesso una sguardo storto, una mezza parola di troppo, un bicchiere di vino versato “alla traditora” (ossia con la mano a rovescio, non fatelo mai nei brindisi di festa…) ed ecco il mantello arrotolato attorno all’avambraccio e le urla gridate nel mucchio “Fora er coltello!”.
Ai nostri occhi moderni, tali consuetudini potrebbero apparire quasi caricaturali, antiche vestigia di una tradizione desueta, che affonda in realtà le sue radici nella Roma medievale. In realtà, sono i numeri della Roma di fine Ottocento, oltre venti anni dopo la presa di Porta Pia, a rendere lapalissiana la realtà dei fatti, ossia che i duelli fossero decisamente uno dei sistemi più diffusi per la risoluzione delle controversie. Prendendo in considerazione solo gli archivi di tre ospedali di Roma (il Santo Spirito, il San Giacomo e l’Ospedale della Consolazione), e vagliando solo i referti che parlino esclusivamente di ferite da punta e da taglio, si hanno 17 morti e 267 feriti nel 1892, 15 morti e 243 feriti nel 1893 e 44 morti e 239 feriti nel 1894. Le cifre, con normali incrementi e decrementi, si mantengono più o meno stabili fino al 1910, anno in cui fra i 18 morti c’è anche Romeo Ottaviani, meglio conosciuto come Er Tinea, conosciuto come uno dei bulli più famosi di Roma, “Er Più” di Trastevere.
Ovviamente, questi numeri non sono altro che una minima parte rispetto alle percentuali reali: molti duellanti, infatti, al fine di non pregiudicare il proprio onore, preferivano non recarsi in ospedale per recarsi a casa, dove spesso morivano fra le mura domestiche a causa delle ferite subite.
Il bullo e il paino
Secondo la tradizione, la parola “bullo” dovrebbe derivare dal termine tedesco “bulle”, ossia toro, da intendersi ovviamente non come il bovino vero e proprio, ma come sostantivo indicante un uomo massiccio, grosso, prepotente e attaccabrighe.
Più che attraverso la storia, il bullo romanesco entra nell’immaginario collettivo dapprima con la Commedia dell’Arte (con maschere farsesche e smargiasse come Squarcio, Ciumaca e Grilletto) e poi con vere e proprie opere letterarie, la più celebre delle quali è senza dubbio “Meo patacca, ovvero Roma in feste nei trionfi di Vienna”, scritta nel XVII secolo da Giuseppe Berneri. Questa opera in versi, scritta nel dialetto romanesco seicentesco, è un documento fondamentale per comprendere sia la lingua parlata a Roma in quel periodo, sia per comprendere al meglio il concetto dei bulli e della vita cittadina all’epoca. Da esso vennero tratti anche svariati film, fra cui quello del 1972 avente come protagonista il compianto Gigi Proietti.
Il poema è ambientato nel 1663, anno in cui i Turchi minacciavano Vienna, roccaforte cristiana dell’imperatore Leopoldo I. Da tutta Europa, gruppi di giovani ardimentosi si preparavano a portare aiuto: tra di essi, anche il monticiano Bartolomeo (Meo) Patacca, che giganteggia fra i bulli dei quartieri rivali. Sul più bello, però, le truppe polacche di re Giovanni Sobieski sorpresero alle spalle l’armata di Kara Mustafà, disintegrandole proprio mentre assediavano Vienna; a quel punto Meo Patacca, impossibilitato a mostrare la sua abilità col coltello misurandosi sui campi di battaglia, decide di fare bella mostra di sé tra le maestose scenografie di festa approntate in città dal Papa per celebrare il trionfo della Cristianità.
Il poema di Meo Patacca permette di comprendere un dettaglio fondamentale per la comprensione dei rapporti fra i bulli di Roma: ad ogni rione, un caporione. Si tratta di una figura autoritaria alla quale chiunque doveva relazionarsi con grande deferenza (gli uomini) ed affascinato timore (le donne), e che ricorda sotto certi punti di vista la figura del capomafia. La differenza fondamentale fra bullo e mafioso è il desiderio di denaro: il bullo non richiede pizzi, non svolge attività imprenditoriale illegale, non compie reati allo scopo di profitto. Il bullo vuole essere rispettato, ammirato, persino onorato, a rischio di spacconeria e a costo della sua stessa vita: anche per questo motivo, molti bulli se ne andavano al Creatore molto prima del compimento dei quarant’anni.
Per lo stesso motivo per cui il bullo non ricerca il denaro ad ogni costo, il bullo non ruba. Il furto è per i perdenti e i disperati, mentre lo scopo del bullo è esaltare il proprio onore, quello della propria famiglia, del proprio rione e della propria città.
In tal senso, il bullo di distingue dal “paino”, e la differenziazione è assai meno sottile di quanto si pensi. Il Paino è un adulatore, vanitoso e smargiasso, ma non ossessionato dall’onore e dalla retorica del duello: il bullo è un duro, mentre il paino finge di fare il duro, ma poi scappa con la coda fra le gambe, per il terrore di rischiare la pelle per una “puncicata de coltello”.
Le punizioni dei bulli
Le colpe che macchiavano indelebilmente l’onore di un bullo erano chiare e marchiate col fuoco nel codice d’onore della categoria.
La prima colpa grave era la pavidità: chiunque fosse sfidato a duello e rifiutasse la tenzone non poteva considerarsi un vero uomo.
La seconda colpa, ancor più grave della prima, era la delazione. Il tabù del tradimento, comune in realtà ad ogni forma di associazionismo criminale, era per i bulli il segno del disonore definitivo: chiunque venisse meno al patto della segretezza, andava segnalato al pubblico ludibrio con un evidente sgarro in faccia. Tutti dovevano tenersi a distanza da una spia.
La terza colpa, conseguente alla seconda e ad essa intimamente correlata, era il mancato rispetto del silenzio. Al termine di un duello, non era mai consentito rivelare il nome di chi avesse inferto la ferita: la vendetta doveva rimanere una questione totalmente privata, sempre che si fosse in grado di vendicarsi e non si preferisse tornarsene a casa a testa bassa e con la coda fra le gambe.
I giovani bulli
Il duello era una tradizione consolidata a Roma, fin dall’adolescenza. Basti pensare che nei rioni di Roma, soprattutto a Trastevere e a Monti, c’erano vere e proprie “scole di punta e tajo”, e che alla fine dell’Ottocento il dono più in voga fra i giovani innamorati romani sopra i 14 anni era uno specifico coltello a serramanico: si tratta del coltellaccio da bullo, da 24, con l’impugnatura sempre impreziosita da ghirigori o dalle iniziali della propria amata, chiusa a casa a sospirare per le eroiche gesta del suo paladino.
I più giovani, per esercitarsi, si incontravano al calar del sole in alcune piazzette di Roma, si avvolgevano la giacca attorno all’avambraccio e si sfidavano in duelli al primo sangue.
Se non c’era la possibilità di adoperare coltelli, come accadeva ad esempio (ovviamente…) al carcere di Regina Coeli, i detenuti adoperavano spazzole aventi le punte intrise di calcina, e chiunque risultasse vincitore dell’improvvisato duello riceveva in premio un sigaro toscano.
Ovviamente, l’addestramento non comprendeva solo la velocità di mano, ma anche quella di lingua. I bulli avevano infatti nomignoli curiosi (er Zeppa, er Porchetta, Er Cicoriaro, er Pomata, er Tinea) ma si caratterizzavano anche per un eloquio assai brillante, una lingua sciolta che faceva fuoriuscire battute salaci e parole affilate, spesso sotto forma di stornelli.
L’epopea di Er Tinea
L’indiscusso protagonista della saga dei bulli romani fu Er Tinea, “Er più di Trastevere”, al secolo Romeo Ottaviani: fu a lui che si ispirò il regista Sergio Corbucci per il suo film “Er più – Storia d’amore e di coltello”, interpretato da Adriano Celentano e Claudia Mori, che potrete vedere in versione integrale al termine di questo articolo.
Una mattina, vedendo una ragazzetta messa in mezzo da Er Malandrinone, capo indiscusso di sessanta papponi trasteverini, gli si avventa contro e lo atterra mollandogli un paio di violenti sganassoni. Le sue gesta passano di bocca in bocca, e la sua casa in Piazza Renzi diventa una sorta di ufficio reclami per il popolo di Roma. Le autorità lo puniscono, schiaffandolo in galera, ma indirettamente lo ammirano, rispettandolo come uomo d’onore, e questo va a discapito dello stesso Ottaviani, poiché inizia a girare la voce che Er Tinea sia amico delle guardie.
La saga non può che concludersi nel sangue: il 4 aprile 1910 Er Tinea viene accoltellato a tradimento a Piazza Trilussa da Bastiano, soprannominato Er Sartoretto, con il Messaggero che, nel suo articolo di necrologio, chiude sarcasticamente affermando che “a vivere fuori dagli schemi si conquistano sì rispetto e ammirazione, ma poi si finisce male”.
Dai bulli ai duelli nobiliari
La rissosità di Roma andava ben oltre i confini dei rioni popolari: i duelli con le spade e le pistole occupavano quotidianamente le cronache, ed i protagonisti erano spesso uomini politici, scrittori, giornalisti e artisti desiderosi di difendere il proprio onore impunemente leso. A dispetto del Codice Zanardelli, entrato in vigore alla fine dell’Ottocento e considerante il duello come un vero e proprio reato, era infatti possibile (e talvolta necessario) difendere il proprio onore anche oltre la legge.
Sia chiaro, questi duelli erano, per la stragrande maggioranza, al primo sangue: per fortuna, fra i nobiluomini aleggiava un diffuso buon senso che evitava che ci scappasse sempre e comunque il morto.
Qualche volta, però, il morto ci scappava davvero. Fu quanto accadde al giornalista e deputato Felice Cavallotti, che venne ucciso in duello da Ferruccio Macola il 6 marzo 1898.
La storia è assolutamente incredibile nella sua evoluzione, e sembra rappresentare un beffardo scherzo di un fato malevolo. Cavallotti, garibaldino ed anticlericale, amava partecipare ai duelli, ed in una precedente occasione aveva perso per una spadata i due incisivi superiori e i due incisivi inferiori; Macola, venti anni più giovane, ne era stato in gioventù caro amico, per poi cambiare idea a causa di un diverso schieramento politico.
Alle ore 15.00, Cavallotti e Macole erano uno di fronte all’altro, accerchiati da una piccola folla di cronisti ed affiancati dai loro padrini. Il duello durò circa tre minuti: Macola, con un assalto talmente tanto preciso da apparire totalmente casuale, sferrò una stoccata verso la bocca di Cavallotti, con la punta della lama che si infilò esattamente nella fessura risultante dall’assenza degli incisivi, arrivando talmente in profondità da recidergli la carotide.
Nonostante le esequie da eroe riservate dal popolo romano a Felice Cavallotti, nonostante il suicidio di Macola che si sparò alla tempia con una pistola e nonostante l’orrore suscitato per l’orribile morte, i duelli proseguirono impunemente a dispetto delle polemiche.
Scorrendo le cronache dell’epoca, infatti, ci troviamo dinanzi ad un permaloso ceto intellettuale, che al tempo usava la spada tanto quanto oggi adoperiamo la querela. Al ricorso in Tribunale si preferiva il lancio del guanto di sfida.
L’8 giugno del 1902, di fronte a Villa Medici, si sfidarono a duello il ministro Prinetti e l’onorevole Franchetti: per la cronaca, esso si concluse con una ferita all’orecchio di Franchetti. Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti maneggiavano la spada da duello come oggi un iroso contendente impugnerebbe fascicoli e carte bollate.
Ungaretti contro Bontempelli
Il caso più celebre del XX secolo avvenne, con ogni probabilità, l’8 agosto 1926 nella villa di Luigi Pirandello, quando si sfidarono alla spada i letterati Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli per una polemica scoppiata nelle salette del caffè Aragno.
Il duello iniziò esattamente alle sei del pomeriggio, poco prima dell’aperitivo già predisposto dallo stesso Pirandello.
Ungaretti, che più che brandire la spada sembrava essere ardimentoso di lingua, fu ferito quasi subito all’avambraccio destro. Gettata la spada, interruppe il duello, si asciugò il sangue, afferrò un calice di vino e brindò a braccetto col suo avversario.
Ecco perché le leggendarie opere dei poeti sono sopravvissute, mentre le azioni dei bulli sono spesso cadute nell’oblio: i primi finivano i combattimenti a bere vino, i secondi su una barella ospedaliera o in un loculo cimiteriale.
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