L’esercito nell’Impero Romano (1/8)

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L’ESERCITO NELL’IMPERO ROMANO

Questa serie di otto articoli del Blog ha lo scopo di dettagliare, in modo completo seppur non esaustivo, le principali informazioni inerenti struttura, composizione, amministrazione, gestione, punti di forza e di debolezza dell’esercito nell’Impero Romano.

Si tratterà di una schematizzazione relativamente semplificata (esistono intere enciclopedie focalizzate sulla materia), che però confidiamo possa essere utile per comprendere le caratteristiche salienti dell’esercito romano, sia dal punto di vista prettamente organizzativo che militare. Al termine di questo lavoro verrà inserito un glossario che consentirà di richiamare alla mente alcuni dei termini adoperati nel corso degli articoli, che diventeranno progressivamente sempre più familiari.   

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Emerso vincitore dal caos delle guerre civili che posero fine alla Repubblica, Ottaviano (30 a.C. – 14 d.C.) dovette in primo luogo provvedere proprio alla sistemazione dell’esercito, congedando con donazioni in denaro, distribuzioni di terre e stanziamenti in apposite colonie la maggior parte dei veterani ancora in armi, troppo numerosi perché potessero essere mantenuti tramite le finanze pubbliche.

Una volta assunto il comando di tutte le armate imperiali, Ottaviano (che finalmente poteva aggiungere al proprio nome il titolo di Augusto) stanziò a Roma un consistente ammontare di forze militari: divenuta praetorium, ossia una sorta di quartier generale imperiale, la capitale ospitò la guardia del Princeps, ossia nove coorti pretorie (che poi diventeranno dieci) composte ciascuna da 500 uomini, 90 dei quali a cavallo. A questo punto fu necessario radunare i pretoriani, che vennero riuniti nei castra (accampamenti) sul Viminale da Seiano, il famigerato consigliere dell’Imperatore Tiberio. Inizialmente i pretoriani potevano essere solo Italici, ma in seguito essi vennero reclutati anche in altre regioni dell’Impero.

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LE FORZE DELL’URBE

In aggiunta ai pretoriani, Roma era presidiata anche da tre coorti urbane (successivamente diventate quattro) aventi funzione di controllo dell’ordine pubblico e, a partire dal 6 a.C., anche da sette coorti di vigiles, che rappresentavano una via di mezzo fra la Polizia Municipale ed i Vigili del Fuoco, avendo al contempo sia compiti di guardia che di prevenzione degli incendi, assai frequenti in particolare nei quartieri più derelitti di Roma. Mentre a Ostia esisteva un’unica caserma dei vigiles (ancora oggi perfettamente identificabile visitando gli scavi archeologici), in ciascuna delle 14 regiones in cui era divisa la città di Roma esisteva almeno una statio, ossia una stazione di guardia, e talvolta un excubitorium, ossia una stazione secondaria, come quella ancora oggi visibile a Trastevere.

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A queste forze si aggiungevano poi un reparto di statores, una sorta di polizia militare dell’epoca, un comparto di equites singulares, che componevano fra l’altro la scorta dell’Imperatore, ed uno di corporis custodes, anche in questo caso guardia personale dell’Imperatore, ma reclutati di solito nelle aree più remote dell’Impero, in modo che non avessero nessun legame con Roma diminuendo così le possibilità di corruzione nei loro confronti. Proprio quest’ultimo corpo, composto in particolare da Batavi (ossia Germani) tanto da essere chiamato anche Numerus Batavorum, venne dapprima sciolto dopo la disfatta di Teutoburgo e poi definitivamente soppresso all’epoca dell’Imperatore Galba (68-69 d.C.).

In realtà, col trascorrere dei decenni, sotto l’Impero di Settimio Severo (193-211 d.C.) la consistenza del presidio di Roma venne più che raddoppiata, e ad esso si aggiunse anche la Legio II Parthica, che aveva il proprio quartier generale non a Roma, nell’odierna Albano.

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LE FORZA FUORI DALL’URBE

Il grosso delle forze imperiali, ossia le legioni e gran parte degli auxilia (le truppe ausiliarie), era però stanziato fuori da Roma e tendenzialmente fuori all’Italia, per tenere a bada quelle Province che all’epoca venivano definite non pacatae, ossia non del tutto tranquille, e pertanto necessitanti di una presenza militare costante, per questioni di confine o esigenze di sicurezza interna. Piccoli contingenti ausiliari presidiavano, con funzioni di ordine pubblico, anche le Province tendenzialmente assegnate al Senato (ad esempio, la Baetica, ossia l’attuale Andalusia) o quelle assegnate all’amministrazione equestre (ad esempio, la Giudea).

LE SUPERSTIONI DI TEUTOBURGO

Composte prevalentemente da cittadini romani, le legioni furono dapprima 28, ma subito dopo la disfatta di Teutoburgo, con le tre legioni perite con la distruzione dell’armata di Varo, essere scesero a 25, senza che le tre legioni perdute venissero rimpiazzate. I Romani furono così tanto devastati da questa sconfitta atroce ed inaspettata che persino i numeri delle tre legioni in questione (XVII, XVIII e XIX) vennero aboliti come nefasti, un po’ come le compagnie aeree che aboliscano le file 13 o 17.

Questa diminuzione, però, durò solo per pochi decenni: i Flavi le aumentarono nuovamente a 29, Traiano le portò a 30 all’inizio del II secolo d.C. e con Settimio Severo, circa un secolo dopo, essere divennero 33.

Oltre che da un numero d’ordine, le lezioni erano contrassegnate anche da uno specifico appellativo, spesso legato all’origine dei membri delle stesse o alle caratteristiche del reparto.

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LA COMPOSIZIONE DELLE LEGIONI

Esaminiamo adesso la parte più complessa di questo paragrafo, ossia la composizione di una legione.

Ogni lezione era composta da dieci coorti, a loro volta contrassegnate da uno specifico numero d’ordine. Ogni coorte si articolava in sei centurie, solitamente identificabili dal nome del centurione al comando. Per mere esigenze amministrative (al fine di identificare i diversi reparti e fissare la gerarchia interna dei centurioni), venne mantenuta l’antica ripartizione degli scaglioni della fanteria pesante legionaria: hastati, principes e triarii. Si tratta di una suddivisione sostanzialmente inutile, perché concretamente ogni distinzione fra di essi era completamente scomparsa. Ogni coorte era composta da 480 uomini, tranne la Prima Coorte che ne contava 800.

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In aggiunta ai fanti, ogni legione disponeva poi di un proprio contingente di cavalleria, pari a 120 uomini divisi in tre turmae. Inoltre, presso ogni reparto esisteva il cosiddetto vexillum dei veterani, ossia un’unità senza organico fisso composta dai soldati che, dopo aver deciso di restare per alcuni anni in servizio nonostante la ferma fosse stata conclusa, venivano destinati a compiti speciali. Tutto ciò considerato, ogni legione comprendeva quindi fra i cinque e i seimila uomini. In tal senso, è possibile affermare che i cittadini romani simultaneamente sotto le armi variassero fra i 150 ed i 180 mila.

Per concludere, ogni legione possedeva altresì un proprio parco di artiglierie, composto da una sessantina fra ballistae e onagri, ossia macchine di assedio di vario tipo, ben descritte nel seguente video.

I NUMERI FINALI DELL’ESERCITO ROMANO

Le legioni erano affiancate dalle truppe ausiliarie, dette auxilia, a loro volta distinte in alae, cohortes e numeri. Reclutati spesso dagli abitanti delle Province privi di cittadinanza, gli ausiliari divennero con Augusto parte integrante dell’esercito romano.

Sia le alae, ossia le unità di cavalieri, che le cohortes, ossia le unità di fanteria, potevano essere quingenariae o milliariae, essendo cioè composte da 480 o 1000 uomini. A seconda della loro consistenza numerica, le ali si dividevano rispettivamente in dodici o ventiquattro turmae, mentre le coorti si dividevano in sei o dieci centurie. Anche ali e coorti erano contraddistinte da un numero e da un appellativo, che solitamente indicava il nome del popolo tra cui era stato originariamente coscritto il reparto (Cohors I Gallorum) oppure il nome dell’ufficiale che aveva formato il reparto o lo aveva comandato per primo (Ala Flaviana).

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I reparti di consistenza più variabile erano i numeri, inviati per lo più da principi alleati o da clienti dello Stato romano: essi operavano principalmente come forze speciali, conservando armamento ed ufficiali indigeni.

Ad ogni legione, sotto gli ordini del medesimo comandante, erano solitamente aggregate truppe ausiliarie di pari consistenza numerica. Per questo motivo, anche se è difficile conoscere con precisione l’ammontare esatto delle forze ausiliarie dell’Impero Romano, è presumibile che l’esercito potesse contare complessivamente su un numero di effettivi variabile fra i 300 ed i 360 mila uomini.

LA CARRIERA MILITARE

Mentre i pretoriani restavano in servizio per sedici anni, la ferma era di venti anni per i legionari e di venticinque anni per gli ausiliari, che però venivano premiati all’atto del congedo con la cittadinanza romana. Tutti, al termine della leva, ricevevano un diploma, da considerarsi un attestato di beneremenza che dichiarava come il soldato fosse stato congedato con onore (honesta missio).

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Ai soldati romani si richiedevano requisiti fisici ben precisi, che differivano a seconda del corpo di appartenenza: per i pretoriani, ad esempio, era prevista una statura superiore a quella delle altre truppe, che era per i legionari attorno al metro e 70, sebbene col passare dei decenni queste norme divennero man mano sempre più elastiche.

L’età media per l’arruolamento era di circa 20 anni, sebbene a seconda dei periodi si potesse scendere fino a 13 o salire fino a 25.

Anche gli stipendi, ovviamente, variarono nel corso delle dinastie imperiali, adeguandosi progressivamente alla costante inflazione, con aumenti talvolta anche sostanziosi: dai 225 denari dell’età cesariana, ai 300 di Domiziano (81-96 d.C.), ai 375 di Commodo (180-193 d.C.), ai 500 di Settimio Severo, fino al balzo particolarmente congruo deciso da Caracalla (211-217 d.C.), che portò la somma a 750 denari. I pretoriani, in quanto corpo di elite, ricevevano una paga decisamente più cospicua, dal doppio al triplo dei normali legionari.

LA CARRIERA MILITARE DEI CITTADINI ROMANI

Dall’età dei Severi in poi, un numero sempre maggiore di queste cariche venne affidato a Praefecti che erano, in realtà, militari di carriera. Col passare dei decenni, infatti, si verificò una progressiva divaricazione tra la carriera civile e quella militare, e pertanto l’editto con cui l’Imperatore Gallieno (260-268 d.C.) vietò ai senatori il comando delle legioni non fu altro che la presa d’atto di una situazione già drasticamente mutata.

D’altronde, per quanto concerne le truppe ausiliarie, non solo il comando era stato gestito dai Prefetti sin dall’inizio, ma col tempo si era creata una vera e propria gerarchia, quasi ci fosse un podio di comando: al gradino più basso la Prefettura d’ala, a quello intermedio il Tribunato di coorte milliaria ed al gradino più alto la Prefettura di coorte.

Anche se la consistenza degli ausiliari venne gradualmente aumentata, in ragione della loro accresciuta importanza tattica, le legioni continuarono a costituire per i primi tre secoli dell’Impero il nerbo dell’esercito nell’Impero Romano.

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L’ORGOGLIO DI ESSERE UFFICIALI

L’esercito romano continuò ad essere, prima di tutto, un esercito composto da cittadini. È vero che il servizio militare aveva da tempo cessato di essere obbligatorio per i cittadini romani, e forse è anche per questo che la componente “italica” diminuì gradualmente fin quasi a scomparire. È però altrettanto vero che questa componente etnica rimase di gran lunga prevalente fra gli ufficiali: il servizio militare, pur non essendo obbligatorio, era fortemente consigliato per gli esponenti della classe senatoria di estrazione italica, poiché era considerato un passo preliminare obbligato per qualsiasi carriera politico. Si trattava di una consuetudine, più che di una norma, ma essa era talmente tanto radicata nei costumi romani da trasformarsi automaticamente in regola di diritto.

Fu proprio il corpo degli ufficiali dunque, grazie alla propria fierezza ed al senso orgoglioso della propria missione, ad assicurare la coesione necessaria ad un’armata frammentata e scaglionata lungo sterminate frontiere.

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LA MOBILITÁ MILITARE

Per il motivo appena specificato, ossia garantire coesione ed esperienza anche nei territori più lontani ed impervi, molti ufficiali venivano continuamente trasferiti da un capo all’altro dell’Impero. Si trattava di una componente fondamentale per la composizione stessa delle truppe, tanto che l’editto di Adriano (117-138 d.C.) che introdusse il principio della coscrizione locale rimase tendenzialmente sulla carta, pressochè inattuato.

Gli ufficiali erano quindi tendenzialmente di due diverse categorie: da un lato c’erano gli Italici stanziati nelle aree depresse dell’Impero, fieri della propria ascendenza, dall’altro c’erano gli ufficiali che erano stati sradicati dai confini dell’Impero e che volevano evidenziare il proprio conseguito riscatto sociale. Le due categorie facevano quadrato per senso di casta, sentendosi parte di un esercito professionista che rendeva tutti sullo stesso piano. Era infatti assai raro che le armate riuscissero ad interagire con le popolazioni locali, preferendo spesso costituire organismi militari a sé stanti, fieri della propria coesione amministrativa e sociale ed orgogliosi della funzione svolta a vantaggio di tutto l’Impero.

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IL CURSUS HONORUM MILITARE

La mobilità dei militari non era solo esterna alle truppe, ma anche interna ad esse. Un graduato poteva uscire dai ranghi di soldato semplice, ma la sua carriera sarebbe stata diversa a seconda del corpo di appartenenza. Al termine del proprio servizio, ad esempio, su parere dei suoi superiori, un legionario poteva essere promosso al grado di centurione; a quel punto era possibile avanzare anche all’interno di questa gerarchia, fino a poter accedere ai primi ordines, per comandare le centurie della prima coorte, o addirittura al grado massimo di primus pilus, diventando così il centurione del primo manipolo dei triarii.

A partire dall’età di Adriano, i più meritevoli o fortunati fra questi personaggi potevano ottenere il comando di uno degli accampamenti legionari sparsi nel bel mezzo dell’Impero (Praefectura Castrorum) oppure persino entrare a far parte dell’amministrazione romana, in qualità di procuratori o funzionari equestri con stipendio pari a centomila sesterzi l’anno, che poteva persino raddoppiare al termine della loro carriera.

LA CARRIERA DEI PRETORIANI

Un pretoriano, invece, nell’ambito dell’esercito nell’Impero Romano, non era solamente privilegiato dal punto di vista militare, ma anche a livello di stipendio e prospettive di carriera. Il percorso era solitamente delineato in modo molto schematico: un pretoriano prescelto per diventare centurione rimaneva inizialmente a Roma, esercitando il comando in successione all’interno dei diversi corpi che costituivano il presidio dell’Urbe, iniziando dai vigiles e terminando con una delle coorti pretorie. Al termine di questo iter, veniva trasferito all’interno dei primi ordines di una legione, per poi tornare nuovamente a Roma ed accedere al tribunato, dapprima fra i vigiles e poi in una coorte urbana.

Giunti spesso ancora giovani a gradi assai elevati, i migliori fra i pretoriani potevano aspirare a stipendi molto elevati (anche duecentomila sesterzi annui) e a ruoli di primo piano, aspirando ad esempio al governo di una delle Province affidate all’amministrazione equestre e addirittura (a patto di godere del favore e della benevolenza dell’Imperatore) alla più alta delle cariche equestri, la Prefettura del Pretorio.

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